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Per la crescita ripartire dalle risorse umane

L’Italia è cresciuta ben poco negli ultimi venti anni. Tra le tante cause, è rimasta in secondo piano la questione di come gli imprenditori italiani selezionano e gestiscono le risorse umane. La meritocrazia latita, nel settore pubblico e in quello privato. Inutile intervenire solo sulla scuola.

Quanto rende il capitale umano

La bassissima crescita italiana degli ultimi venti anni è stata attribuita a varie cause: il peso della fiscalità, l’inefficienza del settore pubblico, gli effetti dell’euro, l’eccesso di regolazione dei mercati, la scarsa qualità del sistema formativo e la conseguente mancanza di capitale umano qualificato. Poca attenzione è stata dedicata agli effetti che sulla produttività hanno le pratiche di reclutamento e gestione delle risorse umane da parte del sistema imprenditoriale. Eppure, la letteratura economica recente ha evidenziato come sia proprio questo uno dei fattori più importanti nel determinare le differenze tra paesi.
Al netto degli effetti del sistema fiscale, che pesa molto nei paesi del Nord Europa dove sono fortemente redistributivi, un indizio indiretto della bontà di questi meccanismi è fornito dal rendimento effettivo delle competenze alfanumeriche della popolazione (figura 1).

Figura 1

Figura1
Il rendimento viene calcolato attraverso l’incremento percentuale delle retribuzioni corrispondente alla variazione delle competenze alfanumeriche, così come misurate attraverso i test somministrati alla popolazione adulta (indagine Ocse-Piaac – Programme for the International Assessment of Adult Competencies).
Il vantaggio dell’indicatore del rendimento del capitale umano è che non risente dei problemi connessi all’utilizzo del titolo di studio (ad esempio, la variazione percentuale delle retribuzioni legata al possesso della laurea rispetto al diploma di scuola media superiore) accusato, soprattutto in Italia, di non essere capace di cogliere le sottostanti abilità effettivamente possedute dai lavoratori.
Il rendimento dovrebbe dunque crescere nei sistemi più efficienti nell’utilizzare le proprie risorse umane e ciò dovrebbe avere effetti sulla crescita. E infatti in un recente esercizio si mostra come vi sia una relazione statisticamente forte tra il rendimento delle competenze misurate attraverso il test Ocse-Piaac e la crescita registrata da 32 paesi. Non sorprende scoprire che l’Italia si trova nelle ultime posizioni in classifica: ha fatto registrare un rendimento tra i più bassi che sembra spiegare il più basso tasso di crescita, tra il 1990 e il 2011, all’interno dei 32 paesi (figura 2).

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Figura 2

Figura2

Aziende piccole e poco meritocratiche

Le distorsioni nelle pratiche di reclutamento e di gestione delle risorse umane nel settore pubblico sono un dato spesso richiamato e per certi versi assodato. Minore consapevolezza si riscontra, invece, sul contributo che il settore privato dà a quest’esito negativo.
Per legittimare questa lettura delle possibili cause della mancata crescita italiana è necessario fare un passaggio logico: occorre verificare cosa sia cambiato rispetto al passato – prima del 1990, quando l’Italia cresceva – che possa spiegare il mutato ruolo del capitale umano. Le chiavi del cambiamento sono rispettivamente la globalizzazione e la diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Entrambi i processi hanno reso centrale nell’economia il ruolo delle risorse umane e della capacità di valorizzarlo. Una capacità, quest’ultima, che deve essere presente soprattutto nelle classi dirigenti dei paesi, sia in ambito pubblico sia in ambito privato.
Bruno Pellegrino e Luigi Zingales hanno attribuito la mancata crescita italiana proprio alla scarsa meritocrazia nel reclutamento del personale da parte delle piccole imprese italiane. Questa lettura trova conferme in alcuni contributi che mostrano come uno dei tratti distintivi del nostro sistema imprenditoriale sia la prevalenza di piccole e medie aziende a gestione famigliare che si caratterizzano per stili, sia nelle pratiche di reclutamento che di gestione, poco adatti alla valorizzazione delle risorse umane: in particolare, la tendenza a utilizzare meccanismi di reclutamento informale e a selezionare i manager all’interno della famiglia, l’adozione di modelli organizzativi molto centralizzati, lo scarso uso di sistemi retributivi premiali. Ulteriore sostegno alla tesi proviene dal lavoro di Fabiano Schivardi e Roberto Torrini dove si mostra che un imprenditore laureato – in un paese come l’Italia che ne ha una ridotta quota – assume il triplo di laureati rispetto a uno non laureato.
Tutto ciò dovrebbe indurci a pensare che riforme del sistema d’istruzione, motivate dall’idea che la causa della mancata crescita sia l’inadeguatezza del capitale umano, sono destinate al fallimento o ad accentuare il fenomeno della “fuga dei cervelli” se non sono accompagnate da politiche industriali volte a riqualificare il sistema imprenditoriale e la sua capacità di valorizzare la conoscenza.

