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Beni culturali alle prese con il governo del cambiamento

Il Consiglio dei ministri ha approvato il nuovo regolamento di organizzazione del Mibac. Accentra i poteri più che migliorare l’impianto normativo che puntava a realizzare un coordinamento a livello territoriale, con il coinvolgimento di attori diversi.

I cardini della riforma Franceschini

Il 19 giugno, il Consiglio dei ministri ha approvato il regolamento di organizzazione del ministero per i Beni e le attività culturali, che sostituisce il decreto del presidente del Consiglio dei ministri n. 171 del 2014. La norma conserva gran parte dei contenuti della cosiddetta riforma Franceschini, ma le modifiche determinano un cambiamento non indifferente nel suo impianto.

Il decreto 171/2014 si propone di mantenere il presidio dello stato a livello territoriale e di stimolare un più diretto confronto con le amministrazioni locali, con un rafforzamento di competenze tecniche e gestionali. E perciò prevede:

  • a livello centrale, la creazione di due direzioni generali in staff (Organizzazione e Bilancio) in aggiunta alle Dg “settoriali”;
  • la migliore definizione dell’attività di valorizzazione e di quella di tutela, per permettere una specializzazione di funzioni;
  • l’istituzione di alcuni musei autonomi nella gestione degli incassi e dei poli museali per il coordinamento regionale fra gli altri musei dello stato;
  • l’istituzione di soprintendenze uniche con responsabilità territoriale e di commissioni regionali per il patrimonio culturale.

La riforma del 2014 riconosce dunque quattro forme organizzative per i musei statali: il museo-ufficio, con un proprio statuto e un direttore (come Castel S. Angelo a Roma o il Cenacolo Vinciano a Milano); il polo museale regionale, con funzioni di coordinamento fra i musei statali sul territorio e di interazione con gli enti locali per politiche di valorizzazione territoriale; il museo dirigenziale con autonomia gestionale (come gli Uffizi); il museo fondazione (come il Museo Egizio o il MaxxiI), nella governance del quale lo stato interviene insieme a diversi attori pubblici e privati.

Le quattro categorie si distinguono per livelli di autonomia. Il museo afferente al polo è ufficio dello stato, senza autonomia finanziaria. Gli introiti vengono incassati dal ministero dell’Economia e delle Finanze, che li riaccredita al ministero dei Beni e delle Attività culturali, che poi li trasferisce al polo, che a sua volta li redistribuisce ai singoli musei. È evidente la macchinosità del sistema: da tre anni è stato istituito un apposito capitolo per il Mibac, ma la mancanza di autonomia finanziaria vincola in modo significativo il funzionamento di questi musei.

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I musei autonomi hanno personalità giuridica, statuti, governance e ricavi propri, ma sono comunque articolazioni del Mibac, regolati dal diritto pubblico: non hanno quindi autonomia nella gestione del personale (che resta del ministero). Pur avendo un proprio Iban e un proprio bilancio, non sono autorizzati a spendere al di fuori della disponibilità dei singoli capitoli di spesa e ogni scostamento deve essere preventivamente approvato dal consiglio di amministrazione. Solo le fondazioni sono enti autonomi nel senso “aziendalista” del termine.

L’impatto della riforma Franceschini su un ministero caratterizzato da basso turnover e alti fabbisogni di personale è stato significativo e ha inciso non poco sui modi di lavorare. La struttura è fragile. Chi scrive fa parte del consiglio di amministrazione di uno dei musei autonomi e ha sperimentato l’impegno delle persone coinvolte, ma anche la fatica ad assumersi responsabilità ben diverse rispetto al passato e a interagire con Roma e con il territorio. Rispetto alla portata della riforma, i risultati sono visibili, anche se naturalmente c’è molto da fare. L’ impegno e la fatica hanno colpito anche le Soprintendenze e le direzioni generali.

La nuova riforma

Dal governo Conte ci si sarebbe aspettati un adeguamento dell’organizzazione del ministero in una prospettiva di continuità e di consolidamento, e in coerenza con un sistema normativo che tende sempre più a realizzare un coordinamento a livello territoriale (si veda il sistema nazionale dei musei) e un coinvolgimento di attori diversi (ad esempio attraverso Art bonus).

