La giustizia tributaria è amministrata da giudici onorari scelti senza verifica delle competenze e per compensi irrisori. Ma il processo tributario è più veloce di quello civile e con isolati fenomeni di corruzione. Un sistema figlio di paradossi che riesce comunque a funzionare. Ma per quanto?
Una giustizia figlia di un dio minore
Quella tributaria è una giustizia considerata minore dove, sull’assunto che vi prevalga il dato tecnico-economico rispetto a quello giuridico, si è sempre ritenuto sufficiente un giudice qualsiasi, anche se sprovvisto di ogni conoscenza della materia (o, addirittura, del diritto tout court).
È vero, le statistiche dicono che i processi tributari sono mediamente più veloci di quelli civili. Ma a ben vedere, dipende dal fatto che non c’è la testimonianza (né il giuramento). Nel processo tributario, in via ordinaria, manca infatti l’istruttoria e vi è un’unica udienza. Se c’è un merito non è dell’apparato di giustizia, ma nella conformazione del processo. In ogni caso, c’è poi l’imbuto della Cassazione: nel merito il processo tributario sarà anche veloce ma poi si blocca nella corte suprema. E in Cassazione si va spesso, troppo spesso.
Parliamo della qualità. La sezione quinta della Cassazione (che tratta il tributario) accoglie quasi il doppio (46,5 per cento) dei ricorsi rispetto alle altre sezioni civili (25 per cento) e ciò significa che le sentenze dei giudici tributari sono cassate – ossia annullate – il doppio rispetto alle altre. Neppure troppo velatamente è un giudizio sulla qualità delle sentenze che, se non giustifica, certo motiva i ricorsi in Cassazione.
Le ragioni che hanno indotto a scegliere giudici non di carriera risalgono ai tempi in cui il diritto tributario non aveva una propria dignità, né dogmatica, né tecnico giuridica, e i contenziosi erano su questioni estimative.
Le cose sono cambiate e oggi nessuno può dubitare dell’estremo tecnicismo della materia tributaria. Da qui, l’esigenza di un intervento di revisione.
Qualche cosa si muove
Sul tema è intervenuta una recente proposta di legge delega, con molti elementi di discontinuità rispetto al modello di giustizia tributaria vigente: soppressione delle commissioni tributarie e affidamento delle controversie a sezioni specializzate presso i tribunali; soppressione del consiglio di presidenza della giustizia tributaria; abilitazione all’assistenza tecnica in secondo grado limitata ad avvocati e commercialisti.
Insomma, ce n’è per scontentare tutti.
La proposta ha il pregio di proporre soluzioni che, buone o cattive, costringono a discutere del merito della giustizia tributaria. Pecca di approssimazione e ottimismo (prima di tutto sui risparmi e sull’entrata in vigore) e talune soluzioni sono opinabili (sul reclamo e sulla legittimazione all’assistenza tecnica). Mette però in movimento la discussione sulla riforma, anche se con una “sindrome da fitness”, dove l’importante sembra essere più il movimento in sé che la direzione.
Alla ricerca di una soluzione (non rivoluzionaria)
Il problema della riforma della giustizia tributaria, oltre che quello del costo per le casse erariali (che può essere un problema, ma non certo un ostacolo), è che occorre scontentare qualcuno (e non dovrebbe essere un problema, ma è purtroppo un ostacolo).
Si può però immaginare una riforma che contenga i “sacrifici”, rimodulando lo status quo con una veste nuova e innestandolo in un diverso modello di processo, che si affianchi senza soppiantarlo.
Ciò appare possibile ipotizzando il contenzioso tributario in due fasi.
La prima con una fase di reclamo e mediazione (articolo 17-bis del decreto legislativo n. 546/1992), obbligatoria e senza limiti di valore, davanti a un organo terzo (le commissioni) incaricato di ricercare una soluzione equitativa e con l’obiettivo di smaltire i contenziosi connotati da questioni solo valutative. Ciò giustificherebbe il mantenimento delle attuali commissioni e l’assistenza aperta a tutte le categorie professionali oggi titolate.
La seconda fase si dovrebbe svolgere invece dinanzi a sezioni specializzate dei tribunali. Una fase giudiziale vera e propria, in unico grado di merito e con l’assistenza di soli avvocati (al pari di ogni altro contenzioso).
Infine la Cassazione, con una Cassazione tributaria (non una semplice sezione) e sezioni unite tributarie, a garanzia della nomofilachia (uniforme interpretazione della legge). I filtri sparsi nel corso del contenzioso dovrebbero far sì che arrivino in Cassazione un numero selezionato e contenuto di controversie.
Non si tratterebbe di una rivoluzione, perché restano gli attuali protagonisti. I sacrifici ipotizzati dovrebbero poi essere tollerabili, in quanto “equamente” ripartiti e giustificati dal principio ispiratore del modello.
Ad ogni modo, che la soluzione sia questa, quella della proposta di legge oppure un’altra ancora, l’impostante è che il dibattito non si esaurisca in una fiammata estiva. Una riforma non è più rinviabile perché i paradossi che sostengono l’attuale processo tributario lo porteranno, prima o poi, a un cortocircuito; ed è un lusso, questo, che non ci si può permettere.
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Francesco Vitolo
Nel sottotitolo manca un aggettivo: alle parole «con isolati fenomeni di corruzione» bisogna aggiungere «scoperti».
Piero
Carinci accontenta tutti, meno che i contribuenti.
Giusto, dobbiamo aumentare la qualità delle sentenze. È sufficiente aumentare la qualità dei giudici togati e non, rendendo obbligatoria la formazione.
I giudici non togati, non possono essere pagati a cottimo, inserire l’obbligatorietà di un compenso mensile legato ad un orario prestabilito.
Sono leggeri modifiche che possono essere fatte subito per salvare ciò che vi è di buono nella giustizia tributaria, dichiarata da Carinci minore, ma per gli interessi in gioco forse è superiore a quella ordinaria.