Eurofound ha pubblicato un rapporto sui lavori tramite piattaforma. Ne emerge uno spaccato dettagliato delle condizioni di lavoro. Insieme alla necessità di interventi regolatori per assicurare tutele ai lavoratori e un contesto leale di competizione.
Il profilo dei lavoratori delle piattaforme
Eurofound, agenzia dell’Unione europea nata per promuovere il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, ha pubblicato un corposo report sui “lavori tramite piattaforma” (qui).
Il rapporto di Eurofound offre una panoramica completa delle piattaforme online che favoriscono l’incontro di domanda e offerta di lavoro retribuito. Dopo aver delineato i contorni del fenomeno e averne descritto gli effetti positivi e negativi, il testo opera una mappatura degli attori di questo segmento economico, delle condizioni di lavoro, del quadro legislativo, così come delle recenti riforme e delle tendenze generali in atto nel mercato europeo del lavoro. Sei tra i diciotto paesi presi in considerazione – Austria, Francia, Germania, Italia, Polonia e Svezia – sono analizzati più in profondità anche grazie al contributo di esperti nazionali che, a loro volta, hanno svolto interviste semi-strutturate con politici, accademici, lavoratori, piattaforme, rappresentanti dei sindacati e delle organizzazioni datoriali. La sezione qualitativa si rivela oltremodo ricca di informazioni, anche inedite: le interviste ai lavoratori (vedi sotto e pagina 34 del rapporto) hanno infatti offerto uno spaccato molto dettagliato delle condizioni di lavoro e di altri profili caratterizzanti, talvolta trascurati in letteratura.
Tabella 1 – Profili dei lavoratori delle piattaforme intervistati (e relativi numeri)
Fonte: traduzione nostra, elaborazione degli autori del report (pag. 17).
La questione di una definizione condivisa
Il campo d’indagine è circoscritto dalla definizione che Eurofound dà di “platform work”, uno dei nove nuovi “formati” di lavoro emersi in Europa a partire dai primi anni del millennio: “una forma di lavoro che usa una piattaforma digitale per consentire a organizzazioni o individui (lavoratori) di entrare in contatto con altre organizzazioni o individui (clienti) al fine di risolvere specifici problemi o offrire particolari servizi in cambio di un pagamento”. In particolare, sono state esaminate tre specifiche tipologie di lavoro via piattaforma: (i) attività locali assegnate e organizzate dalle piattaforme, (ii) attività locali selezionate dai lavoratori, (iii) attività online, in genere di natura creativa, assegnate tramite contest.
Per ciascuno dei tre segmenti sono stati presi in considerazione la composizione della forza lavoro, l’ambiente fisico così come il contesto regolatorio, il grado di autonomia e l’intensità del controllo, l’accesso alle tutele sociali, le questioni legate alle competenze, alla formazione e alle prospettive di carriera, oltre che i proventi e i relativi profili fiscali e previdenziali.
A ciò si aggiunge un’analisi di taglio giuridico sul quadro legislativo applicabile, sull’inquadramento contrattuale dei lavoratori, sulla relazione formale e sostanziale tra lavoratori, clienti e piattaforme, e sull’organizzazione (proto)sindacale dei lavoratori a opera di parti sociali e nuovi movimenti spontanei. Anche i casi nazionali replicano questa struttura. Va subito detto che l’assenza di una definizione condivisa del fenomeno, non solo tra paesi ma anche tra gli esperti, rende impraticabile la comparazione dei dati raccolti dalle diverse rilevazioni e, quel che è peggio, determina gravi fraintendimenti nel dibattito pubblico sul tema. È evidente che l’adozione di una definizione comune faciliterebbe da un lato il monitoraggio degli sviluppi del fenomeno, e dall’altro garantirebbe un confronto più proficuo. Dibattito e confronto che sembrano sempre più necessari perché, pur nel turbinoso rincorrersi di cifre e stime, si registra indubbiamente una rapida crescita del numero di piattaforme e, parallelamente, del numero di lavoratori coinvolti, ma anche dei moduli organizzativi “alternativi”.
D’altra parte, gli interventi regolatori devono tenere conto dell’eterogeneità delle situazioni di fatto nelle diverse tipologie di lavoro via piattaforma, anche per evitare l’eterogenesi dei fini che interventi normativi poco accorti potrebbero determinare. Il report raccomanda che ogni tentativo di “catturare” gli operatori del settore miri prioritariamente ai “giganti”, proprio per assicurare condizioni leali di competizione e spazi di innovazione per i nuovi entranti. Di certo, è urgente imporre strumenti in grado di accrescere la trasparenza, l’equità (e anche l’interoperabilità) dei rating e introdurre meccanismi di risoluzione delle controversie, per evitare che i lavoratori siano alla mercé di algoritmi e metriche, spesso in assenza di qualsiasi canale diretto di comunicazione e confronto con i responsabili aziendali – specie nel caso delle attività assegnate e organizzate dalle piattaforme, ma anche per quelle selezionate dai lavoratori.
Dal punto di vista dei lavoratori, le principali motivazioni che spingono a ricorrere alle piattaforme riguardano il desiderio di guadagni aggiuntivi e di flessibilità, l’esigenza di cercare nuove esperienze e nuovi clienti. Molti intervistati hanno però denunciato la mancanza di opportunità nel mercato del lavoro tradizionale. Tuttavia, queste forme di lavoro quasi mai rappresentano un canale di accesso a posizioni più stabili.
