Sotto il profilo della logica attuariale e dell’equità, il sistema retributivo non dovrebbe più esistere. Bisognerebbe disegnare regole previdenziali più omogenee e semplici, capaci di tutelare il patto generazionale alla base del sistema a ripartizione.
La riforma Dini è rimasta sulla carta
L’entrata in vigore del pensionamento anticipato con “quota 103” è solo l’ultimo degli innumerevoli interventi che, dal 1995 a oggi, hanno modificato le regole del nostro sistema previdenziale. Con la cosiddetta riforma Dini, la nostra previdenza avrebbe dovuto approdare compiutamente verso i sistemi contributivi Ndc (Notional Defined Contribution), fondati sul principio attuariale dell’equa correzione della ricchezza previdenziale in funzione del momento effettivo di pensionamento.
Immaginiamo un sistema economico in cui tutti i cittadini hanno un tasso di preferenza intertemporale per cui il consumo futuro vale quanto quello attuale. Se inflazione e tasso d’interesse sono costanti e pari a zero, una persona che lavora L anni e vive in pensione per L/2 anni, se versa il 50 per cento della propria retribuzione ogni anno di lavoro, avrà un tasso di sostituzione pari a uno e prenderà di pensione quanto prendeva di stipendio.
A partire da questo schema si possono fare poi le necessarie correzioni, variare i profili del reddito da lavoro, immaginare rendimenti espliciti dei contributi versati e dinamiche specifiche dei medesimi, legate a parametri macroeconomici o di finanza pubblica. Ma in questo mondo ideale non si potrebbero inserire provvedimenti discriminatori o di maggior favore per specifiche categorie: per esempio, nei prossimi tre anni i vari Caio e Sempronio potranno andare in pensione prima, senza correzione attuariale della ricchezza pensionistica accumulata e magari con la scusa di creare lavoro per i giovani.
Si dirà: nel regno della matematica i deboli e gli sfortunati non hanno udienza né clemenza. Falsissimo: nel regno ideale la strategia collettiva è “prendiamo dalla matematica quanto ci può dare e correggiamo con la solidarietà quello che non ci può dare”. Se sono stato costretto a lavorare in nero 15 anni, e la trasformazione matematica della mia ricchezza pensionistica non mi garantisce un vitalizio adeguato, qualcuno sarà chiamato a riconoscere una contribuzione figurativa compensativa. Un simile intervento assistenziale deve però essere esplicito e trasparente e si deve capire chi dà (la fiscalità generale, per esempio, ma non necessariamente) e chi, e perché, riceve.
Il ruolo di avanguardia della riforma Dini – che avrebbe dovuto affermare proprio questa logica – non è però andato molto al di là della carta, trovando difficoltà ad affermarsi nella realtà quotidiana. Ciò è dipeso anche dalla lentezza della transizione, una scelta suggerita dal tentativo di minimizzare il costo politico della riforma, creando zone d’ombra e sperequazioni (si pensi alla prolungata coesistenza dei regimi pensionistici retributivo, misto e contributivo).
Due anomalie
L’altra anomalia è il troppo lento sviluppo del secondo pilastro. Eppure, appare oggi più equo del primo, perché è meno esposto al rischio politico e può garantire un livello di trasparenza e informazione mai raggiunto dal sistema pubblico: dall’indicatore sintetico dei costi, che consente una comparazione tra tutte le forme pensionistiche, alla nuova area riservata obbligatoria – che fotografa in tempo reale lo stato della contribuzione e degli andamenti del valore quota; dal riepilogo annuale dei versamenti, delle prestazioni, del rendimento maturato e dell’ammontare finale della posizione, fino alla scelta della tipologia di rendita, con coefficienti di trasformazione stabili, chiari ed esplicitati fin dall’inizio.
