Con la pandemia sono a rischio liquidità anche le società quotate, non solo le Pmi. Per scongiurare il pericolo, i governi dovrebbero intervenire mediante la concessione di prestiti. Il solo differimento delle scadenze fiscali non è sufficiente.
I costi economici della pandemia
La pandemia di Covid-19 è un’emergenza sanitaria senza precedenti nella storia recente. Ai costi sociali dovuti alle perdite di vite umane, si sommano conseguenze economiche che destano altrettanta preoccupazione. Per far fronte all’emergenza sanitaria, i governi di vari paesi hanno adottato misure restrittive, il cui comun denominatore è la limitazione della libertà di circolazione delle persone. L’effetto collaterale, però, è una probabile contrazione del Pil, per il blocco di quasi tutte le attività economiche e sociali. Allo shock iniziale dal lato dell’offerta, si è quindi aggiunta una crisi della domanda dovuta all’incertezza sui redditi futuri, facendo crescere lo spettro di una recessione economica globale.
In questo scenario a tinte fosche, in cui le vendite di beni e servizi si sono drasticamente ridotte, è necessario scongiurare una crisi di liquidità, anche per evitare che quest’ultima si estenda al sistema finanziario. Si è già discusso della necessità di evitare una crisi di liquidità fra le piccole e medie imprese. Poca attenzione invece è stata rivolta allo stato finanziario delle società quotate. È utile ricordare che negli ultimi anni, complici anche le politiche monetarie accomodanti, molte società quotate hanno accumulato ingenti quantità di debito, tanto da indurre alcuni a proporre un maxi piano di ristrutturazione che scongiuri una crisi finanziaria. E va poi considerata la crescente preoccupazione degli investitori, i quali, da inizio 2020 sembrano scontare una crisi di liquidità da Covid-19.
Gli indici per calcolare i rischi
Per verificare quest’ipotesi, in un recente lavoro abbiamo esaminato il rischio di liquidità di circa 14 mila società quotate provenienti da 26 paesi dell’area Ocse e dalla Cina. Utilizzando i bilanci del 2018 come scenario base (al momento gli unici disponibili), per ogni impresa abbiamo stimato il fabbisogno finanziario e calcolato tre indici di liquidità:
1) il primo indice –cash burn rate– misura per quanto tempo (in anni) un’impresa è in grado di autofinanziarsi senza ulteriori iniezioni di liquidità da parte di creditori o azionisti;
2) il secondo indice – cash flow from operations to current liabilities– stima la percentuale di passività correnti coperta dai flussi finanziari operativi, se quest’ultimi sono positivi, o la crescita attesa delle passività correnti, se i flussi di cassa sono negativi;
3) il terzo indice –cash flow from operations to total debt– stima la percentuale di passività totali coperta dai flussi di cassa operativi, se questi sono positivi, o il tasso di crescita atteso delle passività totali, se i flussi di cassa sono negativi.
Successivamente, abbiamo condotto stress test e studiato l’evoluzione degli indici ipotizzando due scenari di rischio: uno moderato (moderate-risk), che corrisponde a una riduzione dei ricavi di vendita del 50 per cento su base annuale; e uno pessimistico (high-risk), in cui la contrazione della domanda è pari al 75 per cento dei ricavi, sempre su base annuale. Inoltre, per ogni scenario di rischio, abbiamo assunto due livelli di flessibilità operativa: una flessibilità piena, che corrisponde a una capacità totale di aggiustamento della struttura operativa al variare dei ricavi; e una flessibilità parziale, in cui la capacità di aggiustamento è limitata (si veda l’articolo di Fabiano Schivardi per un approccio simile).
Quante sono le imprese coinvolte
Ci focalizziamo qui solo sugli scenari in cui assumiamo una flessibilità operativa parziale. La tabella 1 riassume i valori medi e mediani di ciascun indice e il numero e la percentuale di imprese con un alto rischio di liquidità entro sei mesi dallo shock (illiquid firms). La figura 1 mostra la distribuzione di ciascun indice per ogni scenario di rischio.
