L’amministrazione americana ha deciso l’imposizione di tariffe sulle importazioni di acciaio e alluminio dal resto del mondo. Per farlo ha invocato la sicurezza nazionale. Ma dietro questo concetto si intravede una politica commerciale aggressiva.

I danni dei dazi

L’amministrazione americana ha deciso l’imposizione di tariffe sulle importazioni di acciaio (25 per cento) e alluminio (10 per cento) dal resto del mondo. Per il momento dai dazi sono esentati Canada e Messico, che con gli Stati Uniti hanno un accordo di libero scambio (Nafta, North American free trade agreement). Qual è l’impatto economico delle tariffe? E quali sono le conseguenze giuridiche per le regole internazionali sugli scambi commerciali?
Nel 2017 le importazioni statunitensi ammontano complessivamente a 29 miliardi di dollari per l’acciaio e 17 miliardi per l’alluminio. I principali paesi esportatori negli Usa di entrambi i prodotti includono Canada (12 miliardi di dollari), Unione europea (7,3 miliardi), Russia (3 miliardi), Corea del Sud (2,9 miliardi) e Messico (2,8 miliardi). Meno colpita è la Cina che, pur essendo uno dei maggiori produttori mondiali di acciaio, ne esporta solo per 976 milioni di dollari negli Stati Uniti, mentre esporta 1,8 miliardi di dollari di prodotti di alluminio.
Utilizzando le cifre contenute nelle simulazioni prodotte dallo stesso dipartimento del Commercio americano, la proposta di una tariffa del 25 per cento sull’acciaio porterebbe a un taglio di circa il 38,5 per cento delle importazioni statunitensi, mentre con una tariffa del 10 per cento la riduzione delle importazioni di alluminio sarebbe del 17,3 per cento. Riportando queste misure sui saldi commerciali bilaterali dei principali esportatori, si può calcolare un danno teorico pari a 3,2 miliardi di dollari per il Canada (2 miliardi in acciaio e 1,2 miliardi in alluminio), 2,6 miliardi per l’Unione Europea (2,4 per l’acciaio e 0,2 per l’alluminio), seguiti dalla Corea del Sud (1,1 miliardi), Messico (un miliardo), Brasile (965 milioni) e Russia (823 milioni). Altri paesi con perdite consistenti sono Giappone, Taiwan, Turchia, India, Emirati Arabi Uniti e Vietnam. Vi si devono peraltro aggiungere le conseguenze della cosiddetta trade diversion, per cui, in assenza di un mercato di sbocco importante come quello americano, le produzioni dei paesi si riverserebbero sugli altri mercati creando un eccesso di offerta. Accadrebbe in un settore ancora afflitto da eccesso di capacità, per cui i prezzi del prodotto si ridurrebbero ulteriormente, contribuendo ad aumentare i danni imposti al resto del mondo dalla politica americana.
In realtà, l’eccezione prevista per Canada e Messico e il fatto che il 2017 ed il 2018 sono anni di crescita significativa della domanda mondiale dovrebbero in parte ridurre gli effetti collaterali. Sicuramente, però, il danno causato a livello globale è stimabile conservativamente in una disputa commerciale del valore di almeno 10 miliardi di dollari, la più grande di sempre.

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Invocata la sicurezza nazionale

Al di là dell’aspetto economico, tuttavia, la politica avviata dagli Stati Uniti ha implicazioni persino più profonde a livello legislativo.
L’inchiesta del dipartimento del Commercio statunitense che ha portato all’applicazione dei dazi, aperta in base alla Section 232 del “Trade Expansion Act” del 1962, si riferisce in particolare all’effetto dell’importazione di acciaio e alluminio sulla sicurezza nazionale. Ma una simile fattispecie può essere giustificata in base al Gatt (General agreement on tariffs and trade)? Mai utilizzata dall’entrata in vigore del Wto (World Trade Organization), l’eccezione sulla sicurezza nazionale (articolo XXI) era stata già invocata ai tempi in cui era solamente il Gatt a regolare gli scambi mondiali, per giustificare azioni commerciali restrittive nei confronti di singoli stati impegnati in veri e propri conflitti bellici (come nel caso dell’embargo Cee verso la Jugoslavia nel 1992). L’unica altra eccezione è rappresentata dall’applicazione di una quota all’importazione di alcune calzature in Svezia nel 1975, per la quale era stato sottolineato come la decrescita nella produzione nazionale fosse una minaccia per i piani di emergenza economici svedesi che erano parte della politica di sicurezza del paese. La capacità produttiva sembrava necessaria per soddisfare le necessità di base in caso di guerra o altre emergenze internazionali. Già allora molti paesi firmatari del Gatt avevano manifestato seri dubbi circa la compatibilità della misura svedese con l’accordo.
Il caso svedese richiama, in parte, le odierne giustificazioni addotte dal dipartimento del Commercio americano, secondo il quale l’eccesso di importazioni di acciaio e alluminio unitamente all’eccesso di capacità produttiva mondiale metterebbero in pericolo la sopravvivenza dell’industria nazionale, fondamentale per fornire il necessario sostegno al settore militare e infrastrutturale. Secondo il dipartimento del Commercio, per assicurarne la sopravvivenza, l’industria dell’acciaio dovrebbe operare ad almeno l’80 per cento della propria capacità produttiva, attualmente al 73.
La decisione americana solleva, tuttavia, alcuni dubbi. In particolare, non sembra trovare alcuna giustificazione l’identificazione del target dell’80 per cento di sfruttamento della capacità produttiva quale limite minimo per assicurare la sostenibilità dell’industria nazionale. Ancora maggiori perplessità destano, poi, le aperture di Donald Trump al negoziato con quei paesi che condividono con gli Stati Uniti interessi di sicurezza nazionale e che, con adeguate contropartite, potrebbero essere escluse dai dazi. Sembra, insomma, che la definizione del concetto di “sicurezza nazionale” adottato dall’amministrazione statunitense sia una specie di armonica, in grado di allargarsi e restringersi a seconda delle reazioni degli altri paesi a una politica commerciale piuttosto aggressiva.

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