Circola da tempo la tesi che non aver mantenuto sotto controllo pubblico la rete delle telecomunicazioni sia stato un grave errore. L’ultimo tentativo in ordine di tempo per riportarle nell’alveo dello stato passa dalla rete unica per la banda ultralarga.
Quando vincono le priorità della politica
Non aver mantenuto sotto controllo pubblico la rete delle telecomunicazioni è l’argomento principe di coloro che considerano la privatizzazione di Stet (Società finanziaria telefonica s.p.a) un grave errore. Non si è persa nessuna occasione per cercare di porvi rimedio: prima, quella di vendere la rete per ridurre il debito, col piano Rovati; poi, quella di completare una società delle reti, mettendola insieme a Terna e Snam; infine, quella di colmare un ritardo del nostro paese nel dotarsi di una rete a banda ultralarga. L’Europa aveva fatto della connessione veloce a Internet una priorità, ponendo un duplice obbiettivo entro il 2020: dare al 100 per cento della popolazione connessione a 30Mbps e avere il 50 per cento popolazione attivamente connessa a 100Mbps. Una lettura drammatizzata della situazione italiana offre all’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi la possibilità di dimostrare che lui risolve problemi che altri hanno lasciato trascinarsi: dopo l’Ilva, in stallo con l’Europa la partita banche, è la volta della banda larga. Inizia così una vicenda controversa: ora che se ne delinea il possibile esito, conviene ripercorrerne le tappe e valutarne i risultati.
10 maggio 2015: Renzi lancia la sua “Strategia italiana”, stanzia 6,5 miliardi per costruire una rete pubblica in concorrenza a quella di Tim, incominciando dalle zone a cosiddetto fallimento di mercato, e annuncia: “Il progetto sarà affidato a Enel”. Un mese prima, vedi caso, quest’ultima aveva “scoperto” una sinergia tra installare contatori elettronici e portare fibra in casa: a dicembre fonderà Enel Open Fiber.
Una lettura drammatizzata, si è detto: in effetti già due anni prima il mercato aveva trovato la soluzione, la nuova tecnologia vectoring su rete ibrida rame/fibra (Fttc, fiber-to-the-cabinet), grazie al fatto che Telecom ha una rete che, a differenza di altri ex monopolisti, ha una distanza media tra i “cabinet” e gli utenti di circa 200 metri. Come si vede dal diagramma della Corte dei conti europea, la copertura, pari a 0 per cento nel 2011, al 4,5 per cento nel 2012, al 14,7 per cento nel 2013, nel 2015 era già del 45 per cento: eravamo risaliti dal penultimo posto in Europa fino a superare la media europea. Il primo obiettivo (30Mbps a tutti) era in vista: nel 2017 – ossia solo due anni dopo – saremmo arrivati all’87 per cento contro l’80 per cento di media europea.
Per raggiungere, almeno sul lato dell’offerta, il secondo obiettivo (il 50 per cento attivamente connesso a 100 Mbps nel 2020) sarebbe bastato che il nostro regolatore consentisse di attivare ovunque la tecnologia vectoring (come in Germania e in gran parte dei paesi europei) per ottenere da un giorno all’altro un aumento di velocità fino a 300 Mbps, posizionandoci probabilmente fra i primi in Europa. Intanto Telecom di Giuseppe Recchi e Flavio Cattaneo a inizio 2011 aveva lanciato il maxi piano di investimenti da 12 miliardi in tre anni, di cui 5 per dare al 95 per cento della popolazione la banda ultra larga e a oltre il 99 per cento il 4G.
Ma per Renzi priorità è la politica, vuole intestarsi lui l’aver dato la banda ultralarga a tutti: “sceglie il vincitore”, la tecnologia Ftth (fiber-to-the-home), nonostante la stessa Deutsche Telekom l’avesse scartata per gli eccessivi costi e tempi di realizzazione (e Bruxelles modificò il piano, che ora lascia ai partecipanti l’indicazione delle soluzioni tecnologiche). A dicembre 2016 Enel compera Metroweb da F2i, con la sua dote di circa 1,2 milioni di case collegati con Fttb (fiber-to-the-building) e la fonde in Openfiber. Telecom, che aveva offerto di più, ma a cui non fu venduta, nello stesso anno fonda Flashfiber con Fastweb, per la costruzione di una rete che colleghi con tecnologia “fiber-to-the-home” 3 milioni di unità immobiliari entro il 2020 (già a fine 2018 sono oltre 2 milioni).
A inizio 2019, il fondo Elliott inizia uno scontro con Vivendi per il controllo di Tim. Aumentare il valore di una società vendendone dei pezzi è lo strumento principe dei fondi attivisti, e la rete è il candidato ideale. Il governo Gentiloni fa acquistare il 4,9 per cento di Tim alla Cassa depositi e prestiti. Cdp, concorrente di Tim in Openfiber, diventa azionista di Tim: braccio economico dello stato, entra nella contesa tra due privati e fa pendere la bilancia a favore di chi attacca. A gennaio, col governo gialloverde, salirà al 9,9 per cento. Amministratori vanno e vengono, si fanno e disfanno piani, si discute di separazioni societarie e proprietarie.
Una matassa ingarbugliata
Quello della concorrenza tra reti si rivela sempre più un progetto naïf (se non uno specchietto per allodole), il nuovo mantra diventa la “rete unica” per rendere più efficienti gli investimenti. Openfiber da mezzo per creare concorrenza passa a strumento per ottenere il controllo della rete. Sostiene di aver fatto collegamenti per “quasi” 4,8 milioni di case: ma di questi, 1,2 milioni sono ereditati da Metroweb e, di quelli nuovi realizzati coi fondi pubblici, molti arrivano a 70 -150 metri dalle case, si attestano su pali Enel, dove non passa la rete in rame, che quindi non può essere utilizzata neppure come “ultima ratio” per raggiungere le abitazioni. Secondo Agcom la copertura con Ftth dal 2014 al 2018 è cresciuta di misere 450 mila unità, contro quella con Fttc di 5,9 milioni.
