La Rai opera sul mercato col peso di un dilemma: come essere strumento democratico di pluralismo informativo e società per azioni improntata al conseguimento di utili? La risposta potrebbe essere nella riformulazione della governance.
L’assetto della Rai e le possibili riforme
Il caso mediatico-politico che ha coinvolto la dirigenza di Rai3 e Fedez ha avuto il merito di puntare i riflettori sulla Rai, sull’adeguatezza della sua governance, sui progetti di riforma in cantiere.
Oggi, la struttura del governo societario della Rai deriva dalla legge 220/2015 promossa dall’allora governo Renzi, che superò l’impianto della legge Gasparri (legge 112/2004) e istituì un nuovo assetto di poteri. Senza però abbandonare il sistema di governance tradizionale: un consiglio di amministrazione con composizione mista (quattro eletti dal Parlamento, due dal governo e uno dall’assemblea dei dipendenti), con valorizzazione del ruolo dell’amministratore delegato, nominato dal Cda su proposta dell’assemblea, vale a dire il ministero dell’Economia, quale vero e proprio capo-azienda. Il tutto, con allungamento da tre a cinque anni della durata della concessione di servizio pubblico tra lo stato e la Rai (il contratto di servizio), in scadenza nella primavera 2022.
Anche il prossimo organo amministrativo, che si insidierà entro la fine di giugno 2021 all’assemblea di approvazione del bilancio al 31 dicembre 2020, sarà dunque eletto con le regole attuali.
Tuttavia, qualcosa si muove. Il 4 maggio 2021, la Commissione parlamentare di vigilanza Rai ha dato avvio a una “Indagine conoscitiva sui modelli di governance e sul ruolo del Servizio pubblico radiotelevisivo”, volta a superare l’impianto della legge 220/2015.
In Senato, invece, pende il disegno di legge n. 2011/2020 promosso dalla senatrice Pd Valeria Fedeli. In nome dell’indipendenza della Rai, il Ddl propone, in estrema sintesi, di conferire le azioni della Rai oggi in capo al Mef a una Fondazione di nuova costituzione. Una duplicazione di livelli con sopra la Fondazione (azionista Rai) guidata da un consiglio di amministrazione di nomina essenzialmente politica e compiti di indirizzo e controllo. Sotto, l’azienda, condotta da diverso Cda di sette membri, auspicabilmente manager di settore. L’intento è quello di smussare l’intreccio tra politica e amministrazione, frapponendovi la Fondazione Rai, passando però da un’operazione societaria che il ministero dell’Economia, attuale azionista unico, potrebbe non gradire.
Il modello duale applicato alla Rai
In questo contesto, meriterebbe dare impulso a una diversa proposta, che pure guarda agli stessi obiettivi, riformulando la governance della Rai in senso dualistico.
Quello duale è il sistema più congeniale per le società in cui sono coinvolti interessi pubblici, ma sinora ha avuto poca fortuna nel nostro paese. Prevede una duplicazione di livelli per il tramite di un “dualismo” tra il consiglio di sorveglianza, organo di indirizzo e controllo nominato dagli azionisti, e il consiglio di gestione, organo di amministrazione nominato dallo stesso Cds. Secondo il Rapporto Consob 2020 sulla corporate governance delle società quotate italiane, delle 224 società quotate italiane solo una ha scelto il modello dualistico. Eppure, l’ultimo Oecd Corporate Governance Factbook (giugno 2019) riporta che ben undici paesi Ocse adottano esclusivamente il modello dualistico, e in alcuni casi (ad esempio la Svizzera) dove vi è la scelta tra monistico e dualistico, quest’ultimo è obbligatorio per le società di significativa rilevanza pubblica o con azionariato diffuso (banche e assicurazioni). La principale ragione sta nel fatto che nelle public companies l’assemblea non è in grado né di esprimere indirizzi specifici né di controllare efficacemente il management, spesso per carenza delle necessarie capacità tecniche. E così si preferisce che gli azionisti investano di questi compiti un organo professionale, il Cds appunto, capace di svolgerli più efficacemente.
Come si declina il sistema dualistico sulla Rai? Il modello allenterebbe il legame tra manager e azionista (Mef), evitando che l’azienda sia mera emanazione dell’esecutivo, che però non ne perderebbe la proprietà. Più in generale, allenterebbe il legame con la politica, che sarebbe chiamata a “delegare” al consiglio di sorveglianza la maggior parte delle funzioni di indirizzo e controllo. Una volta eletto, sarebbe infatti quest’organo, in una dialettica tutta interna, a dialogare con i veri e propri gestori della società che siedono nel consiglio di gestione.
In quest’ottica, al primo livello opererebbe il consiglio di sorveglianza, la cui nomina spetterebbe al Parlamento, fermo almeno un membro eletto dall’assemblea dei dipendenti e uno dal Mef. Sarebbe un organo ampio (anche dodici membri), con un preciso tetto di compensi, stringenti requisiti di indipendenza, improntato più al principio di rappresentatività che di efficienza. Si frapporrebbe tra la politica e il management, di cui sarebbe il controllore, in particolare approvando il bilancio.
Il consiglio di sorveglianza dovrebbe poi nominare il consiglio di gestione, che al contrario si caratterizzerebbe quale organo ristretto (tre membri) e pienamente operativo. A farne parte sarebbero nominati manager del settore, cui affidare le specifiche deleghe nelle diverse aree di business in cui opera Rai (editoriale, finanziaria e industriale). Si tratterebbe, di fatto, di tre amministratori delegati che agirebbero parallelamente senza intralciarsi, tutti con dovere di rispondere al consiglio di sorveglianza, che manterrebbe il potere di revoca.
La Commissione parlamentare di vigilanza potrebbe, invece, essere espunta dallo statuto della Rai, ai sensi del quale ancora conserva alcuni poteri di veto, pur restando in essere per svolgere i compiti di controllo politico sull’intero sistema dell’informazione nel paese.
Seppur delineato in sintesi, già appaiono evidenti i vantaggi del modello ipotizzato: duplicazione di livelli immediata che favorisce la snellezza gestoria, indipendenza del management esecutivo, senza dimenticare un adeguato grado di rappresentatività all’interno degli organi sociali.
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Luigi
Ma la nomina del CdS che rimarrebbe di competenza politica cioé del Parlamento gli garantirebbe i requisiti di indipendenza richiesti?
Condivido invece pienamente l’espunzione del CPV dallo Statuto Rai