Lavoce.info

Autore: Alessandro Balestrino

La risposta ai commenti

Ringraziamo i lettori per gli utili commenti, che ci consentono di precisare alcuni aspetti del nostro pensiero che per motivi di spazio erano rimasti fra i tasti.
Anche se abbiamo affrontato una questione specifica, relativa a una categoria di lavoratori, e anche se il nostro punto di vista dà particolare attenzione alle professioni intellettuali e liberali, c’è alla base un problema generale di grande importanza, civile ed economico: l’età del pensionamento. Pochi ormai hanno dubbi che tale età debba essere aumentata e resa più flessibile. Il rischio di “gerontocrazia” c’è solo se prendiamo l’accezione generico-populistica del termine. Se intendiamo il fatto (empirico e non ideologico) che la percentuale di “anziani” in servizio è molto alta, in sé questo non è né un bene né un male. L’esempio (solo un esempio, non un confronto sistematico) che abbiamo fatto menzionando Harvard intendeva sottolineare che una università di assoluta eccellenza non sembra aver timore di avere docenti anziani: una volta tanto potrebbe essere bello seguire un esempio di questo genere (non pensiamo valga la pena imitare università di basso livello, abbiano o non abbiano molti anziani nei loro ranghi). Se però si desidera riequilibrare l’età media dei professori, il rimedio efficiente ed equo è assumerne di nuovi, giovani e bravi, procedura che sia nei fatti che nella logica è del tutto indipendente da quella di eliminare i vecchi. Sembra invece che alcuni non abbiano il timore, che a noi sembra molto fondato, che si possa decidere di mandare in pensione gli ultrasessacinquenni e non assumere nessuno al loro posto. Il timore è forte, perché, come notano anche Brugiavini e Weber nella loro risposta ai commenti ricevuti, il costo dei professori pensionati continuerà ad essere sostenuto dai contribuenti: le pensioni sono pagate dall’Inpdap, gli stipendi dall’Università, ma si tratta sempre del bilancio dello Stato e le due somme, in virtù della natura retributiva del sistema pensionistico, sono più o meno dello stesso importo (come si sa, non esiste un pasto gratis). Né potrà essere d’aiuto la parte della proposta PD, cui si accenna nei commenti, dove si menziona la possibilità che ai pensionati forzati vengano conferiti (perché poi dal CdA?) contratti per la didattica; in questo modo, oltretutto, i soggetti in questione verrebbero pagati due volte, dall’Inpdap e dall’Università (come, assurdamente, avviene già in parte anche oggi), e ci sarebbero meno spazio e meno risorse per i giovani!
Infine, sembra anche poco noto all’opinione pubblica che il ricambio generazionale è comunque imminente nei fatti. Il CUN stima una fuoriuscita di circa 1500 docenti l’anno, con conseguente pensionamento, entro il 2018, del 50% degli ordinari e del 25% degli associati attuali. Il pensionamento a sessantacinque anni indurrebbe invece un deflusso di circa 3000 persone l’anno, aprendo una voragine non solo a livello scientifico-culturale ma anche sul piano didattico-organizzativo. Noi ci spereremmo tanto, ma qualcuno crede veramente che sia possibile assumere 3000 nuovi docenti l’anno per i prossimi anni? Se ce la facessimo ad averne almeno 1500, scelti con criteri seri, noi saremmo contenti.

Se il pensionamento è forzoso

Molto ci sarebbe da dire sull’’annunciata riforma dello stato giuridico dei docenti universitari, ma un aspetto che si segnala negativamente è la proposta, ben accetta da maggioranza e opposizione e sostenuta con grande favore da qualche autorevole editorialista, del pensionamento a 65 anni. A meno di non immaginare tentazioni populiste da parte dei suoi sostenitori, è difficile trovare una ratio. In un momento in cui si è capito che, come conseguenza dell’’allungamento delle vite umane, è necessario prolungare il tempo di lavoro, altrimenti i conti economici saltano, e anche il nostro governo si muove in tale (giusta) direzione, che senso può avere quello di andare controcorrente per una specifica categoria di lavoratori? A parte che la attuale struttura demografica del personale universitario indurrà a breve comunque una forte ondata di pensionamenti, perché l’’operazione di “svecchiamento” dovrebbe servire a far entrare in servizio giovani universitari e non giovani magistrati, giovani medici o giovani qualcos’’altro?

