La legge di bilancio 2017 aveva introdotto il Fondo per il finanziamento delle attività base di ricerca. Via via le risorse sono state tagliate. E il meccanismo di assegnazione non ha funzionato. Ma si poteva intervenire per renderlo più efficace.
Un fondo per ricerca privato delle risorse
La legge di bilancio 2017 ha introdotto il Fondo per il finanziamento delle attività base di ricerca dei ricercatori e dei professori di seconda fascia. Lo stanziamento previsto era di 45 milioni di euro a decorrere dal 2017, con un importo individuale annuale pari a 3 mila euro, per un totale di 15 mila finanziamenti individuali.
Non una cifra elevata, ma comunque utile in un paese dove le risorse destinate alla ricerca si sono progressivamente ridotte. Il governo Renzi lo aveva presentato con enfasi e come esempio di un’inversione di tendenza dopo anni di scarsa attenzione alla ricerca: finalmente un po’ di risorse a disposizione dei ricercatori italiani anche solo per consentire loro la partecipazione a qualche convegno.
A distanza di poco tempo c’è stata però una drastica inversione di marcia e con successive decurtazioni il provvedimento è rimasto del tutto privo di copertura finanziaria. Dopo il primo stanziamento si è proceduto a progressivi tagli, dapprima con la legge 21 giugno 2017, che diminuiva il finanziamento del 30 per cento dal 2019, poi con la legge di bilancio 2018, che ha ridotto lo stanziamento per il 2018 a 30 milioni e quello del 2019 e 2020 a 18 milioni e infine (per dare il colpo di grazia) con ulteriori due decurtazioni del fondo stanziato per il 2018 che lo hanno ridotto a soli 2 milioni di euro (e azzerato dal 2019).
I problemi della valutazione automatica
Viene naturale chiedersi a cosa sia stato dovuto l’improvviso cambiamento di orientamento. Ci si è resi conto che la ricerca di base non ha bisogno del supporto pubblico? I risultati ottenuti dopo il primo stanziamento sono stati così deludenti che si è ritenuto inutile continuare?
Per cercare di comprendere bisogna ricordare che l’idea alla base del provvedimento era quella di finanziare il 75 per cento dei ricercatori e il 25 per cento dei professori associati con i migliori risultati così come calcolati dall’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca) sulla base di un indicatore della produzione scientifica relativa agli ultimi cinque anni. L’utilizzo di una valutazione automatica delle pubblicazioni basata su indici bibliometrici, ha suscitato qualche polemica. Tuttavia, anche a voler ammettere tutte le criticità di questi indicatori, è difficile pensare a meccanismi alternativi che tengano conto del merito a un costo non proibitivo. La peer review sarebbe stata infatti eccessivamente costosa (dato l’ammontare delle risorse da distribuire). Inoltre, come mostrato da diverse analisi, i risultati che ne derivano non si scostano molto da quelli che si ottengono applicando i criteri bibliometrici (d’altra parte non è affatto scontato che il giudizio di “pari” individuati allo scopo sia più attendibile di quello dei referee di cui si servono le riviste). Certo col tempo si sarebbe potuto introdurre qualche correttivo, cercando di tener maggiormente conto delle specificità di alcuni settori disciplinari e cercando di capire cosa aveva funzionato e cosa meno nel corso della prima applicazione del provvedimento.
Qualcosa, però, sembra aver impedito di procedere in tal senso, probabilmente la confusione che si è creata nel processo di gestione.
