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Assegno di ricollocazione: così può funzionare*

L’assegno di ricollocazione è un servizio aggiuntivo che si può richiedere presso i centri per l’impiego dopo il quarto mese di sussidio di disoccupazione. Può avere successo. Purché si riesca a conciliare la politica nazionale con quelle regionali.

Politiche di reinserimento al lavoro

Il dibattito sul reddito di inclusione e il reddito di cittadinanza ha risvegliato anche l’interesse per le politiche attive per l’inserimento al lavoro.
L’assegno di ricollocazione è un servizio aggiuntivo che si può ora richiedere presso il centro per l’impiego più vicino dopo il quarto mese di sussidio di disoccupazione (Naspi). Il singolo disoccupato viene “profilato” e l’assegno è proporzionale alla sua difficoltà di trovare un lavoro; ha anche libertà di scelta di farsi prendere in carico da un centro per l’impiego pubblico o da un’agenzia privata, che per lo più riceve il pagamento dell’assegno a risultato, solo dopo 6 mesi di occupazione. Il servizio di presa in carico vale 150 euro, mentre il valore totale dell’assegno può arrivare fino a 5 mila euro nei casi di difficile occupabilità. Si tratta quindi di un servizio che si aggiunge alla Naspi e volontario (il disoccupato è libero di richiederlo o meno).
La riforma costituzionale bocciata dal referendum del 4 dicembre 2016 avrebbe ricondotto la competenza delle politiche attive del lavoro a livello statale. Ora Anpal (l’Agenzia nazionale per le politiche attive istituita dalla riforma del 2015) rimane un’agenzia di coordinamento di una rete di attori locali e l’assegno di ricollocazione va coordinato con le misure di politica attiva regionali.
I ritardi registrati nell’attuazione della misura non sono dovuti soltanto al quadro istituzionale, ma anche alle difficoltà dei centri dell’impiego, legate sia a un sottofinanziamento sia a una attribuzione incerta delle competenze in seguito allo svuotamento delle funzioni delle provincie. Tuttavia, la legge di bilancio di questo anno ha destinato in maniera definitiva 250 milioni annui al pagamento dei dipendenti dei centri dell’impiego, che dipenderanno funzionalmente (in linea con le competenze sulle politiche attive) dalle regioni.

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Tre motivi d’ottimismo

Le difficoltà nell’attuazione delle politiche attive è stata evidente quando Anpal, di comune accordo con le regioni, ha deciso di procedere a una sperimentazione dell’assegno di ricollocazione prima della sua messa a regime.
La sperimentazione, condotta su circa 30 mila individui che hanno ricevuto una lettera di invito a richiedere l’assegno di ricollocazione, ha avuto risultati poco incoraggianti: solo il 10 per cento ha richiesto la misura e circa il 20 per cento di quelli che l’hanno richiesta è stata ricollocata.
Il risultato non ci deve indurre però a perdere altro tempo.
Nell’arco di due anni sono state vagliate diverse ipotesi su come migliorare il sistema delle politiche attive e la misura dell’assegno: tutti i suggerimenti sembrano però peggiorativi della situazione attuale. Ridurre il periodo di disoccupazione per aver diritto all’assegno (per esempio da quattro a un mese) avrebbe solo l’effetto di spendere soldi pubblici per ricollocare persone che avrebbero trovato comunque lavoro da sole. Rendere l’assegno obbligatorio lo farebbe percepire come un vincolo e non un aiuto e avrebbe costi proibitivi. Togliere il passaggio obbligato dal centro dell’impiego renderebbe la gestione disordinata e farebbe litigare le regioni tra di loro (una rete nazionale di centri per l’impiego – anche solo per le questioni amministrative – sembra essere un minimo comun denominatore chiesto da tutte le regioni italiane e comune a tutte le esperienze internazionali).
Ci sono invece tre ragioni per cui l’assegno di ricollocazione a regime dovrebbe andare molto meglio della sperimentazione. La prima è che le agenzie per il lavoro (che dovrebbero offrire il servizio di ricollocazione in alternativa ai centri dell’impiego) non hanno investito nella nuova misura finché si trattava della sperimentazione, ma oggi, a regime, con circa 600 mila persone di platea potenziale, sono interessate a sviluppare la misura. È un caso in cui l’offerta può creare la domanda.
La seconda ragione è la firma recente di una convenzione tra Anpal e i patronati: questi ultimi, dietro al riconoscimento di un servizio a pagamento, informeranno i richiedenti della Naspi che dopo 4 mesi potranno tornare per ricevere il servizio aggiuntivo opzionale. La mancanza di informazione è stata una delle ragioni principali per cui finora l’assegno non è decollato. La collaborazione dei patronati permetterà di superare molte delle carenze informative, almeno per tutti quelli che fanno la domanda di Naspi presso di loro.
La terza ragione fondamentale è che da quest’anno entra in azione la norma sulle politiche attive per i cassintegrati. Prevede che durante le crisi aziendali si possano fare accordi sindacali per l’utilizzo dell’assegno di ricollocazione da parte dei cassaintegrati. Contestualmente – e solo in caso di ricollocazione durante il periodo di cassa integrazione – sono previsti incentivi fiscali sia per il lavoratore in cassa che trova un nuovo posto di lavoro (fino a 9 mensilità detassate) sia per l’azienda subentrante (18 mesi di contributi al 50 per cento).
Sulle politiche attive di ricollocazione non si può tornare indietro. Bisogna invece fare uno sforzo per conciliare la politica nazionale con le politiche regionali e continuare su una strada che comunque ci vede molto indietro rispetto agli altri paesi europei, nonostante gli sforzi degli ultimi anni.