Inquadramento e tutele necessarie
La vasta complessità del fenomeno non va trascurata neppure quando si discute di come qualificare i lavoratori o di come regolarne lo status legale. In particolare, il rapporto segnala la necessità di chiarire l’alternativa secca tra lavoro subordinato e lavoro autonomo. In assenza di una categoria “cucita su misura” per il lavoro via piattaforma, i lavoratori sono contrattualizzati solo sulla base delle categorie esistenti, e dunque nella maggior parte dei casi inquadrati come autonomi, esclusi da gran parte delle tutele lavoristiche e responsabili in prima persona per la contribuzione. Ciò assume una natura ancor più critica per quanti fanno affidamento sul lavoro via piattaforma come prima fonte di reddito. In tutta Europa sono state avviate cause e ricorsi, e i primi risultati, ovviamente non generalizzabili, sono piuttosto disomogenei. In ogni caso, l’applicazione delle regole esistenti va monitorata e rafforzata per evitare la classificazione fraudolenta di alcuni lavoratori.
Il rapporto sottolinea poi come le nuove tecnologie siano utilizzate dalle piattaforme per sorvegliare costantemente i lavoratori mentre completano la prestazione. Si tratta di una prerogativa oltremodo problematica quando è compiuta esclusivamente attraverso sistemi algoritmici (non umani). In più, la sospensione o l’esclusione degli account dovute a comportamenti ritenuti sotto lo standard qualitativo determinano una situazione di profonda precarietà, che si somma all’insicurezza contrattuale e all’instabilità dei proventi. Dallo studio emerge infatti che molti lavoratori spendono una notevole quantità di tempo non remunerato nella ricerca di committenze. Anche in questo caso, occorre promuovere più trasparenza nella descrizione delle pratiche e delle mansioni prima che queste siano prese in carico: solo così i lavoratori potranno decidere in modo consapevole se sia conveniente accettare l’ingaggio.
Nel caso del lavoro assegnato dalle piattaforme emergono forme di forte dipendenza dei lavoratori. Lo studio evidenzia peraltro come i lavoratori impegnati in queste attività abbiano un controllo limitato su orario e organizzazione del lavoro, a beneficio delle stesse piattaforme che mantengono un certo grado di controllo, pur “esternalizzando” le responsabilità connesse con la posizione datoriale. Da un lato, bisogna dunque assicurare tutele più forti quali, per esempio, l’introduzione di un salario minimo, nei casi in cui queste attività non siano coperte da contratti collettivi o da un minimo legale, e, dall’altro, garantire interventi mirati in materia di orario di lavoro (lunghezza dei turni e delle pause, tempi di attesa delle chiamate) e salute e sicurezza sul posto di lavoro. Interventi di questo tipo possono scongiurare la competizione al ribasso sul costo del lavoro.
I ricavi sono per lo più instabili e incerti, legati a turni, consegne e premi stabiliti dalle piattaforme, talvolta sulla base di un sistema che combina paga oraria a sistemi di cottimo. Per converso, la partecipazione all’“economia delle piattaforme” per i guadagni collaterali andrebbe promossa per mezzo di regole fiscali più semplici e meno onerose per i lavoratori: il modello può contribuire positivamente all’emersione e alla conseguente formalizzazione di introiti non dichiarati o, addirittura, incoraggiare nuove attività economiche in regime sperimentale. Il fatto che di recente molti governi abbiano avviato un confronto sul tema lascia presagire che anche l’organizzazione dei lavoratori subirà una certa accelerazione. Per ora, si segnala un basso tasso di sindacalizzazione, pur se si registrano i primi tentativi di condivisione delle esperienze e sparuti focolai di azione collettiva (scioperi, sit-in, ricorsi, ma anche gruppi di lavoro e carte dei diritti su scala metropolitana o nazionale). Ad alcuni sindacati e movimenti va il merito di aver guidato e per certi versi dominato il dibattito pubblico sul fenomeno.
Questa breve rassegna non rende giustizia dei contenuti del report, a cui si rimanda. In particolare, le conclusioni e le raccomandazioni possono ispirare le scelte politiche sulla necessità e sulla direzione di un intervento pubblico in materia, tanto più che il lavoro via piattaforma presenta molti punti in comune con altre attività comparabili nel mercato del lavoro “tradizionale”.
I risultati del report offrono dunque una roadmap essenziale per gli interventi su scala nazionale e locale. D’altro canto, contribuiscono al dibattito sul futuro del lavoro nel quadro del pilastro europeo dei diritti sociali e anche le istituzioni europee che usciranno dall’appuntamento elettorale del 2019 saranno chiamate a confrontarsi con questo tema. La speranza è che riescano a rendere prioritari alcuni interventi in campo sociale, a partire da un rafforzamento delle tutele per i lavoratori non standard o comunque impegnati in moduli organizzativi abilitati dalle tecnologie, che rappresenteranno una costante del mercato del lavoro dei prossimi anni.
Tabella 2 – Principali conclusioni, raccomandazioni di policy e destinatari
Fonte: traduzione e sintesi nostra, originale alle pagine 65 e 66 del report.
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!
Lascia un commento