L’altra malattia di cui soffre da sempre il sistema previdenziale italiano riguarda la mole infinita di interventi normativi (1997, 2004, 2005, 2007, 2008, 2010, 2011, 2019, 2021 e 2022, per citare solo i più importanti) che, in maniera strutturale o temporanea, hanno di volta in volta complicato un sistema semplice (quello matematico-contributivo). Una produzione normativa che rinnega la transizione avviata 27 anni fa, in nome di un’inguaribile nostalgia per il sistema retributivo che ha sempre ben pagato in termini di consenso. Dilagano capriccio e arbitrio. Un marziano colto e curioso non saprebbe raccapezzarsi nelle attuali “regole”. E i migliori economisti e matematici si affannano in complicati studi sugli effetti degli errori nelle regole, invece di prospettare un sistema omogeneo, semplice, trasparente, equo.
Evitare illusioni pericolose
Peraltro, un sistema semplice, trasparente, equo esiste ed è appunto quello contributivo (Ndc), che riconosce agli assicurati un interesse esplicito, uguale per tutti e strettamente correlato ai versamenti effettuati nel corso della storia contributiva. E garantisce una maggiore equità non solo matematica, ma anche sociale, rispetto al sistema retributivo. Quest’ultimo, infatti, è parametrato sulle ultime retribuzioni antecedenti il pensionamento e prevede un’anzianità contributiva massima riconosciuta non superiore a 40 anni. In questo modo, favorisce, da una parte, le carriere dinamiche sotto il profilo reddituale e, dall’altra, i pensionamenti meno ritardati. Inoltre, la sostenibilità finanziaria dello schema retributivo è ricercata anno per anno, intervenendo sull’aliquota contributiva o sulle prestazioni, nel caso in cui lo richiedessero il mutamento delle condizioni demografiche e di crescita economica del paese. Quindi, la vera regola che proporziona le prestazioni ai contributi sembra essere “incrociamo le dita”.
Al contrario, il sistema contributivo evita in radice questa “navigazione a vista”.
Più che sperimentazioni continue, che allontanano la nostra previdenza dai cardini dei sistemi contributivi, servirebbe quindi un intervento capace di razionalizzare le tante diverse gestioni previdenziali stratificate in quasi trent’anni di scelte politiche poco lungimiranti.
Conviviamo, invece, con una diversità di regole e di aliquote che non si concilia con il funzionamento contributivo e che ne mina, anzi, la sostenibilità a favore di alcune categorie a scapito di altre, mediante politiche pubbliche che coprono spesso interessi particolari, di settore, generando nicchie di privilegio che tendono a perpetuarsi nel tempo. L’illusione finanziaria, stigmatizzata da Amilcare Puviani già all’inizio del Novecento, è possibile quando non esiste un’adeguata trasparenza in materia finanziaria ed economica da parte dei governanti.
Come intervenire
È anche per questo che sulla previdenza – sul futuro delle persone – l’azione istituzionale deve mutare sensibilmente, per evitare illusioni e distorsioni. Partendo da queste basi, diventa allora possibile una riforma del sistema governata dai principi della contribuzione definita e della capitalizzazione (seppur virtuale), così da assicurare una flessibilità oggi continuamente rincorsa e difficilmente sostenibile senza una trasformazione rigorosamente attuariale, e quindi contributiva, della ricchezza previdenziale accumulata al momento dell’uscita. Occorre però riportare a coerenza tutte le eccezioni oggi presenti, favorendo una maggiore consapevolezza presso i cittadini sulla necessità di una pronta programmazione previdenziale, senza dover sperare in promesse pensionistiche maggiori di quelle spettanti, da parte della politica di turno, all’approssimarsi dell’età pensionabile. Parallelamente è necessario però garantire al massimo la continuità contributiva, eliminando i vincoli ancora esistenti in tema di contribuzione volontaria e cumulo. Così come va riformato il sistema di coefficienti di trasformazione, oggi poco leggibile, che disincentiva implicitamente la permanenza al lavoro nei periodi prossimi alla revisione biennale. Si dovrebbe operare assegnando a ciascuna coorte il proprio coefficiente aggiornato e calcolato sulla speranza di vita che a quella determinata classe viene imputata con tecnica attuariale. In tal modo, il lavoratore sarebbe davvero libero di decidere la permanenza al lavoro oltre l’età legale fissata, assicurando una migliore programmazione previdenziale.
