L’accordo del 14 luglio non ha risolto tutte le questioni del caso Aspi. Perché allora non riproporre il modello del 1999, con Atlantia nel ruolo di venditore e Cdp in quello di nucleo stabile acquirente? Servirebbe più tempo, ma con benefici per tutti.
Le spine dell’accordo
A leggere le notizie di stampa l’affaire Aspi si sta ingarbugliando. Era prevedibile perché, nonostante il tempo trascorso dalla tragedia di Genova e dalle annunciate decisioni politiche, l’“accordo” del 14 luglio lascia da sciogliere le questioni più complesse, senza contare la delicatezza (almeno) giuridica di realizzare il proposito di fare piazza pulita dell’attuale azionista di controllo agitando lo spauracchio della revoca della concessione: motivo di più per andarci con i piedi di piombo. Su tutto questo, sulle responsabilità di Aspi e su quelle dello stato ho avuto modo di riflettere in un libro uscito tre mesi fa.
Cerchiamo di vedere razionalmente la questione. Quattro sono gli obiettivi che il governo ha messo sul tavolo: il controllo pubblico di Aspi, l’introduzione di un rigoroso modello tariffario, il risarcimento dei danni causati dal crollo del ponte Morandi e l’irrogazione di una sanzione a carico della concessionaria. D’accordo su tutte e quattro le condizioni, inclusa la prima, che a questo punto è inevitabile. Ma con un (mesto) distinguo di principio. Se guardiamo alla sua storia, Atlantia ha dato sì prova di una ragguardevole dose di animal spirits, diversificando il raggio delle attività ed espandendosi in quelle già in portafoglio. Però lo ha potuto fare con leve finanziarie spinte e livelli di indebitamento multipli rispetto al valore della produzione, che l’hanno esposta a turbolenze di varia origine, condizione che mal si concilia con quella di concessionaria di attività svolte in nome dello stato, complice il generale benevolo disinteresse di quest’ultimo. Ben venga dunque il controllo pubblico, come ripiego all’incapacità dello stato di imporre barriere fra attività in concessione e attività “di mercato”. Speriamo che tutto ciò non si ripeta una volta che la società sia passata sotto il controllo della mano pubblica e che i suoi azionisti siano meno avidi di dividendi dei predecessori.
Da quanto si apprende, il nodo che oggi contrappone Atlantia al governo è il valore di cessione delle azioni di Aspi di cui è titolare per l’88 per cento. Operazione complessa, se fatta a tavolino, che coinvolge una moltitudine di soci, con la famiglia Benetton che ne possiede solo il 30 per cento. Tutti i soci temono che dietro la trattativa vi sia, da parte del governo, l’obiettivo non solo di pagare il meno possibile (il che è fisiologico in ogni trattativa commerciale), ma anche di irrogare una sanzione aggiuntiva – stavolta sul prezzo di cessione – a carico del venditore. Una sanzione occulta che, vero o meno che sia l’intendimento del governo, non giova all’immagine del paese: trasparenza ed eliminazione di conflitti di interesse vorrebbero che la sacrosanta “punizione” fosse quantificata separatamente dal prezzo che lo stesso stato (o meglio, il governo) vorrebbe pagare.
Il modello del 1999
La domanda è: se la valutazione di Aspi deve essere di mercato, come è giusto che sia, perché non ricorrere direttamente al mercato? Non sarebbe nemmeno un’innovazione: è quanto previsto dalla legge 474/94 ed è l’opzione seguita nelle operazioni di privatizzazione delle maggiori società, sia quando lo stato ha deciso di mantenerne il controllo sia quando ne è completamente uscito. Cos’è che rende “speciale” questo caso?
Quando nel 1999 Autostrade spa, allora quotata in borsa e per l’87 per cento di proprietà dell’Iri, venne privatizzata, il governo dell’epoca configurò l’operazione in due passaggi: la cessione a trattativa diretta di un pacchetto del 30 per cento a un nucleo stabile di azionisti (Schema 28, dunque Benetton) a un prezzo che sarebbe scaturito dalla contestuale offerta pubblica di vendita delle restanti azioni in mano a Iri, maggiorato del 5 per cento a titolo di premio di controllo.
