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Post-Brexit: regna l’incertezza

Dopo l’uscita del Regno Unito dalla Ue, si apre un periodo di grande incertezza, che coinvolge tutti i protagonisti del voto e tutti i paesi dell’Unione Europea. Su un solo punto sembra esserci quasi totale unanimità di vedute: i danni causati dal referendum saranno profondi e di lungo periodo.

Il brusco risveglio

Con l’isolata eccezione di Nigel Farage, che se ne va felice e soddisfatto, l’esito del referendum sulla Brexit danneggia ogni singolo elettore del Regno Unito, e in molti, nelle aree depresse del Galles o tra gli assessori regionali della Cornovaglia, si rendono conto ora di essersi tirati la zappa sui piedi. Per non parlare dell’immediata angoscia personale dei 3,25 milioni di cittadini europei, cui sembra ragionevole aver negato il voto, e di 1,2 milioni di cittadini britannici residenti all’estero ai quali, invece, aver impedito di votare appare meno giustificabile.

Figura 1

de fraja

 

Tragedie e tradimenti shakespeariani tra i Tory

Le ambizioni politiche di Boris Johnson, graffiante giornalista, comico discreto, ma persona priva di qualsivoglia spessore intellettuale, si sono rivelate puro opportunismo, per giunta frutto di calcoli tattici sbagliati. È ormai perfettamente evidente che Johnson credeva cha la strada più diretta per il numero 10 di Downing Street fosse quella di pugnalare David Cameron, commettendo lo stesso errore di Bruto con Cesare. Ai deputati Tory non piacciono i tradimenti; dopo Johnson, probabilmente elimineranno anche il doppio traditore – prima di Cameron e poi dello stesso Johnson – Michael Gove, il terzo dei tre moschettieri della Brexit. Ministro della giustizia, Gove sembra unire in sé le peggiori caratteristiche di Gollum, con il quale condivide il servilismo viscido mascherato da modestia e una vaga somiglianza fisica, e di Macbeth, del quale ha l’ambizione smisurata e una moglie perfetta per la parte.
Il meccanismo di scelta del leader è la selezione di due candidati da parte dei deputati, seguito dal voto dei membri del partito per scegliere tra i due. Per ora, ma la storia recente suggerisce che non ci si può fidare neppure dei bookmakers, favorita è Theresa May. Ferrea ministra dell’Interno, nell’annuncio della candidatura ha sottolineato la sua estrazione sociale di figlia di un parroco di provincia e nipote di un sottufficiale dell’esercito, certo per distanziarsi dall’etoniano Cameron, ma senza dubbio anche per ricordare agli elettori Tory la similarità con Margaret Thatcher, che era figlia di un droghiere e come May, prima di Oxford, istruita in modeste scuole private.

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Intanto nel partito laburista…

Tra i laburisti, intanto, regna il caos. Il partito è stato catturato da tre distinti filoni di protesta: l’anti-austerità alla Podemos, l’astio verso i politici in stile M5S e il sentimento anti-immigranti che in Italia caratterizza la Lega-Nord. Orchestrati da un’organizzazione tattica estremamente efficiente, hanno in Jeremy Corbyn un leader che, come il cavaliere nero nel film Monty Python e il Sacro Graal, rifiuta assolutamente di accettare l’inutilità della sua cocciuta battaglia per rimanere ancorato alla sedia del potere, nonostante solo 40 dei 229 deputati laburisti si siano opposti alla mozione di sfiducia contro di lui. Il capogruppo parlamentare dei nazionalisti scozzesi ha già sottolineato l’assurdità della situazione: ha 54 deputati che lo appoggiano e ha chiesto perciò di sostituire Corbyn quale “leader dell’opposizione”, posizione che in Gran Bretagna ha un notevole valore costituzionale perché il leader dell’opposizione fa parte del consiglio privato della regina e viene consultato nelle situazioni di emergenza.
Il partito liberal-democratico, al governo fino al 2015 e oggi con solo otto deputati, ha dichiarato che baserà la prossima campagna elettorale sulla promessa di rifiutare la Brexit. Se l’ala social-democratica del partito laburista riuscisse a sradicare Corbyn, potrebbe fare una promessa analoga, accompagnata magari da un accordo elettorale per cui se uno dei due partiti è “senza speranza” in un dato collegio, non presenta lì alcun candidato, lasciando campo libero a quello dell’altro: in caso di vittoria, questa coalizione pro-Europa potrebbe evitare l’uscita del Regno Unito dalla Ue. Nonostante voci eloquenti chiedano al parlamento di ignorare il referendum, ritengo che questa sia l’unica via possibile per ribaltare il risultato del voto.

