Condivido le considerazioni di Maurizio Ambrosini sui click-day che si sono svolti questa settimana. Come sempre i numeri sono altissimi, ma ben poco hanno a che vedere con le reali condizioni del mercato del lavoro, poiché si tratta in gran parte di ricongiungimenti familiari. Speriamo si possa riformare al più presto lintero meccanismo dei flussi. Ancora una volta però il decreto flussi (deciso unilateralmente dal governo) non è collegato a una organica politica di accoglienza e integrazione sul territorio. Ciò è destinato a riaprire lannosa polemica sullaccesso degli immigrati ai servizi di welfare, soprattutto nelle regioni settentrionali.
Nelle fasi di crisi economica come lattuale è comprensibile che si formino nellopinione pubblica tendenze volte a limitare per gli immigrati laccesso ad alcuni servizi di welfare. Nel nostro paese hanno trovato unapplicazione politico-amministrativa sia a livello nazionale, sia soprattutto a livello locale.
Sono impostazioni coerenti con la normativa europea? E si può parlare di una loro sostanziale efficacia rispetto alle tendenze di lungo periodo che si manifestano allinterno del fenomeno migratorio?
LA STAGIONE DELLE ORDINANZE
Negli ultimi anni, e in particolare dall’estate 2008, dopo l’entrata in vigore della legge n. 125, 24 luglio 2008, che aveva convertito il decreto legge n. 92 del 23 maggio (il cosiddetto "pacchetto sicurezza") si sono succedute alcune centinaia di ordinanze di sindaci di comuni settentrionali, volte a contrastare le fasce più povere dell’immigrazione e successivamente, a ostacolare l’accesso ai servizi e a varie forme di sostegno economico per la maggioranza degli immigrati.
Marco Revelli, nel suo ultimo libro "Poveri, noi" (Einaudi 2010), ne ha ricordate alcune, accuratamente censite dall’Associazione nazionale dei comuni italiani: 788 ordinanze emanate tra l’estate 2008 e quella 2009, per 445 Ccomuni coinvolti, prevalentemente concentrati in Lombardia, Veneto e Friuli, ma con emuli anche in Emilia-Romagna e altrove.
Si va dall’ordinanza "anti-sbandati" del comune di Cittadella (Pd) al "bonus-bebé" riservato a famiglie italiane di Brescia, Latisana (Ud), Palazzago (Bg) e altri; dalla legge della Regione Lombardia sui "phone center" a quella della Regione Friuli sul dialetto nelle scuole; fino all’ordinanza del comune di Rovato (Bs) sulla tutela dei luoghi di culto e a partire dai decreti del presidente del Consiglio del maggio 2008 sulle impronte digitali per i bambini rom.
In generale, i mezzi di informazione hanno dato ampio risalto a questo tipo di provvedimenti all’atto della loro emanazione (o addirittura del loro annuncio politico), senza però seguirne l’iter o monitorarne i risultati. In realtà molti dei provvedimenti sono già stati abrogati dai Tar, dalla Corte di Cassazione o dalla Corte Costituzionale (ad esempio tutti quelli citati in precedenza).
Numerosi ricorsi sono stati presentati e vinti dagli avvocati dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e la maggioranza delle ordinanze sopravvive solo in assenza di ricorsi, nei numerosi piccoli comuni che le hanno emanate.
Casi di magistratura orientata politicamente? Non proprio.
UN DIBATTITO MONDIALE
Il dibattito sull’accesso degli immigrati al welfare è antico quanto l’immigrazione nel mondo e antesignana sul tema può essere considerata la "Proposition 187" dello stato della California che riguardava addirittura l’accesso a determinati servizi degli immigrati clandestini, soprattutto minori. Confermata da un ampio consenso popolare (60 per cento) nel referendum del novembre 1994, dopo innumerevoli ricorsi e contro-ricorsi fu definitivamente abbandonata nel 1999, man mano che i "latinos" messicani acquisivano il diritto di voto.