Un sistema così ripensato contribuirebbe a quella certezza delle regole che si reputa necessaria e indispensabile per garantire il buon funzionamento del nostro sistema di previdenza pubblica e la tenuta del patto generazionale che ne è alla base e che, troppo spesso, viene invece violato.
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Savino
Manca un’operazione verità sulle pensioni antecedenti al 1995 e sul passaggio INPS dal cartaceo al digitale. Ci sono situazioni che creano disparità costituzionali tra cittadini a parità di requisiti. Inaccettabile è la non corrispondenza tra gli anni di contributi maturati e l’effettivo servizio. Ognuno deve avere il suo salvadanaio di contributi in cui versa e ritrova quanto versato a fine carriera. Non è più accettabile che si attinga dallo stesso calderone e alle spalle di chi è in età lavorativa, tenendo conto della situazione negativa dal punto di vista occupazionale e demografico.
amadeus
Visto che vi piace la matematica usatela almeno correttamente. L’esempio che utilizzate è sbagliato . Se un soggetto lavora L anni e versa il 50% dello stipendio sotto forma di contributi gli rimane solo il 50% dello stipendio per L anni, ma avrà il 100% per i restanti L/2 anni. L’esempio corretto (che poi è la regola del pollice che tutti dovrebbero sapere) è che 2 anni di stipendio finanziano un anno di pensione: ovvero basterà un contributo del 33.3% (per cui rimane il 66.6% dello stipendio iniziale) per L anni per avere il 33.3×2=66.6% di pensione.
mb
è un refuso ed ha perfettamente ragione, per stabilizzare il consumo L aliquota è un terzo
Mariano Bella
Ha perfettamente ragione!! Mi scuso e ringrazio per la segnalazione. Ho visto un terzo e ho scritto un mezzo, ma non si tratta di una regola del pollice bensì di una relazione precisa.
Si chiede di determinare l’aliquota contributiva a (nel contesto ultra-semplificato descritto nell’articolo) che eguaglia reddito netto nel periodo di Lavoro (L) e il vitalizio percepito in ciascuno dei periodi di quiescenza (zL, con z positivo).
Quindi LYa=zL(Y-aY) da cui si ricava facilmente a=z/(1+z) che con z uguale a 1/2 fa un terzo (e non un mezzo, mannagia!!).
Si riconosce che a è funzione crescente (a ritmo decrescente) di z, cioè del rapporto tra vita in pensione e vita di lavoro (durante la quale ogni periodo si versa il contributo). Il baby pensionato ha z uguale o anche superiore a 1 (non solo in Italia, ma anche per molti amici greci prima del 2008). Al crescere di z a tende a 1.
Questa semplicissima (seppure inverosimile) formuletta aiuta a capire che ogni volta che immaginiamo, magari spinti da nobilissimi motivi (o anche da motivi opportunistici di consenso), capricciosi coefficienti di trasformazione, tetti ai benefici legati al reddito o altre stranezze, qualcuno vince e qualcun altro perde. La cosa folle è che in Italia entrambi si lamenteranno (avete mai sentito qualcuno dire grazie?).
Mariano Bella
Fernando Di Nicola
Un esempio dell’incapacità della classe dirigente di accettare una logica attuariale e le sue conseguenze (fatti salvi gli interventi esplicitamente assistenziali) è l’incursione sulle pensioni (ad es il ridotto adeguamento all’inflazione) che ho qui trattato pochi giorni fa. Nell’ultimo intervento di una lunga serie le pensioni contributive e le miste sono state trattate allo stesso modo, come se il “regalo attuariale” fosse presente un po’ ovunque e nella stessa misura. Ma è anche peggio una discussione sulla flessibilità del pensionamento che rifiuta pervicacemente di ricomprendere l’aggancio alla logica contributiva (attuariale).
