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Cambiamenti climatici: quanto conta la responsabilità storica

Attraverso una “trilogia del carbonio” proponiamo una riflessione su alcuni grandi temi legati al fenomeno dei cambiamenti climatici. Iniziamo dalle responsabilità storiche, ovvero i valori cumulati di emissioni e il contributo dei paesi industrializzati o in via di sviluppo nel periodo 1990-2014.

L’attività umana cambia il clima

Mentre a Marrakech si discute incessantemente sul futuro del negoziato sul cambiamento climatico – anche alla luce delle recenti presidenziali statunitensi – può essere utile riflettere su alcuni temi più generali. Uno fra questi, più volte evocato, riguarda le responsabilità dei singoli paesi. Nel gergo negoziale, il tema delle responsabilità storiche.
Con la perifrasi si intende evidenziare il ruolo (la responsabilità) svolto dai paesi industrializzati rispetto a quello delle nazioni in via di sviluppo nella origine e nella espansione del problema. Le diverse responsabilità devono essere considerate partendo da una prima e fondamentale informazione. Le concentrazioni di gas serra in atmosfera dipendono dall’attività umana o, più esattamente, dall’uso di fonti fossili. Il tempo che dobbiamo tenere in considerazione riguarda tuttavia non l’ultimo anno o l’ultimo decennio ma, a causa del lento decadimento di questi gas in atmosfera, l’insieme delle emissioni a partire dalla rivoluzione industriale.
Tutto queste informazioni ci portano a concludere che i paesi e le diverse generazioni che si sono susseguite potranno essere chiamate responsabili – in quanto hanno contribuito nel passato, contribuiscono nel presente e contribuiranno nel futuro al cambiamento climatico – in proporzione alle emissioni totali.

Le responsabilità storiche

Un primo modo di guardare alle responsabilità storiche consiste nel concentrarsi su valori cumulati di emissioni per un dato periodo. Una volta calcolati questi, si valuta la quota per ogni singolo paese o area rispetto al totale.
In questo caso il periodo di riferimento è il 1990-2014. La scelta dell’intervallo non è casuale. Sin dalle prime riunioni fra i paesi firmatari della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (Rio de Janeiro – 1992), il tema delle responsabilità storiche è stato avanzato dal G77, una organizzazione intergovernativa delle Nazioni Unite formata da 131 paesi, che rappresenta principalmente quelli in via di sviluppo. Una chiara rappresentazione dei risultati di questa pressione politica, si ritrova nell’articolo 3 comma 1 della Convenzione, che chiama i paesi a una “(…) common but differentiated responsibility” (una responsabilità comune, ma differenziata) nell’affrontare il tema del cambiamento climatico.
La nozione di responsabilità storica è divenuta ancora più centrale quando, nel contesto dei negoziati di Kyoto (Cop3 – 1997), il Brasile ha lanciato una proposta in cui le emissioni cumulate dal 1840 fino a quella data venivano utilizzate come punto di riferimento per la definizione degli obiettivi di riduzione per i paesi partecipanti ai negoziati. L’effetto evidente di una manovra di quel tipo è che gran parte dell’onere, anche economico, collegato al problema del cambiamento climatico veniva spostato verso i paesi industrializzati. Anche se la proposta brasiliana è stata criticata, soprattutto per motivi metodologici, l’affermazione della responsabilità storica non è certo scomparsa; al contrario, rimane il principale argomento utilizzato da parte dei paesi meno industrializzati per sostenere che quello del cambiamento climatico è essenzialmente un problema dei paesi ricchi.
Normalmente si utilizzano le emissioni cumulate cercando di tornare indietro nel tempo quanto più possibile. In questo caso, invece abbiamo preferito mostrare i dati dal 1990, a sottolineare il fatto che alcune dinamiche Nord-Sud possono essere ritrovate anche a partire da un anno in cui il tema dei cambiamenti climatici era già ampiamente all’ordine del giorno.