COMPORTAMENTI DA FREE RIDER

E’ noto che, considerando l’’economia nel suo insieme, non esiste conferma dell’’idea che l’’anticipo dei pensionamenti favorisca l’’occupazione (Fenge e Pestieau, Social security and early retirement, MIT Press, 2005). Il carico ulteriore sul sistema pensionistico può far aumentare le aliquote contributive e, dato il meccanismo a ripartizione, alzare il costo del lavoro e quindi indurre maggiore disoccupazione. Brugiavini e Weber, proprio su lavoce.info spiegano che l’’abbassamento della pensione danneggerebbe gli stessi giovani, anziani di domani che si vedrebbero ridurre la pensione perché verserebbero meno contributi. Certo, se un solo settore riduce l’’età della pensione mentre gli altri la aumentano, si comporta da free-rider perché trasferisce sul resto della popolazione i costi generati, e può nell’’immediato realizzare l’’obiettivo di assumere nuovi lavoratori al posto degli espulsi. È altrettanto certo, però, che tale comportamento è socialmente inefficiente, e, come negli esempi che facciamo agli studenti, può scatenare una sequenza imitativa per cui anche gli altri settori puntano alla riduzione dell’’età pensionabile, con conseguenze facilmente immaginabili: si sa che ciò che è razionale per un individuo o un gruppo (ammesso che possa esprimere una qualche volontà collettiva), non sempre lo è per la società nel suo complesso.

UNA QUESTIONE DI CIVILTÀ

Si è detto che il pensionamento anticipato libererebbe l’’università da persone improduttive. Senza negare che queste persone esistano, non si capisce perché l’’età debba essere un criterio per individuarle. Ad Harvard quasi il 10 per cento dei professori “in servizio attivo” ha più di settant’’anni; e di Harvard non si può certo dire che vi abbondino persone improduttive. La via maestra per limitare le difficoltà che abbiamo nell’’incentivare la produttività è quella di concepire un sistema di retribuzione e avanzamento di carriera che premi l’’impegno nella ricerca e nella didattica (binomio inscindibile). Su questo, le proposte di riforma di governo e opposizione tacciono (o sono quantomeno carenti e confuse).
La teoria economica non fornisce dunque appiglio alcuno per giustificare anticipi del pensionamento. (Si consideri anche che i professori anziani svolgono le loro attività di ricerca e di insegnamento a costo quasi zero per lo Stato, essendo il loro stipendio di poco superiore alla loro pensione.) Ma questa non è solo una questione economica, non è solo una questione di teoria. E’ una questione di civiltà, di organizzazione della vita associata, di rispetto e di valorizzazione delle persone, di promozione della cultura e del sapere. È del tutto insensato e, lasciatecelo dire, richiama un sinistro eugenismo, pensare che eliminare da un’’aula di insegnamento o da un laboratorio scientifico chi continui a dimostrare entusiasmo e capacità possa essere una cosa positiva, e non un impoverimento netto per un paese. Quando la durata media della vita era settant’’anni, i professori di università andavano in pensione a settantacinque; oggi che la durata media è ottantacinque anni, si vogliono mandare in pensione a sessantacinque. Oltre che palesemente assurda e incoerente, la proposta Gelmini-Meloni risulta anche incompatibile con una qualsiasi concezione di società veramente aperta, colta e liberale.

Nota degli autori: AB ha 48 anni (molto distante dall’’essere anziano), FR 61 anni (quasi anziano, ma non ancora).

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