Il complesso meccanismo di assegnazione
Il comma 298 del bando prevedeva che fossero finanziati il 75 per cento dei ricercatori e il 25 per cento dei professori associati con la migliore performance tra quelli che presentavano domanda. Se tutti gli associati e i ricercatori avessero fatto domanda, l’idea alla base del provvedimento non sarebbe stata compromessa, ma – com’era prevedibile – così non è stato. I ricercatori con una produttività scientifica che li collocava nella parte bassa della distribuzione non avevano alcun interesse a fare domanda. Ma a causa della loro autoesclusione gli altri ricercatori vedevano ridursi la probabilità di ottenere il finanziamento. Ovviamente, diminuendo la probabilità di finanziamento, si riduceva anche l’incentivo a presentare domanda. Il risultato ultimo, come evidenziato dal rapporto Anvur 2018, è stato che alla procedura di selezione ha partecipato il 47 per cento dei potenziali interessati (il 49 per cento dei ricercatori e il 45 per cento dei professori di seconda fascia). Con questo tasso di partecipazione, i finanziamenti individuali assegnati sono stati pari a 9.466, ben al di sotto delle 15 mila borse individuali disponibili (28 milioni di finanziamento contro i 45 milioni di euro disponibili). Quello che è importante sottolineare è però che il basso tasso di partecipazione non è probabilmente dipeso dallo scarso interesse dei ricercatori italiani a questo tipo di finanziamento, ma al meccanismo perverso generato dalla sua gestione. Se il ministero intendeva distribuire le risorse sulla base di un criterio meritocratico avrebbe dovuto assegnarle direttamente al 75 per cento dei ricercatori e al 25 per cento dei ricercatori con i risultati migliori, indipendentemente dal fatto che avessero fatto domanda di finanziamento. Chi non avesse voluto le risorse avrebbe comunque potuto rifiutarle e il dipartimento di afferenza avrebbe potuto distribuirle sulla base di qualche altro criterio. Oppure si sarebbe potuto facilmente individuare un altro sistema senza snaturare l’idea alla base del provvedimento. Molte altre strade ragionevoli sarebbero state certamente percorribili; e imparare dai propri errori non ha nulla di disdicevole. Non si è invece proceduto così e due sono le risposte possibili: si è deciso di buttar via il bambino con l’acqua sporca oppure ci si è resi improvvisamente conto che la ricerca di base in Italia non ha bisogno di questo tipo di supporto pubblico.
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Ezio Pacchiardo
Sulla ricerca dovremmo essere più seri. La distribuzione a pioggia di finanziamenti serve solo a dare degli stipendi più o meno meritati. Porto come esempio campione di finanziamento alla ricerca il caso delle tecnologie “unmanned” che in USA sono partite circa 15 anni fa con una richiesta da parte dell’ente DARPA che dette all’epoca un premio di 10 mila dollari a chi proponeva un veicolo di terra capace di percorrere poco più di 500 metri. Alla prima prova parteciparono molte Università e il risultato fu disastroso, molti veicoli non partirono e altri a mala pena giunsero a percorrere qualche decina di metri. Sappiamo ormai tutti che i perfezionamenti e l’estensione degli “unmanned vehicle” al cielo e al mare sono ormai una realtà pienamente affermata. La sostanza è che il modello di ricerca adottato in USA è molto più sfidante: un ente, in genere DARPA, presenta delle richieste di sviluppo, le Università e anche le imprese partecipano alle gare, i finanziamenti vengono fatti a risultati raggiunti e non prima.
Paolo
Gentile Ezio, anche nel commentare gli articoli occorrerebbe essere documentati e sapere di cosa si parla. Primo, il finanziamento per le attività di base non è uno stipendio, visto che non me lo accreditano in banca e non posso spenderlo per comprarmi quello che voglio. Secondo, come ben spiega l’articolo, non è distribuito a pioggia ma in modo comunque meritocratico e sopperisce a una carenza assoluta di finanziamenti alla ricerca dei singoli docenti in moltissime università italiane negli ultimi anni. Terzo, non ha senso finanziare un progetto di ricerca solo a posteriori, visto che le somme richieste in genere servono anche a portare avanti il progetto. In alternativa occorrerebbe comunque attingere da qualche altra fonte per portare avanti un progetto. Di solito, anche nella retrogada e sottosviluppata Italia (pensi!) parte dei soldi di solito li danno prima e parte dopo. Quarto, come si evince dalla lettura, il finanziamento di cui si parla nell’articolo è una sorta di ‘premio’ e non è vincolato a un progetto specifico. Cordialmente.