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Il blocco del credito e dello sviluppo*

Secondo il Fondo monetario, la principale vulnerabilità del sistema bancario italiano è oggi l’assenza di crescita economica. Per tornare allo sviluppo, sono necessari interventi che liberino i flussi di credito alle imprese. Il debito della Pa, i crediti deteriorati e l’avvitamento pro-ciclico.
UNA SPIRALE DA INTERROMPERE
La salute dell’economia è la salute delle banche. E viceversa. Il legame bidirezionale tra la condizione delle imprese e quella delle banche che le finanziano porta taluni ad attribuire la caduta del 3,3 per cento del credito alle imprese nel 2012 al cattivo funzionamento delle banche, altri a quello dell’economia. Per Alberto Alesina e Francesco Giavazzi la riduzione del credito è dovuta all’insufficiente capitalizzazione del sistema bancario. (1) Per Carlo Milani (“La coperta corta delle banche italiane”, lavoce.info, 24 aprile 2013,) al peggioramento del portafoglio crediti dovuto a una recessione d’inaspettata durata e severità. Per i primi la causa va ricercata nel modo di operare delle banche e cioè nell’offerta di credito; per il secondo in quello dell’economia e cioè nella domanda di credito.
Due recenti documenti offrono nuovi spunti al dibattito. Si tratta del comunicato del Fondo monetario internazionale sui risultati preliminari della valutazione del sistema finanziario italiano, diffuso a fine marzo, e del Rapporto sulla stabilità finanziaria della Banca d’Italia, pubblicato a fine aprile. (2) La lettura congiunta dei due documenti aiuta a far luce sul processo in corso e sulle politiche necessarie a interrompere la perversa spirale tra credito e sviluppo. Vediamo come, concentrandoci su alcuni fattori, riconducibili alle quantità di credito offerte (punti a-c) e domandate (punto d):
a) carenza di capitale che induce alla riduzione dell’attivo (deleveraging);
b) carenza di liquidità che ostacola gli impieghi a lungo termine (maturity mismatching);
c) dipendenza dai finanziamenti all’ingrosso e rischi di fire sales dell’attivo (funding gap);
d) quota dell’attivo costituita da prestiti a imprese con squilibri reddituali e patrimoniali.
Sui primi due fattori, fa chiarezza il comunicato dell’Fmi quando osserva che dagli stress test di solvibilità e liquidità il sistema bancario italiano “appare nel suo complesso ben capitalizzato” – tale cioè da resistere a improvvise e forti cadute del prodotto interno o a scenari di bassa crescita – e liquido, sia pure grazie agli interventi della Bce. Sul punto c) interviene il Rapporto della Banca d’Italia che mostra come la variazione del credito alle imprese risponda negativamente al funding gap, definito dalla quota degli impieghi non finanziata dalla raccolta al dettaglio (figura 1). In sintesi, senza escludere il ruolo condizionante della disponibilità di capitale e di liquidità nel medio periodo e in singoli casi aziendali, i due documenti sottolineano il vincolo costituito dal funding gap nella prospettiva della futura scadenza dei finanziamenti a lungo termine della Bce.
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Passando agli aspetti più legati alla domanda di credito, il Rapporto sulla stabilità finanziaria osserva, con riferimento al punto d), che la concentrazione dei crediti alle imprese con oneri finanziari elevati è in crescita (figura 2) e che l’effetto della fase ciclica avversa su utili e sul fatturato non consente di ipotizzare nel breve termine un miglioramento della qualità dell’attivo bancario (figura 3).
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Vi sono poi le condizioni di costo del credito, legate a questioni di efficienza e alla dipendenza del costo del credito dal rendimento dei titoli pubblici. Senza pretesa di completezza ricordiamo solo che recenti studi del Fmi e della Banca d’Italia mostrano come lo spread dei titoli pubblici si scarichi per intero e con modesti ritardi sui tassi attivi bancari. (3) Questo dà al tasso di crescita dell’economia, come fattore di stabilizzazione del debito pubblico, un ruolo decisivo nell’interrompere la segmentazione del costo del credito nell’area dell’euro e la penalizzazione relativa delle imprese localizzate nei paesi con debito pubblico più elevato.
IL PESO DEGLI ATTIVI IMPRODUTTIVI
Dal quadro economico e finanziario – qui solo sorvolato per esigenze di spazio – l’Fmi conclude che la principale vulnerabilità del sistema bancario italiano è l’assenza di crescita dell’economia e che “restoring economic growth (…) remains the most important precondition for financial stability”.
Non sono conclusioni di poco conto se si pensa che la recessione e il contestuale deterioramento degli attivi creditizi appaiono oggi vincoli alla stabilità più cogenti della carenza di liquidità e di capitale che aveva contrassegnato le fasi più acute della crisi nello scorso biennio. Ciò rileva soprattutto perché l’enfasi sulla qualità del portafoglio di prestiti alle imprese – e quindi sul miglioramento delle condizioni finanziarie delle imprese, da un lato, e sullo “smaltimento” dei prestiti deteriorati dall’altro – suggerisce aree d’intervento aggiuntive a quelle tradizionali del capitale e della liquidità.
Un passo già intrapreso per il miglioramento della situazione finanziaria delle imprese è l’accelerazione del pagamento dei debiti commerciali delle pubbliche amministrazioni. Le stime della Banca d’Italia indicano che alla fine del 2011, a fronte degli 894 miliardi di credito ottenuti dalle banche, il sistema delle imprese ne dava 91 (circa il 10 per cento) al settore pubblico. Non è difficile intuire l’entità del miglioramento della situazione finanziaria che deriverebbe da una riduzione del 10 per cento dell’esposizione debitoria delle imprese o dal suo spostamento dal finanziamento del settore pubblico a quello degli investimenti produttivi.
Più complesso ma non meno importante è il problema della riduzione o del contenimento dell’attivo “improduttivo” costituito dai crediti deteriorati che, al netto degli accantonamenti effettuati, erano pari all’8,7 per cento del totale alla fine del 2012. Tanto più ampio è l’attivo improduttivo, tanto maggiori le risorse (raccolta) che sono bloccate dal lato del passivo per finanziarlo. Se il primo si riduce, si riducono le seconde e si amplia quindi il volume della raccolta che è possibile destinare al finanziamento degli investimenti produttivi o alla riduzione di un funding gap che è ancora pari al 12,8 per cento del portafoglio creditizio.
Il recupero di efficienza della giustizia civile gioca qui un ruolo importante. Se, ad esempio, la durata media nazionale dei procedimenti esecutivi immobiliari (1.218 giorni nel 2011) si equiparasse a quella del distretto giudiziario più efficiente del paese (620 giorni) – a parità di altre condizioni – la durata media dei procedimenti si dimezzerebbe e la media nazionale del rapporto sofferenze/impieghi scenderebbe dal 7,2 al 4,1 per cento. (4) Anche l’uso d’incentivi fiscali può essere di aiuto. Un più rapido riconoscimento fiscale delle perdite su crediti, oggi distribuito su un orizzonte di 18 anni, ad esempio, favorirebbe le svalutazioni sull’attivo deteriorato riducendone il peso sul portafoglio creditizio complessivo. Le banche, dal canto loro, non devono abbassare la guardia in tema di accantonamenti su crediti in tempi di crisi.
In conclusione, vi è necessità d’interventi che liberino i flussi di credito alle imprese dalla diversione operata dal settore pubblico e che contribuiscano a ridurre l’attivo improduttivo delle banche. Nel primo caso, l’ampliamento del debito commerciale delle amministrazioni pubbliche con le imprese fornitrici si è tradotto in una riduzione dell’afflusso netto di credito alle imprese. Nell’altro, prassi consolidate e vincoli normativi hanno frenato il turnover – lo smaltimento – dei crediti deteriorati. In entrambi i casi si è realizzata una diversione dei fondi intermediati dalla loro destinazione ideale – l’investimento produttivo – che ha contribuito ad accentuare l’avvitamento pro-ciclico del credito e dello sviluppo.
* Le opinioni espresse in questo articolo sono personali e non coinvolgono l’Istituto di appartenenza.
(1) A corto di idee e senza capitali”, Corriere della Sera, 3 aprile 2013,
(2) Rispettivamente, Imf, “Financial Sector Assessment Program, Fsap” Press release 13/94, ; Banca d’Italia, “Rapporto sulla Stabilità Finanziaria”, aprile 2013 .
(3) Rispettivamente Zoli E., “Italian Sovereign Spreads: Their Determinants and Pas-through to Bank Funding Cost and Lending Conditions”, IMF, WP n13/84 ; Albertazzi U. T. Ropele, G. Sene, and F. Signoretti, 2012 “The impact of the Sovereign Debt Crisis and the Activity of Italian Banks” Bank of Italy, Occasional Papers, n. 133,