To free or not to free: questo è il dilemma

Perché tutto ciò possa avvenire, però, il nuovo premier dovrà indire le elezioni, e non è affatto ovvio che i Tory intendano andare alle urne prima di aver concluso le trattative. Per il momento sembra essere chiaro, sia in Uk sia nella Ue, che i principi di libertà di movimento di merci, servizi, capitali e lavoro siano inscindibili: il Regno Unito non potrà chiedere restrizioni per uno senza concedere restrizioni per l’altro.
La misura del danno all’economia britannica sarà proporzionale al livello di limitazioni imposte al movimento dei lavoratori. E non solo perché si accompagneranno a limitazioni al commercio di beni e servizi. L’economia britannica ha bisogno di mano d’opera, qualificata (medici, academici, operatori finanziari) e non (idraulici, braccianti agricoli, muratori): più forti le restrizioni, più forte il flusso in uscita di lavoratori e quello di rientro di pensionati che ora vivono in Spagna.

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11 commenti

  1. Nessun sarcasmo sulla democratica promessa del partito liberal-“democratico”?

    • Emanuele

      Nessun sarcasmo, o il parlamento è sovrano (e quindi è l’unico in grado di decidere su questioni internazionali) oppure siamo in presenza di una democrazia plebiscitaria in cui il parlamento è totalmente inutile.

      • La posizione dei lib-dem è, secondo me, coerente: rispettiamo il voto, ma allo stesso tempo accettiamo che le opinioni possono cambiare. Altrimenti non si sarebbe potuto rifare il referendum del 1975. Se ci fosse un’elezione in cui una coalizione esplicitamente pro-europea vincesse, sarebbe un’indicazione importante che il “sentimento del paese” è cambiato.

        • Spero che il buon senso possa vincere. E sopratutto che vengano rispettate le tradizioni costituzionali del Regno Unito. Fino a prova contraria il referendum parrebbe essere unlaw secondo un’analisi dell’LSE. Due nazioni vorrebbero rimanere, altre due uscire. Quale potrebbe mai essere il senso di un voto in cui si tratta un’entità come quella del regno unito come uno stato regionale…cosa che in realtà non è. La politica inglese sembra ignorare il punto, le petizioni per un judicial review del referendum fioccano. Ma pare che la voce non arrivi. E’ tutto da rifare, sopratutto dato il caos e le menzogne. Non è corretto che a guidare il paese ci siano dei pro UE, mentre i fautori del brexit siano in ritirata.

        • Giorgio

          Gentile Gianni De Fraja, ignoro il funzionamento del sistema elettorale del Regno Unito ma, anche se il partito Lib-Dem vincesse con il favore del 50%+1 degli elettori, credo che sarebbe un’interpretazione molto forzata, quella che Lei propone. Le elezioni politiche non sono un referendum su un unico quesito, dato che i cittadini vengono chiamati a rispondere su un insieme composito, vasto ed eterogeneo di questioni. Solo assumendo che dare un voto ad un partito significhi identificarsi in tutte le sue proposte, potremmo sostenere che un’eventuale vittoria dei Lib-Dem sia il segno del cambiamento a cui Lei fa riferimento.
          Che il referendum sia “solo” consultivo è un dato di fatto, ma la volontà del popolo è quella emersa dal voto.