I risultati di Openfiber (si sente parlare di difficoltà sul conto economico), gli interessi di Elliott, le necessità di uscire dal groviglio in cui la politica ha infilato tutti, Tim e Openfiber, Vivendi, Elliot e Cdp: c’è la convergenza di molte ragioni se “la priorità è la rete unica”, come scrive Antonella Olivieri, e Repubblica del 5 maggio dà notizia di un progetto di acquisizione di Openfiber da parte di Tim, (scatenando i sarcasmi del presidente di Openfiber, Franco Bassanini, ripresi da Lettera 43.
Un money deal è impossibile: Tim ha troppi debiti per comperare Openfiber, Cdp troppo orgoglio per vendergliela. I no money deal implicano o una fusione o che Cdp ed Enel apportino Openfiber in un aumento di capitale. Aumento di capitale di Tim o della società della rete preventivamente scorporata? La seconda ipotesi pare improbabile, visto che Vivendi fa del controllo della rete una questione esistenziale per Tim e i tempi sarebbero lunghi. C’è poi sempre l’incubo del precedente dell’Australia, che ci ha provato ottenendo pessimi risultati. Non resta che apportare Openfiber in Tim. Anche qui non senza problemi. Vivendi e Elliott sarebbero diluiti, Cdp crescerebbe: di quanto dipende dal concambio. Tim ai prezzi di borsa attuali vale 7-8 miliardi, Openfiber non è quotata e a quanto pare non produce utili: come calcolarne il valore? E poi Enel, che ha il 50 per cento di Openfiber, cosa farà? Inoltre se la rete resta in Tim, questa è un operatore verticalmente integrato e le sue tariffe non sono calcolate sulla base del metodo Rab (Regulatory Asset Base) più vantaggioso, creato dal governo gialloverde proprio per incentivare la separazione tra rete e operatori telefonici, e anche i contributi per la cablatura delle aree bianche erano stati riservati a operatori non verticalmente integrati.
Così insieme a Cdp in Salini per aiutarla a salvare Astaldi, in Atlantia per aiutarla a salvare Alitalia, l’avremo anche in Tim per salvare Openfiber? Certo, situazioni diverse: ma lo statalismo è una malattia societariamente trasmissibile, se lo conosci lo eviti.
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Vincenzo Maccioni
Sono favorevole affinché alcuni settori strategici siano in mano pubblica, se non altro per permettere un accesso più equo.
TIM non è mai stata equa nel far accedere alla propria rete gli altri concorrenti, ed ha dovuto subire obtorto collo le decisioni AGCOM storcendo sempre il naso e puntando i piedi.
Scorporare la rete in rame di TIM (l’ultimo miglio) e fonderla in OpenFiber secondo me sarebbe la soluzione migliore, perché renderebbe indipendente il gestore della rete e permetterebbe di estendere l’accesso uguale per tutti, soprattutto permetterebbe a tutti di avere una rete con una VERA manutenzione, o che sia sostituita quasi tutta quella in rame con la più performante fibra.
Il problema nasce nel 1998, quando Telecom Italia fu svenduta dal governo D’Alema a Colaninno a pacchetto intero. Era lì che la rete doveva rimanere pubblica e tenuta indipendente!!
Franco Debenedetti
1. Obtorto collo e storcendo il naso. valutazioni antropomorfe irrilevanti. C’è l’Autorità, ha i mezzi per farsi rispettare, e ha dimostrato di essere tutt’altro che prona all’incombente.
2. La rete “è” l’azienda di telecomunicazioni. Perchè la rete nn è (solo) rame, fibra, ponti, è computer e SW. Senza la rete TIM sarebbe una serie di negozi: avremmo perso un’altra grande azienda.
3. Svenduta!? ma come fa a dire svenduta quando il prezzo è quello dell’OPA? E’ l’unico caso in cui il prezzo è quello vero. Anche l’unico in cui il valore della privatizzazione è andato largamente ai cittadini.
Pietro
Alcune domande e considerazioni:
1. Lei scrive “sarebbe bastato che il nostro regolatore consentisse di attivare ovunque il vectoring”. Trattasi quindi di una tecnologia che richiede la presenza di una licenza particolare per essere attivata? Per quale motivo Tim non può indipendentemente decidere di attivarla sull’infrastruttura di sua proprietà?
2. Vero è che Deutsche Telekom ha condotto una “battaglia” in questi anni per difendere la linea in rame. Vero anche che altri paesi come la Francia (con Orange) hanno marciato in direzione opposta. Inoltre, una connessione con velocità teorica a 250-300Mbps sarebbe prevedibilmente obsoleta in due lustri al più tardi, considerato che la velocità effettiva è solitamente inferiore alla metà (talvolta al 30%) di quella teorica e che l’offerta di servizi che richiedono connessioni sempre più veloce sarà destinata ad aumentare.
3. Il fatto che i risultati di conto economico di OpenFiber siano negativi non è poi una grande sorpresa. Il suo modello di business dipende dal successo commerciale degli operatori partner, il che significa che prevedibilmente saranno necessari anni per raggiungere un’elevata penetrazione del mercato.
4. Per quanto riguarda infine la conclusione, aldilà della complessità dello scenario causata da un quadro normativo schizofrenico e da scelte discutibili, secondo lei si sarebbe potuto assicurare un’accesso adeguato ad internet alle aree bianche e grigie (cd. a fallimento del mercato) senza un intervento statale?