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*Marco Leonardi è Consigliere economico della Presidenza del Consiglio

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  1. Maurizio Motta

    Sarebbe anche opportuno riflettere su sinergie possibili tra questo strumento (e peraltro tutti gli altri possibili per i servizi per il lavoro) e il sistema del contrasto alla povertà attivato da dicembre 2017 con il ReI (il Reddito di inclusione). Nel senso che il contrasto alla povertà avviato col ReI presuppone un forte dispiegamento di azioni a carico anche dei servizi per il lavoro, e dunque è utile interrogarsi sul fatto che il mix dei loro strumenti sia efficace; e peraltro anche adattabile alle situazioni delle diverse persone/famiglie delle quali promuovere l’occupabilità come chance per uscire dalla povertà. Occorre pensare anche ad altri strumenti più “personalizzabili”?

  2. Claudio

    Gentile prof. Leonardi, lavoro da venti anni in un centro per l’impiego e non condivido il suo ottimismo. Provo a spiegarmi. Meta’ del nostro tempo e’ impiegato a servire utenti che necessitano di prestazioni socio sanitarie agevolate( rei, esenzione ticket sanitario, sussidio per farmaci di fascia C, sconto di supermercati rivolto ai disoccupati, pratiche bancarie debitorie ecc). Gran parte di queste persone non hanno alcuna possibilita’ di rientrare (o entrare) nel mercato del lavoro. Ma la legge prevede la Did, la stipula di un patto di servizio ecc. Firmano pacchi di documenti a loro incomprensibili e se ne escono dall’ufficio con la compassione dell’operatore che li aiuta a compilare la complicate autocertificazioni necessarie ad usufruire delle prestazioni socio sanitarie. Che politiche attive facciamo a queste persone? Pochi giorni fa abbiamo incontrato una persona, delegata dal disoccupato, il quale non poteva uscire di casa se non con la bombola di ossigeno. Inoltre, i bizantinismi normativi complicano il tutto (lo status di disoccupato collegato alla ” prospettiva di reddito” ad esempio, per fortuna ora solo valido per gli iscritti L.68). I bizantinismi normativi sono ulteriormente complicati da un sistema informativo che non li supporta se non a costo di anni di analisi e costose implementazioni) Per non parlare ora del sistema informativo nazionale, complicatissimo e fatto con un linguaggio da informatici che non aiuta l’operatore. Le nuove assunzioni saranno solo

  3. Claudio

    Di operatori saranno solo un tappabuchi. Chi aiuta una persona, spesso svantaggiata pesantemente, fa un lavoro sociale, di aiuto. E questo vale, in modo diverso, per l’utente datore di lavoro. Non abbiamo il tempo di farlo. E le assicuro che non ci mancano le competenze e la voglia. Ci manca il tempo. I ricercatori sociali dovrebbero fare ricerca sul campo per offrire spunti utili, intervistare gli operatori, gli utenti, usare i sistemi informativi e poi scrivere saggi sulle politiche attive (pubbliche). Cordiali saluti

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