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I risultati

Il primo elemento che emerge è la chiara differenza tra Cina e India, due paesi considerati talmente simili da essere menzionati dalla stampa come un’unica nazione fittizia rinominata Cindia.
Dal punto di vista delle emissioni cumulate la storia è molto differente. La Cina vi contribuisce per un valore che è vicino a cinque volte quello dell’India: 18,9 per cento contro 4,25 per cento.
Un secondo punto molto interessante riguarda il ruolo che gioca il Medio Oriente, visto qui nella veste di consumatore che emette CO2 e non in quella più nota e tradizionale del produttore di energia: l’area ha contribuito quanto l’India alle emissioni globali.
Non è sorprendente che l’Oecd America – aggregato che comprende Stati Uniti, Canada e Messico – produca quasi un quarto dell’emissioni complessive nell’intervallo 1990-2014. E, come è ovvio, gli Stati Uniti giocano la parte principale.
L’aggregato Oecd Europa non coincide con l’Unione europea, che non considera alcuni paesi (Islanda, Norvegia, Svizzera e Turchia). Rappresenta comunque un buonissimo indicatore delle responsabilità europee in questo settore. Con il 15,2 per cento delle emissioni cumulate è in ogni caso un’area di importanza cruciale.
Gioca infine un ruolo di peso la Russia, che si trova a essere il paese di gran lunga più ampio dell’aggregato non-Oecd Europe.
Ma siamo proprio sicuri che la logica finora seguita nell’esaminare le responsabilità storiche sia l’unica percorribile? Ne discuteremo nel prossimo articolo.

Figura 1lanza

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  1. Alberto

    Se le concentrazioni attuali di gas serra in atmosfera dipendono dall’attività umana o, più esattamente, dall’uso di fonti fossili, perché nel passato ci sono state glaciazioni (ben quattro) seguite da un surriscaldamento che hanno sciolto i ghiacci ? La Groenlandia si chiama Gruen Land (terra verde), secondo l’autore come può una terra verde essere coperta da ghiacci ? L’autore si è andato a studiare la teoria astronomica delle glaciazioni, oppure la concentrazione di CO2 nell’atmosfera negli ultimi 650.000 anni ?

    • Bruno

      Gentile sr. Alberto,
      sono argomenti triti e ritriti, e anche se fa molto “chic” fare i negazionisti, a livello scientifico tutte le bufale e panzane sono gia state ampiamente smontate una ad una.
      C’e’ un consensus scientifico al 98% (il consensus sul fatto che la terra sia tonda e non piatta e’ al 99%), e questo dovrebbe essere abbastanza per far capire le futilita di provare ancora a convincere chi non si vuole far convincere. Le motivazioni dei negazionisti, quando non economiche, sono ideologiche (esposte con un poco poco di “scientifichese”, sperando di far colpo su qualche sempliciotto).
      Se si vuole dare arie da intellettuale senza sforzarsi troppo vanno molto meglio i libri di filosofia, che e’ sempre un’opinione.

      Saluti,

  2. ettore falconieri

    Un conto è il non inquinare l’atmosfera cui tutti devono essere impegnati, altro è dire che l’inquinamento è causa del riscaldamento. L’argomento è di moda, ma basta scorrere la storia (viaggi oltralpe, vestiti, accadimenti vari d’inverno etc ) nonchè vari studi sul clima antecedenti la piccola era glaciale del quindicesimo secolo per concludere che si sta tornando alle temperature precedenti quando non vi era inquinamento. E scienziati che lo affermano sono zittiti.

    • Alberto

      Che nel corso dei millenni la concentrazione di CO2 abbia influito sul clima, non significa che l’uomo non contribuisca in modo determinante ad un suo aumento. Quindi una cosa è sostenere che l’attività antropica sia responsabile di incrementare gli effetti di un fenomeno naturale, un’altra è sostenere che sia SOLO ed esclusivamente connessa ad attività umana. L’oscuramento globale o global dimming causato dalla presenza di particolato sospeso in forma di aerosol potrebbe contrastare gli effetti di aumento della temperatura dovuti al CO2 e spiegare alcune variazioni climatiche come il raffrescamento della parte EST degli USA rispetto la parte OVEST. Essere poi impegnati per diminuire l’inquinamento da combustibili fossili è importante, fosse solo per mitigare le malattie respiratorie (e non solo) che questo comporta.

  3. Paolo Zappavigna

    Curiose queste osservazioni negazioniste. A parte che su questo deve pronunciarsi la comunità scientifica, mi pare che sfugga a qualcuno il “principio di precauzione”.

  4. Molto interessante. Tempo fa avevo pensato ad una ponderazione (di prezzi per tonCO2 o di quantità da meettere) basata sulla distanza dalla media delle emissioni procapita cumulate. Lo trovate qui CO2 price and historical responsibility – A cardinal measure of emissions rights
    http://www.locchiodiromolo.it/blog/wp-content/uploads/2016/11/Fiorito_CO2_price_oct_2014.pdf

  5. Stefano Bargelli

    Ho trovato interessanti le info grafiche in questo sito: http://www.carbonmap.org/

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