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Riforma Madia, occasione persa per cambiare la Pa

Alla fine, la riforma Madia si rivela più una revisione della legge Brunetta che un passo verso una Pa più organizzata ed efficiente. Gli elementi di regolazione formale prevalgono sulle modalità operative. E restano tutte le contraddizioni dell’ordinamento del lavoro pubblico “privatizzato”.

Riforma Madia dopo i decreti attuativi

La riforma della pubblica amministrazione avviata dal governo, con l’approvazione di una serie di schemi di decreti delegati attuativi della “riforma Madia” (legge 124/2015), appare soprattutto un ripensamento della precedente legge Brunetta, più che un vero passo verso una Pa meglio organizzata e più efficiente.
L’attenzione del legislatore è ancora concentrata più su elementi di regolazione formale, che non sulle modalità operative con le quali migliorare l’operatività.
Si pensi al ruolo della contrattazione collettiva. Adempiendo all’impegno assunto con i sindacati nell’accordo del 30 novembre 2016, la riforma assegnerà ai contratti collettivi nuovamente ampi poteri di deroga alle leggi nella disciplina del rapporto di lavoro (per quanto molte materie – come organizzazione generale, incarichi e revoche dei dirigenti, responsabilità amministrative – resteranno escluse).
L’estensione del potere normativo dei contratti, però, è solo uno strumento astratto e rischia di rimanere tale se non calato nella realtà. Il rapporto di lavoro pubblico è “contrattualizzato”, cioè avvicinato al modello privato, ma se ne discosta per molti aspetti, il primo dei quali è costituito dalle regole di finanza pubblica che condizionano pesantemente l’autonomia contrattuale. Il potere di deroga dei contratti è connesso al potere di spesa del datore di lavoro: nel privato i vincoli sono autodeterminati, nel pubblico sono fissati dalla legge, che prevede i noti tetti alla spesa del personale e alle assunzioni, connessi a fortissimi poteri ispettivi e a pericoli di danno erariale.
La sostanziale assenza di autonomia contrattuale rischia di rendere la maggiore forza normativa dei contratti più un rischio che un vantaggio, anche per la scarsa capacità delle amministrazioni di agire davvero come “datore di lavoro” a interessi contrapposti con organizzazioni sindacali.

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Valutazione e lotta ai furbetti

Sulle valutazioni dei risultati si possono trarre conclusioni analoghe. La riforma abbatte il sistema eccessivamente rigido e dirigistico delle tre fasce di valutazione imposte dalla legge Brunetta e lascia spazio proprio ai contratti collettivi per fissare i necessari criteri di differenziazione delle valutazioni. Ma ancora una volta la riforma concentra troppo l’attenzione su “come” si valuta, senza indicare “cosa” c’è da valutare. È certamente utile sapere che un ufficio anagrafe comunale debba essere valutato con strumenti tali da incentivare davvero i più produttivi. Però, occorrerebbe sapere cosa valutare: il numero delle carte di identità prodotte? Oppure i tempi di attesa nell’attività dello sportello? Indicazioni, queste, che latitano nella riforma, mentre sarebbe stato opportuno che si interessasse di lavoro agile, telelavoro, modalità nuove di rendere i servizi, basate sulla dematerializzazione logistica e più orientate sui prodotti da rendere ai cittadini.
Anche la sacrosanta lotta a chi truffa lo Stato, spacciandosi per presente mentre è a casa o a fare la spesa, appare ancora da perfezionare. Il problema non si risolve solo fissando regole procedurali. Bene che il procedimento disciplinare sia secco e breve, meglio ancora che, come prevede la riforma, vizi procedimentali (come violazioni di termini) non producano decadenze e consentano comunque di emanare la sanzione. Ma la lotta all’assenteismo richiede soprattutto regole operative, anche piuttosto semplici. Il legislatore potrebbe indicarne almeno due come obblighi irrinunciabili. Il primo è imporre l’ingresso con tornelli e strumenti biometrici di segnatura della presenza. Il secondo è obbligare le amministrazioni a concordare tra loro convenzioni per svolgere reciproci servizi di ispezione a sorpresa nelle sedi, per verificare la corrispondenza tra timbrature e presenza in servizio.
Come sempre, poi, si conferma la contraddizione di un ordinamento del lavoro pubblico che si vuole “privatizzato”, ma si distanzia sempre più dal privato. Ne è prova la consueta ed ennesima “stretta” sul lavoro flessibile, che si accompagna ormai sempre a un’ondata di stabilizzazioni di personale precario.
Ulteriore elemento di divaricazione tra lavoro pubblico e privato sarà dato, poi, dall’introduzione della reintegra nel caso di licenziamento illegittimo. La previsione chiude la diatriba alimentata anche da contraddittorie sentenze della Cassazione sull’applicazione della tutela reale nel mondo del lavoro pubblico, dopo le riforme all’articolo 18 prodotte dalla legge Fornero e dal Jobs act. Il legislatore ha scelto di chiarire la questione, disponendo una norma speciale per il lavoro pubblico, che deroga al sistema privato (come per altro molte volte evidenziato su queste pagine quale strumento unico per garantire la tutela reale nel lavoro pubblico). Il che, appunto, differenzia profondamente lo status dei dipendenti pubblici da quelli privati. Il problema starà nel comprendere se costituzionalmente la divaricazione sia del tutto legittima.

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Il Punto

  1. Aldo Mariconda

    Credo tutto giusto, ma mi domando: Quali sono i tassi di assenteismo nel Pubblico rispetto al Privato? Quale ilruolo e la responsabilità dei capi, a volte complici o con le stesse abitudini dei furbetti del cartellino? Come sono dimensionati gli organici, magari sovradimensionati, tali da non accercersi in termini di performance del tasso di assenteismo? Vi sono dei parametri di performance, tipici del controlling aziendale con un’attenta e costante analisi degli scostamenti?

    • giangi

      Il tasso di assenza (non di assenteismo) è diverso perché nel privato c’è un tasso di sospensione del lavoro altissimo: 5 mln di ore di cassa integrazione nel 2016, durante le quali oltre a non figurare la malattia ( e la assenza) si fa un altro lavoro (che non è doppio, ma lecito sino ad 8000 euro). Si aggiunga che i dipendenti pubblici si pagano gran parte della malattia, con le ritenuto sulla retribuzione, palesemente incostituzionali nel silenizio di tutti.

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