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Assegno per i figli senza rinunciare al lavoro*

È possibile aumentare il sostegno pubblico alle famiglie con figli senza disincentivare l’offerta di lavoro, soprattutto quella femminile? Alcune simulazioni dicono di sì. Ed è un risultato importante per un paese con tassi di occupazione bassi.

Come disegnare l’assegno

Dal prossimo gennaio dovrebbe entrare in vigore l’assegno unico e universale per i figli (Auu) previsto dalla legge delega approvata la scorsa primavera. È una misura che può segnare un importante cambiamento per il welfare italiano, viste le risorse impegnate (pari a 6 miliardi di euro, che in media garantirebbero a ciascun figlio circa 525 euro annui in più rispetto a oggi), l’inclusione di categorie di famiglie oggi poco tutelate dagli strumenti esistenti e la semplificazione che deriverebbe dalla transizione da una moltitudine di misure non coordinate a un unico beneficio. Andrà a sostituire in modo strutturale l’assegno temporaneo destinato alle famiglie con figli minori che non hanno diritto agli assegni al nucleo familiare, introdotto dal primo luglio e limitato al solo semestre in corso.

Come sarà l’Auu che il governo disegnerà nei decreti attuativi? Difficile dirlo a priori, anche perché non sono pochi i punti critici da affrontare. In un nostro lavoro (“L’assegno unico e universale per i figli: aspetti di equità ed efficienza”, di prossima pubblicazione su Questioni di Economia e Finanza) simuliamo una possibile ipotesi, coerente con le indicazioni della legge delega, caratterizzata da un profilo decisamente progressivo e attenta agli effetti sugli incentivi monetari all’offerta di lavoro, soprattutto quella femminile.

Nella nostra ipotesi, l’assegno sarebbe composto da tre parti: una componente base, che dipende dall’età dei figli, una maggiorazione per le famiglie numerose e una maggiorazione legata alla condizione lavorativa dei genitori. La tabella 1 riporta i parametri utilizzati per la simulazione.

L’assegno unico e universale e gli incentivi all’offerta di lavoro

Qui ci soffermiamo su un aspetto particolarmente rilevante: come evitare di peggiorare gli incentivi all’offerta di lavoro con il nuovo Auu, che deve essere progressivo e basato su un indicatore di benessere economico familiare (l’Isee), secondo le indicazioni della legge delega. Rimandiamo invece al lavoro completo per tutti gli altri dettagli e per ulteriori risultati, tra cui il numero e le caratteristiche (anche in termini di condizione professionale) delle famiglie avvantaggiate e svantaggiate dall’ipotesi di riforma.

Un trasferimento decrescente rispetto all’Isee comporta disincentivi all’offerta di lavoro essenzialmente di due tipi. Da un lato, sul margine intensivo, rende meno conveniente l’aumento del reddito da lavoro per chi è già occupato; dall’altro, su quello estensivo, può scoraggiare la partecipazione lavorativa degli individui privi di un’occupazione (che sono in maggioranza donne). Per limitare questi disincentivi, la nostra ipotesi di Auu prevede una maggiorazione per la condizione lavorativa dei genitori, il cui funzionamento è illustrato dalla figura 1, che si riferisce a una famiglia di due adulti e due figli con età compresa tra 4 e 17 anni (per le sue caratteristiche non godrebbe della maggiorazione per le famiglie numerose). Andamenti analoghi, seppure con importi ovviamente diversi, sono previsti anche per le altre tipologie di famiglie.

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Figura 1 – Auu ipotizzato per una famiglia con due adulti e due figli minori, per livello di Isee (euro per l’Auu; migliaia di euro per l’Isee).

Dalla figura 1 emerge che l’importo dell’Auu sarebbe differenziato a seconda del numero di lavoratori presenti nella famiglia. Se nessuno lavora, c’è solo la componente base che dipende dall’Isee. Quando ci sono redditi da lavoro, si attiva anche la maggiorazione per la condizione lavorativa. Questa consta di una parte destinata alle famiglie di lavoratori a reddito basso (anche in presenza di un solo lavoratore) e di una parte – aggiuntiva alla prima – destinata alle famiglie con due genitori che lavorano.

La prima parte ha un peculiare andamento trapezoidale, qualitativamente analogo a quello dell’Earned Income Tax Credit negli Stati Uniti: nel tratto ascendente, un aumento del reddito da lavoro determina un aumento anche dell’Auu, aspetto che non solo non peggiora gli incentivi monetati all’offerta di lavoro, ma addirittura li migliora. Segue poi un tratto piatto, in cui un aumento del reddito da lavoro non implica una riduzione dell’Auu: anche in questo tratto, gli incentivi non peggiorano. In sostanza, l’inasprimento degli incentivi al lavoro sarebbe limitato al solo tratto discendente del trapezio.

