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La sbornia che mina le banche centrali

Molto probabilmente, la Fed interromperà il suo pur prudente rialzo dei tassi. È un segnale di resa alle esigenze dei mercati azionari e obbligazionari. E al problema irrisolto dell’eccesso di debito. Ma così si erode l’indipendenza delle banche centrali.

Dalla Fed un segnale di resa

È sempre più probabile che la Fed, la banca centrale americana, interrompa la risalita dei tassi di interesse iniziata con tanta prudenza solo pochi mesi fa e che aveva portato il tasso obiettivo, quello dei fondi federali, da poco più di zero del 2015 al 2,38 per cento.

I mercati festeggiano perché la lunga fase favorevole viene prolungata ancora per qualche trimestre, ma è un duplice segnale di resa. In primo luogo, alle esigenze di prolungare un ciclo espansivo del mercato azionario e obbligazionario che è stato alimentato proprio dai livelli eccezionalmente bassi dei tassi di interesse. Per il ritorno alla normalità della politica monetaria, da anni annunciato dalla Fed, si prega ripassare. Persino Alan Greenspan, che pure è accusato di essersi troppo piegato alle esigenze dei mercati, diceva che in questo modo la politica monetaria diventa una sorta di gioco degli specchi in cui non si capisce chi segue chi.

Ma è anche la resa ai vincoli imposti dal fatto che non è stato risolto il problema di fondo che ha causato la crisi, cioè l’eccesso di debito. In tutti i paesi, il livello totale del debito è oggi addirittura superiore a quello pre-crisi: in quelli avanzati, la diminuzione (relativa) dei finanziamenti ai privati è stata più che compensata dall’aumento di quelli pubblici (l’Italia si era diligentemente portata avanti coi compiti). In quelli emergenti, a cominciare dalla Cina, il debito privato è cresciuto a ritmi non lontani da quelli pre-crisi dei paesi avanzati. Complessivamente, i settori non finanziari hanno oggi passività pari a oltre tre volte il Pil mondiale e nessuno sa bene come reagirà questa enorme montagna a un ciclo di aumento dei tassi di interesse.

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L’orrore che evoca la domanda è alla base della prudenza con cui persino negli Stati Uniti, dove la ripresa si prolunga da ben nove anni, si guarda all’abbandono delle politiche monetarie ultra-accomodanti.

Il dilemma delle banche centrali

L’ultimo rapporto della Banca dei regolamenti internazionali, in qualche modo la sintesi del pensiero delle principali banche centrali, mette in risalto proprio questo dilemma. Nella parte iniziale, più strategica, dopo aver confessato che il quadro congiunturale favorevole di un anno fa era «troppo bello per essere vero», afferma che oggi le banche centrali si trovano di fronte ad alcuni delicati trade-off: è cioè possibile che decisioni di policy chiaramente positive nel breve termine possano generare costi in futuro. L’esempio portato è proprio la relazione fra bassi tassi di interesse e i livelli correnti di produzione e consumo da una parte e la «propensione al rischio e l’accumulazione del debito nel lungo periodo». Un altro è «l’alta sensibilità dei mercati finanziari una volta che essi sono divenuti dipendenti da una prolungata fase di espansione monetaria».

Dietro i trade-off non c’è solo il problema tecnico fondamentale delle politiche monetarie di oggi. C’è la funzione stessa delle banche centrali, a cominciare dalla loro caratteristica essenziale, che è quella dell’indipendenza, non solo dal potere politico, ma anche da quello economico e finanziario. E, piaccia o no, se nei trade-off indicati dalla Bri si continua a scegliere il vantaggio di breve senza curarsi dei rischi di lungo termine, l’indipendenza viene erosa per così dire dall’interno del sistema finanziario.

Diceva una volta un banchiere centrale degli anni Cinquanta che il segreto della politica monetaria era portare via l’alcol prima che i partecipanti alla festa diventassero troppo brilli. È quello che fece all’inizio degli anni Ottanta Paul Volcker, che riuscì a debellare l’inflazione, cioè a porre fine alla trappola di inflazione con bassa crescita del decennio precedente. Fu anche un grande atto di indipendenza, perché la sua era ritenuta dai più una sorta di missione impossibile: infatti, nominato da Jimmy Carter, fu licenziato a metà mandato da Ronald Reagan e sostituito con Alan Greenspan, che si fece subito amare dai mercati.

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Da allora, a poco a poco, i banchieri centrali hanno lasciato sempre un po’ più a lungo gli alcolici sul tavolo, fino al dilemma attuale: lasciare impazzare ancora la festa o richiamare tutti di colpo alla dura realtà? La relazione della Bri ci dice che non è solo un problema congiunturale: in gioco è l’indipendenza stessa delle banche centrali, cioè di istituzioni che almeno dalla seconda metà del XX secolo sono state un pilastro delle economie e delle stesse democrazie occidentali.

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Ma la revoca ad Autostrade è un terreno sdrucciolevole

  1. Piero

    Non solo il QE Globale sarà OO cioè Eterno (questo è già ovvio oggi x chi lo vuol vedere) per annullar “de facto” e di nascosto, in partita doppia, i debiti sistemici pubblici e privati (piaccia o non piaccia).
    Ma la mia pre-visione è che il prox decennio la forza dei fatti (cioè della prossima grande crisi finanziaria globale) obbligherà il passaggio all’Helicopter Money che finanzierà Direttamente i Deficit Fiscali degli Stati su scala planetaria (mentre oggi il grosso finisce nell’Equity e produce il Wealth Effect soprattutto x il top 10% della popolazione aumentando cosí la Inequality). Alla faccia della indipendenza delle BC dalla Politica (cioè dalla loro dipendenza dalle Elite Finanziarie globali e dai mkt).
    Accadrà ciò che la BIS o BIR del nostro compaesano Borio vede come il fumo negli occhi. Lo dicono pure grossi fondi come Pictet ed Pimco nei loro Secular Outlook ormai. Cordialità

  2. Alessandro

    Ma se non c’è inflazione che male fa non alzare ancora i tassi ?

    • MB

      E’ vero, l’inflazione di tutti i paesi G13 è minore o uguale al 2%, tranne per la Cina (che è al 2.7%). Credo che lasciar divertire ancora un po’ i commensali non sia un grave problema.

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