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Fca-Renault, scene da un matrimonio

I mercati hanno accolto con entusiasmo l’annuncio di una possibile fusione fra Fca e Renault. Punti di forza sarebbero la grande dimensione del nuovo gruppo e la possibilità di offrire una gamma completa. Tra i punti critici, la struttura proprietaria.

L’entusiasmo dei mercati

I mercati finanziari hanno accolto con entusiasmo l’annuncio di una possibile fusione fra Fca (Fiat Chrysler Automobiles) e Renault, premiando entrambe le società con rialzi immediati dei valori azionari di circa il 10 per cento. Cerchiamo di capire il perché, i punti di forza, di debolezza e quelli in sospeso di questo possibile matrimonio.

La fusione fra le due società costituirebbe il completamento del sogno di Sergio Marchionne: portare l’allora Fiat, di cui prese la guida nel 2004, al di sopra dei sei milioni di automobili prodotte all’anno.
Per Marchionne è stata un’idea-guida durante tutto il suo mandato: il peso crescente dei costi fissi (di progettazione, di ricerca e sviluppo, delle piattaforme produttive) richiede grandi volumi per assicurare un ritorno adeguato sul capitale investito. L’imperativo è quindi aggregarsi o morire. Marchionne fece un primo salto coll’acquisizione di Fca, raddoppiando la scala, ma rimanendo comunque ben al di sotto dei sei milioni.

Un matrimonio con Renault porterebbe il gruppo a superare di slancio la soglia: nel 2018, la produzione congiunta di FCA e Renault è stata di circa 8.5 milioni di autoveicoli. Il numero crescerebbe ulteriormente se la nuova famiglia fosse allargata agli alleati asiatici di Renault, cioè Nissan e Mitsubishi. Al momento non è ancora chiaro se questo succederà, ma se così fosse, nascerebbe il primo produttore al mondo: un colosso con tutte le caratteristiche necessarie per essere protagonista nelle enormi sfide che il settore dovrà affrontare nei prossimi anni. Da qui, il comprensibile – e condivisibile – entusiasmo dei mercati finanziari.

Gamma completa

Ci sono altri aspetti positivi oltre a quello di un aumento generale della scala. La fusione porterebbe il gruppo a una copertura completa dei segmenti di mercato: dalle utilitarie all’alta gamma. Da questo punto di vista, è Fca a portare in dote i pezzi pregiati (Alfa, Maserati, Jeep), assenti dall’offerta della casa francese. D’altra parte, Fca è rimasta indietro sul fronte dell’innovazione “verde”, in particolare l’elettrico, mentre sia Renault che Nissan sono leader in questo tipo di propulsione.

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Le sfide tecnologiche e regolamentari della trasformazione sono enormi e molto incerte. La stessa Tesla, dopo un lungo periodo in cui il mercato le ha concesso ampio credito, soffre molto: il suo valore si è dimezzato da inizio anno. Leadership tecnologica e scala sono due fattori fondamentali per poter giocare le proprie carte in questa partita che ridisegnerà il settore. Il matrimonio Fca-Renault le garantisce entrambe.

Da un punto di vista geografico, la valutazione delle sinergie dipende in modo fondamentale dalla presenza o meno nell’accordo di Nissan e Mitsubishi, su cui ancora non c’è chiarezza. Fca è presente in Europa e nelle due Americhe, ma è assente nel crescente mercato asiatico. Renault è forte in Europa. Le due case giapponesi garantirebbero una copertura completa dei mercati mondiali, realizzando appieno le economie di scala e le possibilità di diversificazione della domanda rispetto a shock “locali”.

Il destino di Torino

Naturalmente non mancano le incertezze. Una, ovvia, riguarda la struttura proprietaria e il potere decisionale. Per tradizione, i francesi hanno un approccio molto attivo nel garantire gli “interessi nazionali”. Ciò è ancora più rilevante in questo caso, dato che il principale azionista di Renault è lo stato francese, con una quota del 15 per cento. In periodo di nazionalismi, questo potrebbe rivelarsi un problema, condizionando le scelte strategiche della nuova società. Se a ciò lo stato italiano rispondesse con un gioco “prima il mio paese”, il risultato sarebbe il disastro sicuro. Gli Agnelli giocheranno un ruolo fondamentale in questa partita, in quanto rimarrebbero i principali azionisti della nuova società e potrebbero farsi garanti di una gestione bilanciata degli interessi contrastanti. Ma non sarà un compito facile e i loro interessi non coincidono necessariamente con quelli dell’Italia.