Tabella 1: Indici di liquidità per scenari di rischio.
Figura 1: Distribuzione degli indici di liquidità per scenari di rischio.


Come si evince dai risultati in tabella 1 e in figura 1, il cash burn rate in media è uguale a tre anni (cioè −2.98). Il risultato suggerisce che le attività liquide attualmente in bilancio delle società prese a campione, in media, sono sufficienti a finanziare per tre anni i costi operativi prima di esaurirsi completamente nello scenario di rischio moderato. Quest’arco temporale si riduce però a due anni nello scenario più pessimistico.
Inoltre, se le vendite diminuissero del 50 e del 75 per cento, rispettivamente, i nostri risultati indicano che l’aumento delle passività correnti diventerebbe insostenibile, con incrementi che varierebbero dal 216 per cento nello scenario di rischio moderato al 779 per cento nello scenario più pessimistico. Quindi, per evitare una crisi di liquidità e scongiurare l’insolvenza, sarebbe necessario ricorrere al mercato dei capitali. In tal caso, le emissioni di debito andrebbero dal 30 al 53 per cento rispetto al livello di passività totali nel 2018.
Ci siamo anche chiesti quante sono le imprese a rischio liquidità e cosa potrebbero fare i governi per scongiurare che incorrano in un cash crunch. Le nostre analisi dimostrano che sono a rischio liquidità entro sei mesi dallo shock circa il 5 per cento delle imprese del campione nello scenario di rischio moderato e il 10 per cento nello scenario pessimistico.
Le misure sin qui adottate dai vari governi si riassumono in due categorie generali: differimento delle scadenze fiscali e prestiti ponte (o garanzie sul credito). Dalle nostre analisi possiamo concludere che posporre le scadenze fiscali è inefficace. Infatti, delle 1.367 imprese con un elevato rischio di liquidità nello scenario pessimistico, in media, solo una eviterebbe una crisi di liquidità per ogni miliardo di dollari di mancate entrate fiscali. Al contrario, una linea di credito per lo stesso ammontare consentirebbe di evitare a circa 12 imprese una crisi di liquidità entro sei mesi dallo shock.
* Il testo qui pubblicato è una sintesi aggiornata di un contributo apparso in inglese su voxeu.org.
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Antonio De Vito è Senior Assistant Professor of Accounting presso il Dipartimento di Management dell’Università di Bologna, dopo aver ricoperto il ruolo di Assistant Professor of Accounting presso l’IE Business School (IE University) di Madrid. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Business and Economics presso la WHU – Otto Beisheim School of Management in Germania, dopo aver completato i suoi studi presso l’Università Bocconi. I suoi interessi di ricerca includono l’elusione fiscale, il rapporto fra tassazione, struttura finanziaria ed investimenti, il profit shifting ed il transfer pricing. I suoi lavori sono stati pubblicati su Journal of Financial and Quantitative Analysis, Accounting and Business Research, e Journal of Accounting and Public Policy, Economics Letters.
Juan-Pedro Gómez è Associate Professor of Finance presso l’IE Business School, IE University di Madrid. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Economia presso l’Università Carlos III di Marid. In precedenza, ha lavorato presso la ITAM a Citta’ del Messico e la BI Norvegian Business School ad Oslo. I suoi interessi di ricerca riguardano l’asset pricing, compensation, e corporate governance, i cui lavori sono stati pubblicati su Journal of Finance, Journal of Financial and Quantitative Analysis, Journal of Economic Dynamics and Control, e Economic Theory.
Luca
Ai fini della comprensibilità dell’analisi, sarebbe utile comprendere come è stato costruito il cash burn rate.
Grazie,
Antonio De Vito
Cash burn rate = (Cash + accounts receivable) / (Cash flow from operations).
Davide
Assumendo quindi che il 100% dei receivable verranno effettivamente accreditati…