I principali cambiamenti realizzati dalla nuova riforma indicano invece direzioni diverse. Ci sarà un aumento della centralizzazione. Circa un quarto delle posizioni dirigenziali del ministero è attribuito alle strutture centrali; viene creata una nuova direzione generale in staff per i contratti e le concessioni che sarà stazione appaltante per tutti gli uffici centrali del Mibac e, oltre una certa soglia, anche per quelli periferici. I musei più grossi (il Colosseo, gli Uffizi, Pompei) dovranno passare attraverso il ministero per le gare più rilevanti. Certo, la misura risponde a un vuoto diffuso di competenze su un tema delicato. Tuttavia, è ragionevole immaginare che il suo primo effetto sarà un forte allungamento dei tempi di istruttoria: già oggi diverse concessioni sono in proroga e la misura non risolve, ma anzi acuisce, un problema significativo. Un’alternativa sarebbe stata rafforzare l’ufficio contratti della Dg Bilancio e lavorare sulla collaborazione con gli uffici amministrativi dei musei autonomi. Altre posizioni dirigenziali sono affidate alle direzioni generali, ma i dirigenti della direzione generale Archeologia calano da sei a cinque, nonostante aumenti il lavoro in capo alla Dg. Le commissioni regionali sono sostituite dai segretariati distrettuali (ragionevolmente composti da più regioni) sotto la responsabilità del segretariato generale.

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Si verificherà anche uno speculare indebolimento delle strutture periferiche, lato tutela e lato valorizzazione, nello specifico le Soprintendenze (rispetto ai segretariati distrettuali e alla Dg Archeologia, belle arti e paesaggio) e i musei autonomi (ridotti di tre unità e dipendenti da Roma per gli appalti più consistenti). Non è nota la ragione dell’eliminazione dei tre istituti autonomi dell’Appia Antica, del museo Etrusco e di Villa Giulia, né sono chiari i loro destini. Di sicuro si troveranno a dover modificare pratiche, strategie e comportamenti in direzioni diverse, a seconda che siano accorpati a musei autonomi (come si ventila per l’Accademia) o rientrino nei rispettivi poli museali.

L’incertezza caratterizza poi i destini dei Cda dei musei autonomi, che in questi anni hanno portato (con puro spirito di servizio, visto che i membri non percepiscono compenso) competenze ed energie per assistere i direttori e i funzionari nel processo fondativo e nel primo sviluppo di organizzazioni sulla cui necessità c’era forte consenso. Mentre l’istituzione di diversi uffici esportazione alle dipendenze della Dg Archeologia, belle arti e paesaggio, sottrae questa attività alle Soprintendenze, nonostante vi fosse già il coordinamento di un servizio dirigenziale a Roma e nonostante spetti comunque a loro avviare la procedura di vincolo in caso di diniego all’esportazione.

All’aumento della centralizzazione delle responsabilità e dei poteri non corrisponde una maggiore capacità e velocità di risposta del ministero verso una periferia impegnata in un faticoso processo di costruzione di ruolo e di competenze, né tantomeno una più vigorosa attività di tutela. Ma allora, perché cambiare?

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  1. Maurizio

    Perché cambiare? Poltrone, poltrone, poltrone per ignoranti !

  2. Maurizio Decastri

    Cara Paola, la revisione organizzativa del Mibac ha seguito solo due “obblighi”: usare competenze di Organizzazione (e non solo il buon senso di chi fa la formazione della squadra del cuore al bar) e cercare di migliorare in continuità la riforma Franceschini.
    Le modifiche sono poche e, certamente, vanno verso un minore decentramento su alcuni temi delicati. Per capire le scelte fatte, occorre prima di tutto cogliere tutti gli aspetti di disomogeneità che caratterizzavano, ad esempio, acquisti ed esportazioni.
    Tu parli giustamente di competenze. Ottimo, sono il primo fautore delle competenze.
    Ma se le competenze manageriali scarseggiano e le decisioni hanno tassi di variabilità elevati tra area territoriale e area territoriale, la scelta efficace non può essere un ulteriore decentramento. Lasciare le stesse decisioni a persone con competenze molto varie e percorsi decisionali “personali” non è una buona prassi. Siamo un Paese che deve imparare a decidere in modo omogeneo, non viceversa.
    La delega territoriale è cosa buona e giusta se le condizioni dei delegati sono le stesse e le competenze solide e diffuse.
    Forse occorre partire dalla costruzione delle competenze manageriali per poi decentrare. Altrimenti rischi di affidare scelte delicate e a volte rischiose (il mondo del procurement lo è…) a persone di buon carattere, ottimi tecnici, ma con mappe cognitive varie e non sempre corrette.
    La realtà a volte dista dalla concettualizzazione senza sbavature dei libri.

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