          • Grazie Giorgio del commento, in realtà non siamo tanto in disaccordo: il punto che volevo fare nell’articolo è proprio quello che il risultato non si può ribaltare con cavilli legalistici (“Ah, il voto era solo consultivo, il Parlamento è sovrano e potrebbe ignorarlo”). Tuttavia se ci fosse motivo di pensare che l’opinione pubblica sia cambiata (o che il 2% della popolazione abbia cambiato idea), si potrebbe tornare sulle decisioni prese, e un deciso successo elettorale di partiti che promettono il rientro nella UE sarebbe un forte indizio che questo cambio di opinione c’è stato. Dopo tutto, così come il matrimonio, neanche il divorzio è per sempre, come hanno dimostrato Elizabeth Taylor e Richard Burton (e i genitori della prima tata dei miei figli, che però sono rimasti sposati).

  2. Piombi

    Ma lasciare uscire lo UK con tutti i suoi opt-out e farla rientrare tra 10-15 anni, 2026-2030, a pieno titolo e nell’euro?

  3. Alessandro Morelli

    Ad ogni modo, il referendum britannico è consultivo.Ciò significa che l’esito del voto non è vincolante e non c’è automatismo tra risultato e decisione successiva di applicazione dell’art. 50 del Trattato. Vedremo se lo sconquasso provocato dall’esito del voto e le minacce di abbandono della piazza da parte di banche e multinazionali non indurranno il Regno Unito a rimeditare sulla questione.

  4. enzo

    non riesco a capire bene l’ultimo passaggio. perché mai i pensionati britannici dovrebbero lasciare la spagna o esserne espulsi. forse che un cittadino extracomunitario non può trasferirsi in spagna? lo stesso per l’immigrazione , il fatto di non far parte della ue non impedisce il flusso da paesi ue come extra ue , solo che ciò avverra in base a regole proprie e non comuni. l’inghilterra è piena di pakistani e indiani per i quali la questione del brexit è ininfluente (in termini procedurali) né credo che nessuno in gb come nella ue impedirà il trasferimento di camerieri italiani in gb o pensionati britannici in toscana . non ci sarà la libera circolazione certo ma non la vedo così tragica

    • I trattati internazionali prevedono che chi ha acquisito diritti al momento del ritiro di un paese dal trattato non li perda. Quindi i pensionati inglesi che vivono a S. Gimignano o Alicante potranno probabilmente restare. Dico probabilmente perché alcuni, tra cui Theresa May, hanno dichiarato che quello che succede ai cittadini UE attualmente in UK è parte della trattativa post articolo 50. Ed è difficile pensare che se l’UK mandasse a casa polacchi rumeni e bulgari, i pensionati in Spagna verrebbero lasciati in pace. Inoltre il diritto di lavorare (ad esempio part-time), il diritto all’assistenza sanitaria nel paese di residenza alle stesse condizioni dei nazionali, tutte queste cose che fino a ieri erano garantite, da oggi non lo saranno più.

      Pakistani e indiani, se non sono cittadini UK, devono avere un visto per entrare, il permesso di soggiorno per restare, il permesso di lavoro per lavorare, non hanno diritto a assistenza sociale e sanitaria, etc. Se non prevale il buon senso sarà così anche per i camerieri italiani a Londra.

  5. Henri Schmit

    Analisi interessante precisa e condivisibile. In particolare sull’interpretazione del dilemma fra potere legislativo supremo e potere supremo del popolo. Il referendum è formalmente consultivo ma in un’autentica democrazia prevale la preferenza del popolo. Non è per questo assurda l’idea del partito libdem da condividere con la nuova direzione labour e difesa anche dall’autore, perché se gli elettori eleggessero – in conoscenza di causa – un nuovo parlamento chiaramente anti-brexit, questa nuova preferenza popolare espressa attraverso la rappresentanza prevarrebbe legittimamente su quella espressa nel referendum. Non è vietato ravvisarsi.

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