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Ma chi ci capisce qualcosa dell’informazione finanziaria?*

Conoscenze limitate e distorsioni cognitive incidono sulla comprensione dell’informativa sui prodotti finanziari. Va dunque ripensato il concetto di chiarezza dei documenti informativi. Così come va valorizzato il supporto del consulente.

Rischi incompresi

Il terzo Rapporto sulle scelte di investimento delle famiglie italiane della Consob dedica un approfondimento all’attitudine degli investitori a fruire dell’informativa finanziaria di prodotto.

La rilevazione mette in luce come siano scarsamente comprese talune dimensioni del rischio ricorrenti nei documenti informativi: la percentuale di risposte corrette alle domande su rischio di mercato, credito e liquidità oscilla infatti tra il 10 e il 18 per cento ed è di gran lunga inferiore al dato registrato per altri concetti definiti “di base” (figura 2.1 del Report). E le conoscenze percepite spesso sopravvalutano quelle reali (cosiddetto upward mismatch; figura 1).

Figura 1 – Disallineamento tra conoscenze reali e conoscenze percepite

Fonte: Consob, 2017

La difficoltà nella lettura dell’informativa finanziaria si lega alla scarsa dimestichezza con le caratteristiche dei prodotti più diffusi: il 20 per cento dei decisori finanziari (il 15 per cento degli investitori) afferma di non conoscerne nessuno e il restante 80 per cento dichiara di conoscere prevalentemente depositi bancari, titoli di stato e obbligazioni (Sezione 2 del Report).

Quanto alla capacità degli intervistati di valutare la rischiosità di prodotti che vorrebbero inserire nel loro portafoglio, i dati mostrano che oltre un terzo non è in grado di ordinare per livello di rischio azioni e obbligazioni. Il 59 per cento degli intervistati che affermano di preferire una composizione di portafoglio a prevalenza azionaria ritiene che le azioni siano meno rischiose delle obbligazioni, mentre il 40 per cento di coloro che scelgono un portafoglio bilanciato non sa indicare il livello di rischio degli strumenti indicati (figura 2). Non si possono quindi ritenere attendibili le misurazioni della propensione al rischio basate sulle preferenze espresse dagli intervistati, se non sono accompagnate da una contestuale verifica delle loro conoscenze.

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 Figura 2 – Preferenze verso il rischio e consapevolezza del rischio

Fonte: Consob, 2017

Un ulteriore elemento di complicazione si collega alle instabilità delle preferenze verso il rischio, che variano in base alle modalità di presentazione dell’informazione (cosiddetto framing effect, Daniel Kahneman e Amos Tversky ; per il caso italiano si veda Monica Gentile, Nadia Linciano, Caterina Lucarelli e Paola Soccorso), nonché in funzione dello scorrere del tempo e della fase di mercato.

In particolare, nel campione Consob, poco più del 30 per cento degli intervistati si dichiarano avversi ovvero propensi al rischio a seconda che il frame delle opzioni di scelta si riferisca, rispettivamente, al dominio dei guadagni o delle perdite. In un terzo dei casi, inoltre, le preferenze variano rispetto all’orizzonte temporale considerato, suggerendo una tendenza alla procrastinazione che può influenzare la qualità delle scelte finanziarie (Sezione 2 del Report).

La comprensione corretta dell’informazione finanziaria sembra, dunque, dover superare un percorso a ostacoli. Ma in quanti leggono l’informativa di prodotto? Più del 40 per cento degli investitori, secondo il Rapporto Consob, prevalentemente in autonomia (25 per cento) o con il supporto di familiari e amici (10 per cento) e, solo in via residuale, con l’aiuto del consulente (8 per cento; figura 3). Tra i restanti intervistati, il 28 per cento non consulta i documenti informativi perché si affida a un professionista oppure perché teme di non essere in grado di utilizzarne il contenuto, mentre il 29 per cento non risponde. La propensione a consultare l’informativa è meno pronunciata tra chi ha minori conoscenze finanziarie e coloro che paiono esposti all’effetto framing.

Cosa accade se non si riesce a comprendere le caratteristiche dei prodotti pur avendo consultato i relativi documenti informativi? Il 50 per cento degli individui non investe: la percentuale sale tra coloro che possiedono un livello più elevato di conoscenze finanziarie e tra coloro che non sono inclini all’effetto framing. Il 27 per cento dei decisori finanziari, invece, investirebbe in ogni caso, incentivati dalla fiducia nel consulente e dalla buona reputazione dell’intermediario, mentre un quarto degli intervistati non si esprime (figura 4).