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  1. Paolo

    Non passa giorno che la questione del credit crunch non venga discussa e deplorata sui media e nella rappresentazione comune le banche italiane svolgono il ruolo delle “dark ladies”. Ora io non sono un esperto di economia bancaria, ma mi domando, perché le banche dovrebbero volutamente far mancare il credito alle bisognose imprese italiane ? Forse perché egoisticamente scelgono altri impieghi più redditizi ? Ma se le banche depositano liquidità presso la BCE ne ricavano un interesse zero, se acquistano Bot ne ricavano un rendimento dello 0,733 % (Bot scadenza 13/05/2014 da Eurotlx) se acquistano CTZ lo fanno ad un tasso del 1,113 % (Il sole 24 Ore di oggi) se prestano soldi ad altre banche lo fanno con un tasso euribor a 6 mesi dello 0,3 %, tutti tassi inferiori alla pur bassa inflazione italiana. O non prestano perché non possono, essendo poco capitalizzate ? Ma le due maggiori banche italiane, Intesa ed Unicredit, per esempio, hanno un core tier 1 un po’ superiore all’11% mentre l’EBA richiede solo un 9 %. Sbaglia l’EBA o il core tier 1 è inaffidabile ? Non è che le sottocapitalizzate sono, in generale, le imprese italiane che fanno un eccessivo conto sul credito bancario ed in questo momento di crisi, più che per investire, per “tirare avanti” ?

  2. Tutto ad un tratto le banche italiane che erano le più solide, oggi sono le più brutte, questa politica dello sfascio si sta propagando a tutti i livelli, dobbiamo reagire, Letta deve puntare i piedi in Europa, deve fare cambiare la politica monetaria della Bce, altrimenti vi sarà la rottura dell’area euro.

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