Firmin
Temo che gli entusiasti del metodo contributivo soffrano di miopia e non abbiano studiato fisica a scuola. Questo schema, infatti, è sostenibile (ovvero non comporta una esplosione delle risorse necessarie a garantire la corresponsione delle pensioni in essere) solo se il tasso di rendimento dei contributi accumulati è sufficientemente basso (all’incirca pari alla crescita nominale del Pil). Tuttavia sfido chiunque stesse lavorando negli anni 70 e 80 (con una inflazione a 2 cifre o quasi) ad accettare a quei tempi un rendimento nominale (non reale) del proprio risparmio previdenziale vicino al 2-3%, che avrebbe garantito la sostenibilità del sistema al momento del loro ritiro dal lavoro. In realtà, anche questo modesto tasso di interesse è insostenibile sul lunghissimo periodo, perchè la seconda legge della termodinamica ci insegna che l’universo viaggia inesorabilmnete verso uno stato in cui la temperatira sarà vicina allo zero assoluto e non sarà possibile nessuna attività economica (compreso il fervore lavorativo che regna notoriamente all’Inps e nei fondi pensione privati) semplicemente perchè nessun atomo potrà muoversi. Quindi, se ci si preoccupasse seriamente della sostenibilità del sistema previdenziale anche in questo lontano futuro (pare tra qualche miliardo di anni), il rendimento dei contributi dovrebbe essere nullo, e con esso l’ammontare garantito della pensione, a prescindere dai contributi accumulati e dalla vita residua.
Savino
La sostenibilita’ deve essere vista sotto l’aspetto dei conti pubblici e non dei rendimenti privati chi la pensa diversamente deve farsi un’assicurazione privata e non pretendere dall’Inps cio’ che una entita’ pubblica non puo’ dare perche’ deve tutelare l’ interesse di tutti i cittadini.
bob
parlando di “trasparenza” riporto:
“Ci sono centinaia di migliaia di persone “con età avanzata” che hanno versato 18-19 anni di contributi presso la cassa di previdenza integrativa ENASARCO (+ gli anni versati all’ INPS), e che oggi vivono con indignitose pensioni erogate dall’INPS, costretti a rivolgersi ai servizi sociali per avere dei supporti di sopravvivenza, pur avendo versato ingenti somme di denaro nelle casse della previdenza integrativa, senza avere la corresponsione in diritto”.
Questa tematica non e complessa come si vuol far credere; allungando i tempi per la risoluzione del caso, farà un danno alle casse dello Stato, se le istituzioni non interverranno immediatamente; perché questo problema verrà certamente riconosciuto nel diritto. Secondo i bilanci tecnici 2014-2017 della fondazione Enasarco, i soggetti silenti tra quelli in vita e gli eredi sono 692.000, che hanno versato nelle casse previdenziali ENASARCO circa 9,2 miliardi di euro, somme che lo Stato se ne farà carico in base all’arti. 28 della Costituzione. ”
Parliamo di persone che non avuto il “culo al caldo sicuro” come i pubblici ma di soggetti che non hanno mai avuto “il fine mese sicuro ” sia se piove o fa bel tempo, allora lo Stato dovrebbe fare un conteggio dei contributi che il soggetto “è riuscito a versare” trattenersi una percentuale per la previdenza sociale collettiva e il resto liquidarglielo con gli interessi maturati negli anni , come si fa in Paesi tipo l’ Inghilterra. Ma vi pare possibile che 10 miliardi di euro pari ad una finanziaria di Stato non si sa dove sono finiti, chi li gestisce, chi ne ha usufruito indebitamente ? Vi pare possibile?