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 Figura 3 – Attitudine verso l’informativa finanziaria

Fonte: Consob, 2017

Figura 4 – Informativa finanziaria e decisione di investimento

Fonte: Consob, 2017

I risultati del Rapporto Consob sottolineano ancora una volta la necessità di potenziare le capacità di fruizione dell’informativa finanziaria da parte dei destinatari. La semplificazione dei documenti informativi in atto (Esas Joint Committee, 2014) può aiutare, ma non è tutto. In attesa della Strategia nazionale per l’educazione finanziaria, assicurativa e previdenziale e dei suoi effetti, restano centrali l’interazione tra cliente e intermediario nonché il ruolo del consulente, al quale gli orientamenti Esma del 2016 richiedono non solo la capacità di mettere a confronto le caratteristiche dei prodotti offerti per selezionare quello più adatto all’investitore, ma anche quella di spiegarle efficacemente, affinché questi possa compiere scelte consapevoli.

 

* Ufficio studi economici, Consob. Il presente intervento riprende e sviluppa alcuni temi documentati nel Report Consob sulle scelte di investimento delle famiglie italiane, curato da Nadia Linciano, Monica Gentile e Paola Soccorso. Le opinioni espresse sono personali e non impegnano in alcun modo l’Istituzione di appartenenza.

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  1. Paolo Palazzi

    Sinceramente! Se i piccoli e medi investitori riuscissero esattamente a capire come funzionano gli investimenti finanziari, investirebbero giustamente solo BTP.
    È per questo che chi gestisce i fondi di investimento (che rendono molto meno dei BTP), distribuendo opuscoli informativi illeggibili (ma non dovrebbero essere controllati dalla Consob?), possono, a voce, inventarsi rendimenti fantasiosi!

    • Rino Santilli

      Concordo.
      Una semplice proposta: basterebbe che (1) gli intermediari possano prendere commissioni solo nei periodi in cui ci sono rendimenti positivi e (2) che Bankit e Consob assumessero piú tecnici di back office e asset manager che hanno lavorato presso intermediari e meno avvocati o persone di formazione legale. Avremmo meno schede informative e piú informazioni pratiche (oltre che intermediari meglio controllati)

      • rosario nicoletti

        Concordo nella sostanza. Tutti i documenti delle banche sono scritti in modo tale che solo gli addetti ai lavori sono in grado di comprenderli facilmente. Poi, sono di una lunghezza mostruosa. L’insieme di queste due cose rende impossibile o quasi ai più lo studio (di questo si tratta) dei documenti. Andrebbero: 1) semplificati nel linguaggio 2) ridotti all’essenziale, ed indicando chiaramente il rischio dell’investimento.

  2. Emilio

    Ho sempre creduto che i concetti basilari della logica, dell’economia e del diritto debbano far parte del patrimonio cognitivo di tutti i cittadini, a partire dalla formazione nella scuola dell’obbligo. Purtroppo mi pare ancora così non sia.

  3. Alberto

    Sarebbe interessante fare un’indagine tra gli italiani che dichiarano conoscitori di strumenti finanziari e di spiegare, secondo la visione dell’investitore razionale e in base alle modalità di presentazione dell’informazione sul rischio, come giustificano l’acquisto di un BOT (es. Cod. ISIN: IT0005278327) nonostante il rendimento negativo del -0,38 % a cui si deve aggiungere la mini patrimoniale in ragione dello 0,2 %, con rating dell’emittente BBB – , invece di tenerli sotto il materasso.

  4. Henri Schmit

    Gli autori parlano di informazione finanziaria. Quella obbligatoria non deve essere né letta né compresa da tutti gli investitori, basta che sia a disposizione di chi se ne intende, e che sia completa e veritiera. Poi c’è l’informazione effettiva data al cliente in base a un contratto di consulenza, o eventualmente di fatto all’occasione di un collocamento. Se un intermediario colloca i propri titoli o prodotti presso la sua clientela retail agisce di fatto come consulente ma in conflitto d’interessi. È questo lo scopo della MiFID1 nonché la soluzione del buon senso e dell’equità. Se l’ investimento sottoscritto in tali condizioni si rivela fallimentare, dovrebbe bastare all’investitore qualificarsi come non-esperto e passivo per ottenere dal giudice ordinario una sentenza per il risarcimento del danno. Se il responsabile del danno è nel frattempo insolvente bisogna chiedersi chi doveva vigilare e sapeva da una certa data in avanti (al più tardi dal 2011, ma forse già dal 2009) quanto fosse rischioso sottoscrivere obbligazioni subordinate di quasi qualsiasi banca italiana, ma non si è mosso. Forse tutti dovevano intervenire, ma nessuno nemmeno gli analisti o i gestori professionali hanno valutato correttamente quelle emissioni. Ammesso che c’erano omissioni di vigilanza la questione più importante è chi risarcisce gli investitori ingannati? BdI e Consob? Senza risarcimento, l’Italia svuota la mifid e permette che i risparmiatori ingannati non sono protetti. Non è accettabile.

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