La seconda parte mira a mitigare i disincentivi all’offerta di lavoro del second earner: con due lavoratori in famiglia l’Auu sarebbe più alto rispetto a quanto percepirebbe una famiglia con un solo lavoratore a parità di Isee. Oltre che a ragioni di efficienza, la maggiorazione in parte compensa gli oneri monetari per la cura dei figli, verosimilmente più alti nelle famiglie con due genitori lavoratori rispetto a quelle con un solo genitore che lavora. Infine, la figura mostra che le maggiorazioni incidono in particolare nei tratti in cui la distribuzione delle famiglie per Isee è più concentrata.

Il trade-off tra equità e incentivi al lavoro nella nostra ipotesi

A questo punto ci si può chiedere come si colloca questa ipotesi di Auu nel tradizionale trade-off tra equità ed efficienza. Nella tabella 2 si nota una sensibile riduzione della disuguaglianza e della povertà, soprattutto quella minorile. Per capire quanto “costa”, in termini di disincentivi al lavoro, il miglioramento dell’equità, utilizziamo due classici indicatori: le effective marginal tax rates (Emtr) per gli individui già occupati e le participation tax rates (Ptr) per le potenziali lavoratrici, in quest’ultimo caso volendoci concentrare sulla partecipazione femminile al mercato del lavoro (figura 2).

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Con l’introduzione dell’Auu da noi ipotizzato la partecipazione femminile non solo non sarebbe scoraggiata, come temuto da molti osservatori date le indicazioni contenute nella delega, ma sarebbe complessivamente stimolata, dato che le Ptr si riducono fino a 15 mila euro di Isee, livello entro cui è concentrato circa l’80 per cento delle potenziali lavoratrici. Quanto al margine intensivo, i disincentivi per gli occupati aumenterebbero leggermente. Tuttavia, anche in questo caso si ridurrebbero per le famiglie con Isee bassi, che vedono un deciso calo delle Emtr grazie all’andamento trapezoidale della relativa maggiorazione.

I risultati del nostro esercizio sono incoraggianti: al di là dei dettagli, ci dicono che, con le risorse a disposizione, è possibile aumentare il sostegno pubblico alle famiglie con figli senza disincentivare il lavoro, un risultato importante per un paese con tassi di occupazione (specie femminili) così bassi come quelli italiani.

* Le opinioni espresse sono quelle degli autori e non impegnano l’istituzione di appartenenza.

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  1. Gianni

    Incentivare soprattutto la natalità delle classi svantaggiate non determina nel lungo periodo un progressivo abbassamento del QI medio, che è correlato con la povertà?

  2. Mahmoud

    Lo sappiamo tutti come andrà a finire, che chi vive con soli sussidi e aiuto dello Stato o peggio è abbiente ma non dichiara vedrà altri soldi lui versati da parte di chi è lavoratore dipendente, con la scusa che deve mantenere i molti figli che comunque avrebbe fatto non essendo impegnato a perseguire crescita professionale o altre simili fandonie nel corso delle sue giornate. Chi già non ha tempo per avere (perché sa che occorre crescerli) figli oggi ne avrà ancora meno, perché dovrà lavorare per pagare anche questa nuova ideona dell’assegno a chi non dichiara nulla ma pur vivendo d’aria figlia a ripetizione. Rimane un importante esperimento sociologico osservare fino a che punto sia possibile tirare la corda, l’URSS in questo è stata una ormai dimenticata miniera d’oro di paradossi. Ma con la china assistenzialistica ora in atto potrebbe battersi ogni record di assurdità

  3. Massimo Calvi

    L’analisi è molto interessante. Ma a mio parere ha un limite: non tiene conto del fatto che le misure economiche per la famiglia dovrebbero avere l’obiettivo prioritario di sostenere le nascite e permettere alle coppie di avere i figli che desiderano. E per assolvere questo compito devono essere semplici (questa non lo è), generose (nemmeno questo) e universali (men che meno). Negli altri Paesi europei (Germania, Francia, Svezia… etc) si segue questo principio senza troppi problemi e i tassi di occupazione femminile sono molto più alti, come più alti sono i tassi di fecondità. Perché? Perché l’occupazione delle donne (e la libertà di scelta) si difende offrendo più servizi, congedi… etc, non limitando i sostegni economici e lesinando sulle risorse. Un cordiale saluto

  4. Nino Sutera

    A quanto scritto da Massimo Calvi che condivido totalmente aggiungo la piccola ovvia banalità che prima di porci questioni che alla fine risultano essere meramente accademici soprattutto nelle regioni del nostro sud dove il lavoro purtroppo non c’e’ per nessuno, gli economisti dovrebbero domandarsi come creare lavoro e come non fare scappare quel poco che c’e’.

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