Naturalmente, anche in Europa, dalla Gran Bretagna alla Francia, fino alla Germania (dove l’estate scorsa il libro di Thilo Sarrazin "Deutschland schafft sich ab" – la Germania si distrugge da sé – è stato accolto da forti polemiche) il dibattito su questi temi è sempre stato particolarmente aspro e l’Italia vi giunge buon’ultima. Come sempre, il confine tra diritti e discriminazione non è così chiaro e le norme europee e nazionali non vanno confuse con il consenso politico che in maggioranza è ancora orientato verso la discriminazione; non a caso uno slogan come "prima gli italiani" può essere considerato come uno dei più popolari nella discussione politica nostrana degli ultimi anni. Si può rileggere su questo sito il dibattito tra Tito Boeri e Hans Werner Sinn in vista del primo allargamento a Est dell’Unione Europea.
Non a caso, ad esempio, la quota degli immigrati residenti nelle case popolari in Lombardia e Veneto non è diversa da quella registrata in Emilia-Romagna o in Toscana. Quel che si vuole sottolineare in questa sede è che i contenuti delle ordinanze comunali si sono scontrati con una evoluzione del fenomeno migratorio nel nostro paese che sembra testimoniare un avanzamento del processo di integrazione o quantomeno di stabilizzazione e che vanno nella direzione opposta a quella dei "lavoratori ospiti" che forse era auspicata dal legislatore della "Bossi-Fini" e del "pacchetto-sicurezza", tendente a incoraggiare la cosiddetta immigrazione circolare.
CITTADINI CON PARI DIRITTI (E DOVERI)
L’immigrazione nell’Italia del 2011 è profondamente diversa da quella di dieci anni prima: in particolare, sono cresciute due tipologie di immigrati tutelate dalla direttiva europea 109/2003, che garantisce loro una sostanziale parità di trattamento rispetto agli autoctoni: i cittadini comunitari e i titolari della carta di soggiorno (o meglio del permesso di soggiorno Ce di lungo periodo).
Il graduale allargamento dell’Unione Europea ha portato i cittadini comunitari residenti in Italia alla cifra ragguardevole di 1.241.368 (dati 2009). I possessori del permesso di soggiorno Ce di lungo periodo sono arrivati (sempre nel 2009) a 1.011.967. Il documento, che si ottiene normalmente dopo cinque anni di residenza in Italia, non necessita più del rinnovo annuale (o biennale) del permesso di soggiorno e può rappresentare una tappa intermedia verso l’eventuale richiesta di cittadinanza italiana dopo ulteriori cinque anni.
Nel 2010 entrambe queste tipologie di immigrati sono ulteriormente cresciute, ma già nel 2009 rappresentavano il 53,2 per cento dei 4.235.059 immigrati allora residenti in Italia. Oltre la metà degli immigrati quindi è già titolare di uno status giuridico forte, che non può essere discriminato nell’accesso ai servizi di welfare, secondo la direttiva europea 109/2003.
Tanto per dare un’idea, gli alloggi popolari in Italia oggi sono poco più di seicentomila.
Si può obiettare che il significato delle ordinanze dei sindaci è da ricercare piuttosto nel facile consenso politico: è vero altresì che il consenso basato sulle mistificazioni, poggia in realtà su basi piuttosto fragili.
La verità è che l’esperienza degli altri paesi ha già dimostrato come sia impraticabile la strada di sbarrare l’accesso ai servizi, dopo che si è fatto entrare un numero rilevante di immigrati. Per il futuro quindi, l’Italia dovrebbe riflettere maggiormente sulle raccomandazioni europee che si muovono in tutt’altra direzione: permettere l’ingresso a un numero di lavoratori stranieri più modesto del passato, ma assicurare a questi piena parità di diritti e doveri rispetto agli autoctoni.
* Regione Emilia-Romagna. Rappresentante delle Regioni nel Comitato tecnico nazionale sull’immigrazione.