Ma quali sarebbero i possibili elementi di scontro fra i nazionalismi? Quello più ovvio riguarda le ricadute occupazionali. Già i sindacati hanno (comprensibilmente) alzato un fuoco di fila rispetto al futuro dei siti produttivi italiani. Di per sé, la fusione non implica necessariamente una riduzione degli addetti alle fabbriche. Anzi, la maggior competitività potrebbe incrementare il livello di produzione, con ricadute positive sull’occupazione complessiva. Inoltre, la produzione di automobili ha economie di scala limitate ed è importante che gli impianti siano vicini ai mercati di sbocco. La produzione, quindi, continuerà a rimanere localizzata nei vari paesi in cui si vendono le automobili anche dopo la fusione.

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Le economie di scala, e quindi i possibili tagli occupazionali, riguardano le attività ad alto valore aggiunto, che si fanno negli uffici più che in fabbrica: ricerca e sviluppo, progettazione dei nuovi modelli, marketing e così via. Sono queste le funzioni che verranno radicalmente ristrutturate nella nuova Fca-Renault.

Nel risiko della ristrutturazione giocheranno una partita importante gli equilibri di forza, ma anche la qualità delle infrastrutture immateriali e del capitale umano presente nelle varie sedi del nuovo colosso. Dopo aver perso la sua centralità produttiva, Torino rischia un ulteriore ridimensionamento anche dal punto di vista strategico. Ma la partita è tutta da giocare e la ex “città della Fiat” potrebbe anche rilanciarsi. Più che picchiare i pugni sul tavolo, servirà dimostrare che in loco ci sono le competenze e l’ambiente adeguato a ospitare una parte rilevante del quartier generale della nuova società.

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Italia che resti, Italia che vai. E non torni

  1. Savino

    Troppo indietro nella produzione dell’elettrico. Troppo presi nella moltiplicazione dei pani e dei pesci con la finanza e le sue alchimie chimiche. Ci si è dimenticati come si conforma un pezzo di metallo.

  2. cesare

    leggo da wikipedia che Fiat Chrysler Automobiles riunisce in un’unica società di diritto olandese con domicilio fiscale nel Regno Unito due gruppi industriali del settore automobilistico: Fiat S.p.A. e la sua controllata Chrysler Group LLC, dopo che il gruppo italiano acquisisce la totalità delle azioni di quello americano.https://www.fcagroup.com/it-IT/media_center/fca_press_release/FiatDocuments/2014/october/Completata_la_fusione_che_ha_dato_vita_a_Fiat_Chrysler_Automobiles_NV_FCA_debutta_al_NYSE.pdf
    faccio fatica a capire quanto FCA e/o gli Agnelli, di cui ignoro residenza fiscale dei singoli componenti della famiglia e della loro holding, possano o debbanno occuparsi degliinteressi dell´Ítalia (o piu´correttamente di alcuni italiani). Sono imprenditori che (leggitamente) tutelano il loro interesse. Leggendo trale righe (ottimo) articolo, pare chele economia di scala siano solo per la progettazione ma, (forse a causa deigli elevati costi di trsporto), la produzione restera´ nei paesi di sbocco. Se cosi fosse, e non ho evidenza per crederlo, gli impianti di produzione siti in italia non (dovrebberero) preoccuparsi del passaparto dei loro shareholders (padroni é fuori moda).

  3. serlio

    se i francesi fanno i loro interessi va tutto bene, per certi opinionisti, se ci prova L’italia è nazionalismo. Qualche chiarimento in proposito sarebbe opportuno.
    Per il resto nessun accenno alle già evidenti sovrapposizioni produttive ma le cui ricadute occupazionali potrebbero essere fuori dall’Italia in quanto già delocalizzate.

  4. Michele

    Operazione che significa l’uscita dell’italia dal settore auto. Magari non nel breve ma nel medio termine certamente si. Già ora l’italia è un importatore netto di auto (circa 1 milione all’anno, giusto per un confronto, la Germania è un esportatore netto per 2 milioni di auto all’anno), in prospettiva diventerà un paese produttore sempre più marginale, giusto un mercato dove vendere un po’ di utilitarie.