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18 commenti

  1. Lorenzo Boscarelli

    Concordo con le conclusioni dell’articolo, pur avendo dubbi sulla significatività dei dati presentati. L’esperienza professionale, acquisita in 40 anni di lavoro come consulente di management, mi porta ad aggiungere una considerazione. Negli anni Settanta una forte spinta all’innovazione organizzativa venne dalla conflittualità sindacale; le aziende furono costrette a inventarsi forme organizzative più flessibili e responsabilizzanti, il che provocò anche un miglioramento complessivo delle competenze degli addetti. Oggi, la virtuale scomparsa del sindacato nella stragrande maggioranza delle aziende le priva di un incentivo ad innovare l’organizzazione e, a volte, anche i mezzi di produzione.

    • FRANCESCO FERRANTE

      Mi fido di Hanushek…..

      • Al

        Gentile Professore, grazie per questo articolo. Ha espresso in dati la storia dei miei colloqui in Italia. Ora vivo in Belgio, con possibilità di rientro in Italia pari a zero/meno uno. Mi auguro venga accolto l’appello a “politiche industriali volte a riqualificare il sistema imprenditoriale e la sua capacità di valorizzare la conoscenza”: Si tratterebbe di una apertura davvero innovativa per l’Italia.

    • FRANCESCO FERRANTE

      Condivido l’idea che una sana dialettica sindacale possa risultare utile, anche sul piano distributivo (tesi sostenuta anche dal FMI).

  2. davide445

    Pretendere di migliorare la gestione dei talenti in società sotto le 15 persone é a mio parere una ottima opportunità di consulenza ma con un risultato atteso del tutto sotto l’investimento. Se togliessimo I lacci normativi e politici che preferiscono società piccole a quelle grandi e capaci di competere a livello internazionale avremmo una selezione naturale positiva dei manager ed un travaso di competenze dall’esterno, con anche il beneficio di una maggiore competitività. Il nanismo non si risolve prendendo laureati dato ha motivi strutturali. Se poi ci diciamo che visto per ora non si può fare di meglio e ci accontentiamo allora possiamo dire Italian as ususal.

    • FRANCESCO FERRANTE

      Per quanto concordi sugli effetti negativi della regolamentazione eccessiva, non sono così convinto che la causa prima del nanismo sia da addebitare all’eccesso di regolamentazione. Credo che la causa profonda sia il ritardo complessivo del Paese sul piano dei livelli di istruzioni, riscontrabile soprattutto nella popolazione adulta, ritardo che si riflette a cascata sui comportamenti manageriali, imprenditoriali e, in generale della classe dirigente.

      • davide445

        Senza pretesa di accuratezza scientifica, normativamente il trattamento differenziale tra aziende sopra e sotto le 15 persone è ancora valido. Lavorando sia con aziende multinazionali che startup, ed essendo stato anche più volte responsabile aziendale (nei casi piccoli) la mia percezione è che la rigidità nei rapporti di lavoro sia uno degli elementi più distorsivi nel motivare le risorse nelle grandi società e nel permettere alle piccole di crescere. A livello di small micro enterprise non ci sono capacità di investimento, di attrarre talenti, di pianificare sul lungo termine. La storia del 99% delle aziende italiane.

      • Hk

        Grazie per aver portato il tema. Ma da piccolo imprenditore le prime cose che mi vengono in mente come difficolta a crescere: superare la barriera del suono dei 15 dipendenti, marginalità bassa che non crea autofinanziamento, cultura anti impresa dei lavoratori e università che non fanno il loro mestiere

        • FRANCESCO FERRANTE

          Non mi sembra che in questi anni non si sia intervenuti sulla regolamentazione del mercato del lavoro, per ultimo il Jobs Act, con effetti che tutti conosciamo sulla produttività. Le imprese anziché utilizzare i margini di flessibilità acquisiti per investire hanno puntato a ridurre il costo del lavoro. Per quanto riguarda le università, sicuramente c’è molto da migliorare. Resta il fatto che i nostri laureati vengono apprezzati all’estero, sopratutto quelli di cui si lamenta l’assenza in Italia e che preferiscono espatriare (ingegneri informatici) : mentre le imprese estere assumono laureati italiani le nostre, che si lamentano dei nostri laureati, non assumono laureati esteri: come mai? Perché l’immigrazione qualificata privilegia altri lidi? Per ultimo le rammento che, a parità di potere d’acquisto (dati OCSE 2009) produrre un laureato in Italia costa la metà che in Germania e il 70% in meno che in Spagna.

