Il governo cambia idea sui fondi per le periferie e la legge di bilancio li restituisce ai destinatari. Lo fa però con alcune correzioni che potrebbero rivelarsi problematiche. Soprattutto per gli enti che non possono permettersi di indebitarsi.
Il Dl che congelava i fondi per le periferie
Arriva una parziale correzione di rotta sui finanziamenti per le periferie. Il decreto-legge 25 luglio 2018, n. 91, convertito con modificazioni nella legge 21 settembre 2017, n. 108 aveva spostato al 2020 l’efficacia delle convenzioni, pur già concluse, con i 96 enti che avevano completato l’iter per l’accesso alla seconda, e più corposa, tranche di finanziamenti destinati alla riqualificazione delle periferie e delle aree urbane degradate. Aveva inoltre destinato le risorse così congelate a un apposito fondo da utilizzare per favorire gli investimenti delle città metropolitane, delle province e dei comuni, ma senza più la specifica destinazione alle aree più marginali. Si erano salvati solo i 24 progetti della prima tranche, perché il loro iter era già avviato.
La cosa aveva provocato la reazione negativa non solo dei 96 enti che si trovavano messi in una sorta di limbo, senza neppure certezze circa l’effettiva disponibilità dei finanziamenti alla fine della imprevista attesa, ma anche dei comuni che contavano su quelle risorse per iniziative di collaborazione con vari soggetti della società civile per azioni mirate di riqualificazione sul piano urbanistico e sociale. Perché la sicurezza di una città e di un quartiere non viene assicurata solo dalla presenza di polizia e carabinieri (tanto meno dal permesso di difendersi con le armi). Dipende dalla qualità dei rapporti e della vita di chi ci abita, dei servizi che ci sono, delle opportunità che si vedono. La procrastinazione, per giunta senza certezze, sembrava – ed era – uno spreco di energie umane, intellettuali, di fiducia, oltre che una sottrazione impropria di risorse. Mettere a punto un progetto di intervento integrato urbanistico-sociale non è un’operazione semplice, richiede la costruzione di rapporti di collaborazione e di pianificazione degli investimenti umani e di risorse che non possono essere tenuti in sospeso. Sembrava anche una beffa bella e buona, visto che gran parte della campagna elettorale e poi della vittoria degli attuali due partiti di governo era stata proprio giocata attorno al tema del “disagio delle periferie”.
Cosa prevede la legge di bilancio
L’articolo 69 della legge di bilancio attualmente in via di definizione – “Disposizioni concernenti il programma straordinario di intervento per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie delle città metropolitane e dei comuni capoluogo di provincia” – sembra voler sanare in parte quell’errore. La consueta scrittura tortuosa e poco trasparente, irta di rimandi ad altre leggi, è una sfida per chiunque voglia capire che cosa c’è dentro a una norma. Pure questo governo sembra incapace di produrre norme leggibili e comprensibili ai cittadini comuni, anche con buona istruzione. Ciò premesso, sembra di capire che si intenda a) restituire i fondi alla loro originaria destinazione; b) consentire ai 96 progetti approvati di iniziare il loro lavoro già nel 2019, nel senso che le spese che sosterranno in quell’anno saranno finanziate, se conformi a quanto previsto “in base al cronoprogramma”. Ora, non è chiaro come il cronoprogramma potrà essere rispettato, stante la pausa forzata di questi mesi, le incertezze che ha generato, il possibile venir meno di alcune disponibilità, visto che gli enti devono pur vivere e pagare le persone e queste hanno affitti da onorare e figli da mantenere. Il cronoprogramma, tuttavia, è un indicatore cruciale anche per i fondi messi a disposizione. La disponibilità teorica (in base allo stanziamento originario) è di 530 milioni di euro, ma si dice che l’importo complessivo dei rimborsi “tenendo conto degli attuali cronoprogrammi trasmessi dagli enti, non potrà superare entro il 2019 i 450 milioni di euro” (comma 2). È sperabile che la parte residua, gli 80 milioni che mancano per arrivare a 530, insieme a quella eventualmente non ancora spesa proprio a motivo dei ritardi imposti, rimanga al fondo dedicato e non venga spostata altrove.
C’è poi un’altra modifica importante, rispetto a quanto stipulato nelle convenzioni approvate: si tratterà sempre e solo di rimborsi. Non vi sarà nessun anticipo del 20 per cento del totale pure previsto dalle convenzioni, che vengono così modificate unilateralmente. Può sembrare un sussulto di severità, per evitare spese incontrollate o rischi di affidarsi a enti fittizi, senza un vero bilancio, eventualità che però avrebbero dovuto essere accertate in sede di approvazione dei progetti e di stipula delle convenzioni. Di fatto, la previsione impone agli enti di anticipare (allo stato) il cento per cento dei costi di iniziative per il benessere collettivo, dopo aver già investito risorse, anche economiche, nella costruzione dei progetti. Se si pensa che poi i rimborsi arrivano in tempi biblici, c’è il rischio che alla fine giungano alla meta solo quelli che hanno le spalle larghe, bilanci ampi, o comunque possono permettersi di indebitarsi con le banche per pagare gli stipendi: una situazione ben nota a chi, privato profit o non profit, lavora per il pubblico e che rischia di diventare molto onerosa in tempi di spread alto e credito caro.
Mentre nel suo complesso la legge di bilancio si appresta a spendere in deficit per miliardi per mandare in pensione a 62 anni un certo numero di uomini comparativamente abbienti, proprio su questo fondo, che non contribuisce al deficit perché già stanziato negli anni precedenti, si tira in lungo, accollando l’onere dell’inevitabile indebitamento su chi, per tenere fede alla propria parte della convenzione, deve spendere.
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Federico Leva
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