Va per la maggiore l’assunto secondo cui qualsiasi politica culturale genera crescita economica. Ma molti dei progetti proposti dai distretti culturali italiani sono falliti, per scarsa innovazione, localizzazioni e gestioni discutibili. Rimettere in discussione quanto fatto finora per migliorare.

Il valore economico della cultura

In una visita al sito archeologico di Pompei, il Presidente della Repubblica Mattarella ha dichiarato: “Gli investimenti che si fanno nella cultura non sono solo un dovere di qualità della vita sociale ma provocano ricaduta di crescita economica”. L’affermazione del Presidente presenta bene due facce delle politiche per i beni culturali: da un lato, il valore sociale fondamentale e irrinunciabile della cultura e del paesaggio; dall’altro, le attese circa la loro intrinseca capacità di generare valore economico e crescita.
La dichiarazione è stata fatta pochi giorni dopo il lancio dell’iniziativa “Un miliardo per la cultura” del ministro Franceschini, che ha indirizzato fondi europei di sviluppo e coesione in progetti centrati su conservazione e valorizzazione di beni culturali e paesaggistici. Già in passato, fondi europei, statali e non-profit sono stati adoperati per progetti culturali e per iniziative più complesse, come attrattori culturali e sistemi integrati di offerta. Non è chiaro, però, quale sia il grado di innovazione della nuova iniziativa rispetto a quelle passate, né se si sia appreso qualcosa dagli esiti culturali ed economici spesso deludenti dei progetti avviati negli ultimi decenni.

L’Italia come un grande distretto culturale

Il nesso cultura-sviluppo economico ha spesso giustificato importati contributi, non solo pubblici. È il caso dei cosiddetti “distretti culturali”, concettualizzati all’inizio degli anni Duemila da Walter Santagata sulla base di una felice intuizione: come per i distretti industriali, è possibile ottenere vantaggi di agglomerazione e di rete nei sistemi territoriali di offerta e consumo culturale. Il concetto analitico si è presto trasformato in politiche pubbliche. Stato e regioni, province e comuni, associazioni e fondazioni – come Fondazione Cariplo e Acri (Associazione di fondazioni e casse di risparmio) – hanno promosso e finanziato numerose iniziative distrettuali che, per quanto generose e motivate dalle migliori intenzioni, sono spesso naufragate.

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Tabella 1 – Estensione geografica dei progetti di distretto culturale in Italia (elaborazione su dati primari)

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Nella prima indagine a livello nazionale abbiamo individuato e analizzato 68 progetti nati negli ultimi quindici anni con l’esplicita etichetta di “distretti culturali” e varie missioni di sviluppo locale (tabella 1 e figura 1). Solo la metà dei progetti sono attualmente operativi, ma se tutti fossero realizzati, circa metà della superficie nazionale ne sarebbe coinvolta. Insomma, se tutto può essere distretto culturale, forse i distretti non sono nulla di specifico.
Che cosa fanno i distretti? Dall’analisi dei progetti, dalle interviste condotte e dalle informazioni disponibili sui siti istituzionali, emerge che – sebbene i distretti siano apparentemente eterogenei in termini di obiettivi, localizzazione e scala geografica – le attività sono spesso simili e quasi esclusivamente finalizzate al coordinamento dell’offerta, alla conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale e alla promozione turistica (tabelle 2 e 3). Innovazione e specializzazione risultano deboli in termini sia di contenuto che di governance: i distretti sono principalmente coordinatori o facilitatori dell’offerta culturale locale. Di per sé non ci sarebbe nulla di male, sennonché senza vera innovazione è difficile che territori spesso “marginali” possano innescare processi di sviluppo duraturo o competere con circuiti internazionali consolidati come invece promesso.

Tabella 2 – Attività prevalenti nei progetti di distretto culturale in Italia (elaborazione su dati primari)

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Tabella 3 – Funzioni strategiche dei distretti culturali operativi in Italia (elaborazione su dati primari)

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I progetti per la creazione di distretti culturali sono prevalentemente concentrati in aree rurali e città piccole o medie; non riguardano invece le aree metropolitane, fatte salve rare eccezioni. Le grandi città (dove le possibilità di interazione con filiere economiche a più alto valore aggiunto come editoria, design, audio-visivo o musica sono maggiori) hanno reti spontanee e non hanno bisogno di etichettarsi come “distretti culturali” per promuoversi. Al contrario, nei piccoli centri e in provincia poche risorse sono sufficienti per creare consenso politico e inaugurare progetti – talvolta improbabili – di sviluppo fondato sulla cultura.
Molte delle politiche per l’Italia grande distretto culturale non reggono alla prova dei fatti. Sono state sostenute da politici locali e fondazioni, legittimate da esperti e accademici. Gli stessi che oggi sono poco interessati a valutazioni che potrebbero proiettare cattiva luce sulla promozione di nuovi distretti e della cultura in generale.
Qualcuno dirà che la retorica della crescita economica innescata dalla cultura è sempre positiva, anche quando è infondata, perché permette di aumentare le risorse disponibili per un settore tradizionalmente non affidato al mercato. Crediamo invece che un dibattito franco e non troppo semplificatorio aiuterebbe a migliorare le politiche culturali, a evitare strumentalizzazioni da parte di alcuni e lo scoramento di cittadini, amministratori e fondazioni di fronte a progetti fallimentari. Solo in questo modo, si potranno sostenere le politiche culturali innanzitutto per il loro valore civico e sociale e in secondo luogo perché si condivide una visione realistica e responsabile dei suoi nessi con lo sviluppo del nostro paese.

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Figura 1 – Localizzazione delle iniziative per distretti culturali in Italia. In alcuni territori, i progetti distrettuali hanno interessato l’intera superficie regionale

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