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Politiche del lavoro, per valutarle non bastano i numeri*

Valutare l’efficacia delle politiche del lavoro basandosi solo sull’analisi delle variazioni del numero dei lavoratori temporanei e permanenti può essere fuorviante. È necessario invece utilizzare strumenti più complessi e dati disaggregati.

L’importanza della demografia

Nel 2015 l’occupazione alle dipendenze, in particolare a tempo indeterminato, è tornata a crescere e il governo dell’epoca ne ha ricollegato gli andamenti al Jobs act. Nel 2017 l’espansione è continuata (+1,4 per cento nell’ultimo semestre), ma soprattutto grazie alle posizioni a termine. Alcuni osservatori, anche su questo sito (qui e qui), hanno suggerito che ciò possa segnalare la debolezza della ripresa o mettere in discussione l’efficacia delle recenti politiche del mercato del lavoro.

La valutazione delle politiche sulla base di pochi dati aggregati può tuttavia essere spesso fuorviante. Vi sono questioni statistiche e problemi di interpretazione degli indicatori (Colonna); va inoltre considerata la potenziale eterogeneità degli effetti sui diversi gruppi di lavoratori e imprese.

Per la recente crescita del lavoro temporaneo, poi, oltre all’andamento della congiuntura e al termine dei sussidi 2015-2016, occorre considerare uno specifico aspetto: l’evoluzione demografica della popolazione.

L’Italia è un paese che invecchia. Questo non accresce solo il peso della popolazione non attiva, ma modifica anche il tasso di partecipazione (De Philippis) e la composizione per età degli occupati. Nell’ultimo decennio, il numero di giovani sotto i 25 anni è rimasto sostanzialmente stabile, riducendosi di sole 50mila unità; gli individui tra i 45 e i 64 anni sono aumentati di oltre due milioni e mezzo, mentre gli adulti tra i 25 e i 44 anni sono diminuiti di oltre due milioni e di ben quasi 600mila solo nell’ultimo biennio. Così se nel 2007 quella dei 25-44enni era la classe di età più numerosa nella popolazione 15-64, oggi quella coorte di individui (nati tra gli anni Sessanta e Settanta) è invecchiata ed è stata sostituita da una di gran lunga meno numerosa (figura 1).

Figura 1

Fonte: elaborazioni degli autori sulla base dei dati Istat-Rcfl.

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Servono strumenti di analisi più complessi

La diminuzione degli adulti tra i 25 e i 44 anni può incidere sulla quota di lavoratori permanenti e temporanei perché è in questa fascia di età che con maggior probabilità si passa dal tempo determinato all’indeterminato (si veda questo studio di Veneto Lavoro). L’incidenza delle posizioni temporanee sul totale dei dipendenti è particolarmente elevata – oltre il 60 per cento – tra i giovani con meno di 25 anni; si riduce progressivamente con l’età, per stabilizzarsi intorno ai 40 anni, quando quasi il 90 per cento dei dipendenti ha un impiego permanente (figura 2).

Figura 2

Fonte: elaborazioni degli autori sulla base dei dati Istat-Rcfl.

Da un lato, la diminuzione degli adulti tra i 25 e i 44 anni riduce in misura proporzionalmente superiore il numero di occupati permanenti. Dall’altro, il calo della popolazione più giovane e l’aumento della partecipazione al mercato del lavoro dei più anziani, dovuto alle riforme pensionistiche, comprimono il numero di occupati temporanei sostenendo il lavoro permanente. Tuttavia, poiché la popolazione sotto i 25 anni è diminuita solo lievemente e il tasso di occupazione tra i più anziani rimane comunque inferiore rispetto a quello tra gli adulti, tali effetti sono stati più che compensati da quello, opposto, scaturito dal calo della popolazione tra i 25 e i 44 anni.

Abbiamo quindi calcolato le variazioni annuali dell’occupazione dipendente, a tempo determinato e indeterminato, nell’ipotesi che la composizione per età della popolazione rimanesse invariata rispetto all’anno precedente (figura 3). L’esercizio mostra che l’incremento del numero di dipendenti a tempo indeterminato registrato nella recente fase di ripresa sarebbe stato maggiore. Nel secondo trimestre del 2017, senza gli effetti di ricomposizione per età, gli occupati a tempo indeterminato sarebbero aumentati di circa 148mila unità, quasi il doppio rispetto a quanto osservato (78mila). Allo stesso tempo, poiché i giovani sotto i 25 anni sono solo lievemente diminuiti, l’aumento degli occupati a termine sarebbe stato superiore di appena il 10 per cento rispetto a quanto registrato (303mila invece di 277mila).

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Figura 3

Fonte: elaborazioni degli autori sulla base dei dati Istat-Rcfl. Le classi di età considerate sono: 15-24, 25-34, 35-44, 45-54, 55-64, e maggiore di 65 anni.

Questi risultati non forniscono un’analisi esaustiva degli andamenti congiunturali, né una valutazione delle recenti politiche. Sottolineano però che improntare il dibattito sull’efficacia delle politiche basandosi solo sull’analisi delle variazioni del numero dei lavoratori temporanei e permanenti può essere fuorviante. È invece necessario utilizzare strumenti di analisi più complessi e dati disaggregati per valutarne l’impatto sulle diverse tipologie di individui e imprese. È bene anche ricordare che l’annuncio, con diversi mesi di anticipo, di nuovi strumenti di politica fiscale e contributiva induce le imprese a reagire di conseguenza: l’attuale dibattito sulla decontribuzione per i più giovani potrebbe aver spinto le aziende a rinviare alcune assunzioni ai primi mesi del 2018 (come avvenne nel 2014, in occasione dell’annuncio della decontribuzione in vigore dal 2015).

*Le idee e le opinioni sono di esclusiva responsabilità degli autori e non impegnano quella dell’istituzione di appartenenza.

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Il Punto

  1. Michele

    Si può “giocare” con i numeri quanto si vuole, restano però alcuni macro dati di fatto inconfutabili: il jobsact è costato ai contribuenti italiani 20mld, tutti a beneficio delle imprese senza una apprezzabile diminuzione della precarizzazione del lavoro, che anzi è aumentata sia nella percezione generale sia nelle statistiche, con un ulteriore incremento della quota di valore aggiunto che va al capitale e corrispondente diminuzione della quota che va al lavoro.

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