          • Hk

            La ringrazio per aver risposto. Ha ragione a ricordare che il job act ha agito positivamente, purtroppo il suo effetto quantitativo è assai modesto per auello che posso dirle della mia impresa salvo la decontribuzione dello scorso anno, che lei sa, è un intervento temporaneo.
            Mi chiedo cosa ci sia di male a ridurre i costi in una fase di deflazione. Magari è l’unico modo per garantire alla maggior parte dei collaboratori uno stipendio per qualche anno almeno. Forse. Non ho capito bene cosa intendeva con il fatto che un formare un laureato costi poco in Italia? Il problema che rilevo almeno dalle mie parti è di corsi a misura di docenti anzicchè utili alla formazione dei nostri prossimi ingegneri ad esempio. E che dire di docenti senili che pretendono di insegnare se così si può dire moderne tecnologie…

          • FRANCESCO FERRANTE

            Mi sono riferito al costo dei laureati perché in Italia si pretenderebbe di produrre capitale umano della stessa qualità di quello, ad esempio, tedesco, spendendo la metà. E’ come se si chiedesse alla FCA di produrre auto dello stesso segmento di quelle tedesche ad un costo pari alla metà.

  3. fabrizio

    Tutto vero sull’importanza della selezione del capitale umano per lo sviluppo. Ma forse è meglio evitare le correlazioni biunivoche semplicistiche. Se nella Fiig. 2 provassi a togliere due outliers come Singapore e Cile forse la linea di regressione risulterebbe prraticamente piatta, suggerendo che la crescita del reddito reale pro capite in una coss-section di tati paesi NON dipende così chiaramente dai rendimenti alle competenze alfanumeriche.

    • FRANCESCO FERRANTE

      Gli autori del lavoro cui si riferiscono i dati meritano una maggiore considerazione!

  4. bob

    La meritocrazia è figlia diretta della cultura civica ( cultura è cosa diversa da scuola) . Il Paese del ” prenditi il pezzo di carta” il paese del ” conosci qualcuno” non conosce la meritocrazia, non conosce il cv. E la cultura civica di un paese si costruisce con generazioni. Dal ’68 in poi (sei politico) il Paese è finito e non si rimette in piedi con 4 giorni

  5. fatti neri

    egregio prof ho trovato interessante l’articolo, evidenzia un grave handicap italico, lo scollamento tra domanda e offerta. però io penso questa analisi sia inesatta: purtroppo il punto non contempla i grandi numeri che in italia sono quelle aziende a gestione familiare e piccole imprese che lei cita come esempi negativi a tal fine. a parte il fatto che lavorare in queste non si traduce in minor professionalità, anzi direi è l’opposto, mi dovete dire dove vede questi innumerevoli posti di lavoro in italia se non nella somma delle piccole p.iva? ecco che dalla tassazione alla semplificazione passando per la sicurezza del territorio con una giustizia celere tutti i problemi sarebbero risolti e questo senza perdere maestranze come sta accadendo negli ultimi anni specie nell’indotto edile disintegrato dal governo monti a colpi di tasse. se l’articolo volge a puntare su modelli industriali o di competenze dove la concorrenza estera ci annienta con il gap fisco-salari ritengo il quanto pura utopia. abbiamo arte-storia-cultura-cucina-natura,,,puntiamo su questo, turismo-ristorazione-intrattenimento, dove non ci possono battere.saluti

    • FRANCESCO FERRANTE

      Le mie informazioni frutto di 30 anni di interazione con le imprese mi dicono che la sua visione è parziale. I cattivi non sono tutti da un alto del tavolo. Per quanto il carico fiscale e contributivo siano elevati credo che l’ampia evasione da sempre registrata in Italia, anche quando le aliquote erano molto più basse, faccia parte dei costumi del Bel Paese. Questo produce anche gravi fenomeni di concorrenza sleale che non favoriscono la crescita. Il mancato rispetto delle regole, anche quando sono eque, è uno sport nazionale.

      • fatti neri

        attenzione a buttarla sull’evasione fiscale,,, come intellettuali avete solo da perdere: il costume nazionale è un riflesso,,,, o i condoni per far rientrare capitale li fanno per baristi e fruttivendoli? a maggior ragione dovreste attenzionare leggi come La direttiva Bolkestein che una volta applicata in Italia porterà i nostri lidi nelle mani delle mafie o di personaggi che si sono arricchiti in modo dubbio fin allo sfruttamento dei suoi simili nei paesi dove la democrazia e diritti sono sogni. con osservanza, la saluto, buon lavoro

  6. Emanuela Giusi Gaeta

    La dinamica della dimensione delle imprese non è lineare ma mostra una soglia dei 15 addetti, peggiorando negli ultimi anni, così mostra l’ISTAT. Si cresce meno anche perchè nel processo di selezione del personale, la sua produttività segue dinamiche diverse da quelle che le leggi di mercato impongono, facendo spesso da attrito alla crescita. La produttività resta sempre una variabile visibile solo ex post da rendere credibile, a cui spesso non fa da garante un’esperienza lavorativa o un titolo, ma un nome! E i nomi….non sono una variabile responsabile della crescita, ma quelli dei politici si!;-)

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