Oggi Aspi non è più quotata, ma è intenzione del governo procedere in questa direzione per farne una società ad azionariato diffuso seppure con un nucleo stabile di controllo: però (qui sta il punto, per quanto se ne sa) solo una volta acquisite le quote in mano ad Atlantia. Difficile vedere una logica industrial-finanziaria in questa impostazione, se non quella di chiudere in fretta la partita e magari di spuntare al ribasso un prezzo di cessione che risenta delle difficoltà che la società attraversa. Dove la rapidità è un imperativo squisitamente politico, così come politica rischia di essere la contrattazione sul prezzo.
Perché dunque non tornare, a parti rovesciate, al modello del 1999, stavolta con Atlantia nel ruolo di venditore e Cassa depositi e prestiti (o chi per essa) in quello di nucleo stabile acquirente, concordando fin d’ora fra le parti un prezzo che scaturirà dalla quotazione in borsa a seguito di un’Ipo?
Si dirà che l’operazione richiederebbe più tempo e comporterebbe mal di pancia in quelle parti politiche che sembrano cronicamente esposte a questo disturbo, magari ansiose di incassare dividendi di facile popolarità, e che invece dovrebbero potersi sentire rassicurate da impegni blindati nel metodo. Per converso vi sarebbero benefici plurimi.
Gli obiettivi che il governo si prefigge sarebbero conseguiti, con un vantaggio non di poco conto: la trasparenza dell’operazione e la rassicurazione dei mercati, oggi perlomeno interdetti dalla piega che ha preso la vicenda.
Da non (radicale) “credente” nelle virtù del libero mercato (tanto meno in quello finanziario!) resto convinto che se questo è il terreno di gioco tocca rispettarne le regole, purché non siano falsate. L’attuale contesto regolatorio è lontano da quello del 1999, quando il valore di mercato fu drogato dalla contestuale estensione della durata della concessione e da un modello tariffario per lo meno generoso: basti pensare che il solo annuncio dell’operazione determinò nel 1998 un rialzo dei valori di borsa del 43 per cento. Ogni ipotesi di proroga andrebbe oggi ovviamente bandita (sarebbe, fra l’altro, un regalo ad Atlantia) e la regolazione tariffaria recentemente varata dall’Autorità dei trasporti è lungi dal riconoscere regali ai gestori autostradali: difficile pensare che il ricorso al mercato possa tradursi in uno ad Atlantia. Anche a scongiurare questa eventualità le complesse operazioni propedeutiche al collocamento in borsa andrebbero effettuate d’intesa fra Atlantia e il governo, con consulenti scelti di comune accordo.
Certo, potrebbe volerci un anno per completare il percorso, fra la definizione del piano industriale, la conclusione della trattativa privata per la cessione del nucleo stabile di controllo, l’individuazione dei consulenti strategici e degli intermediari che affiancheranno l’impresa nell’offerta pubblica, le eventuali indagini di mercato e di raccolta di informazioni di acquisto, la scelta del metodo di valutazione dell’azienda e la determinazione del prezzo, l’emissione del prospetto informativo e la sua approvazione da parte della Consob, il collocamento dei titoli e la quotazione in borsa. E allora? Inciampano quelli che corrono veloce, avvertiva Shakespeare, ammonizione che fa il paio con quella di Aleksandr Solzhenitsyn: “la precipitazione e la superficialità sono le malattie croniche del secolo”, che ben rappresenta lo stato del nostro immobilismo.
Fra l’altro, quell’anno potrebbe essere speso per imporre ad Aspi/Atlantia di mettere in sicurezza la rete autostradale e in questo modo liberare Cassa depositi e prestiti dal mal di pancia che, sembra, comprensibilmente la sta portando a chiedere lo scudo penale per eventuali futuri “incidenti”.
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Piero
Perchè è giusto che la valutazione sia di mercato se lo stato catturato gliela vendette con uno sconto scandaloso ai danni dei cittadini che non avevan gli strumenti x capire e fermare quel regalo ? Per il diritto ? di chi: del + forte.