  5. Henri Schmit

    La fusione FCA-R risponde al sogno europeo. L’Italia ha un interesse vitale a tenere occupazione e sviluppo in Italia, ma strumenti scarsi per farli valere. La Francia ha lo stesso interesse e strumenti per difenderli (la quota dello stato in R e un sistema paese più valido per FDInvest), ma ha capito da tempo che non sono gli impianti che contano. Renault produce la metà in F rispetto a FCA in I dove le fabbriche sono però in cassa integrazione! Gli Agnelli non possono dare garanzie anti-delocalizzazione, sono già esterovestiti e venderebbero (legittimamente) una fabbrica italiana per un dividendo olandese. L’Italia imprenditoriale deve giocare le sue carte: creatività, ingegneria d’avanguardia e design; non è poco, perché è quello che si vede. Lo stato deve fare la sua parte: ricerca, formazione, ma anche fiscalità, sistema giuridico e finanziario. Renault è avanti nella ricerca tecnologica (elettrico e IA), ma questo non significa che aziende italiane non possono inserirsi e tagliarsi una loro fetta. L’UE dovrebbe promuovere formazione e investimenti in IA, ma boccia la creazione di campioni europei! Bisogna fare come gli Agnelli, essere opportunisti e collaborare con imprese e uomini a progetti transfrontalieri, è quello il miglior modo per assicurare investimento, sviluppo e occupazione di domani in I. E fare come la F, promuovere sé stessa come destinazione degli investimenti, ma non solo a parole; servono condizioni competitive certe e durevoli che adesso non ci sono.

  6. Henri Schmit

    Per capire meglio perché secondo me l’Italia è condannata per colpa propria e inerzia ventennale (dopo le riforme del sistema finanziario degli anni 90) di perdere la grande competizione degli investimenti (fidi, ma anche la ricchezza prodotto nel paese che si espatria), conviene leggere l’ Attractiveness Survey 2018 di Ernst&Young. Tutti i paesi dall’UK alla CH, dalla F alla D, dai NL al P, si attrezzano da decenni in quell’ortica, che piaccia o non piaccia, è la logica del mercato comune. Da questo punto di vista l’Italia è inesistente, il tema non fa parte del dibattito pubblico forse nemmeno di quello accademico, e una parte sempre più importante dei grandi patrimonio italiani (p. es. un imprenditore vende la sua attività) migrano inesorabilmente verso altri lidi. Per questo l’Italia sarà perdente anche in un matrimonio fra FCA e Renault.

  7. Henri Schmit

    Conclusione: un gruppo privato con fabbriche in cassa integrazione e senza attrezzatura per il futuro diretto da uomini finanziariamente capaci ma senza guida industriale prova a prendersi la maggioranza relativa di un competitore con maggiori potenziali (interni e nipponici), meno impianti più sani, ma decapitato e dimezzato di valore. I Francesi alla deriva pongono condizioni. Gli italiani decisi hanno fretta; controllano FCA attraverso una holding NL, Marchionne era residente in CH, Berlusconi che sta replicando la soluzione per Mediaset in piena campagna di acquisti. In Francia si può creare una società off-shore ma le tasse si pagano lo stesso, a meno di delocalizzare personalmente come FH Pinault proprietario della Kering e uomo più ricco … del Regno Unito. FCA accetta la sede operativa a Parigi, si discute del valore reale, di un dividendo straordinario per diminuire il valore di FCA. La reazione viene dall’ex n.2 di Renault, Tavares, ora alla guida di PSA che ha già rifiutato una SUA fusione con FCA: state regalando R, vale molto di più e manca comunque la guida industriale. Parigi chiede tempo. FCA ritira l’offerta. L’affare mette in evidenza le debolezze italiane: fabbriche in cassa integrazione, acrobazie che permettono ai più ricchi di eludere il fisco, applaudite di qua delle Alpi, di là viste per quello che sono: abusi da evitare. Pur tassando molto la F è meta gradita degli investitori esteri. I FDI in F sono 5x quelli in I da dove tutti scappano. Perché?

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