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Autore: Daniela Del Boca Pagina 6 di 10

del boca

Ph.D. Università di Wisconsin-Madison, è Professore di Economia Politica all’Università di Torino e Fellow del Collegio Carlo Alberto. È anche Research Fellow dell’Institute di Human Development(IHDSC) della New York University, del network HCEO dell Università di Chicago e dell’ IZA (Bonn). È stata membro del Consiglio Generale della Compagnia San Paolo (2012-2020) e del Comitato Scientifico della Confindustria. I suoi interessi di ricerca riguardano l’economia della famiglia e del lavoro, le differenze di genere e degli investimenti nella prima infanzia. È Associate Editor del Journal oh Human Capital e Review of Economics of the Household. Dal 2000 è Direttore del Centro CHILD e di IEU (Unit of Evaluation) del Collegio Carlo Alberto. Nel 2007 è stata insignita dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dell’Ordine del Merito della Repubblica Italiana e nel 2021 ha vinto il Premio Tarantelli.

SE NON ORA, QUANDO?

In Italia le donne sono la maggioranza e la parte più istruita della popolazione, ma solo il 47 per cento ha oggi un lavoro. Sono sistematicamente discriminate anche sul piano dei guadagni. Ridotta al minimo la presenza femminile nei consigli di amministrazione. Il problema ha radici lontane, ma negli ultimi dieci anni la situazione è peggiorata rispetto a paesi simili a noi. Mentre i media hanno contribuito a diffondere una cultura che le umilia. Ecco perché le donne chiedono un cambiamento, adesso.

SERVE DAVVERO UN MINISTERO DELLA GIOVENTÙ?

Il discorso del Presidente Napolitano e i dati recenti sul tasso di disoccupazione giovanile confermano ulteriormente, se ve ne fosse bisogno, che la condizione delle nuove generazioni italiane è diventata insostenibile. Era drammatica prima della crisi ed è ora ancor più peggiorata. Quasi nessun paese in Europa presenta tassi di occupazione dei giovani laureati under 30 più bassi dei nostri. Si potrà dar la colpa alle vecchie generazioni e alle loro scelte sbagliate, ma un’ulteriore riflessione va fatta. Gli ultimi due governi, Prodi e Berlusconi, hanno previsto un apposito ministero per le Politiche giovanili, guidato da persone anagraficamente molto prossime alle nuove generazioni. Ci si poteva aspettare scelte coraggiose, forti, di discontinuità rispetto al passato. L’inizio di una stagione nuova, in grado di smantellare strutturalmente gli squilibri generazionali del nostro paese.
Ed invece nulla di nuovo sotto il sole. Tanta buona volontà sorretta da interventi occasionali e di impatto limitato. Poca cosa di fronte al drammatico degrado delle opportunità dei giovani, che si esplicita non solo negli alti tassi di disoccupazione, nella crescita di giovani immobili e sempre più dipendenti dai genitori, ma anche nel crescente abbandono del nostro paese. Non solo cervelli in fuga ma giovani in cerca di un ambiente più favorevole e equo.
In questa situazione, va riconosciuto che un dicastero per le politiche giovanili serve davvero a poco e può anzi essere controproducente. Non solo ha poche risorse ma rinforza anche il malinteso che i giovani siano una riserva indiana da tutelare. Mentre invece le riforme che servono alle nuove generazioni sono esattamente le stesse necessarie per lo sviluppo del paese, che lo rendono più dinamico e competitivo. Meglio allora abolire tale ministero, mentre molto più utile sarebbe istituire una sorta di “autorità garante” indipendente, che possa valutare e dare pareri vincolanti sull’impatto che le scelte pubbliche hanno sulle nuove generazioni.

Una tradizionale famiglia italiana

Per ora è solo un documento di intenti, ma “Verso un piano nazionale per la famiglia” indica gli strumenti per fornire un sostegno a chi ha figli o ha famigliari non del tutto autosufficienti: riforma del fisco, espansione dei servizi, costruzione di reti di solidarietà locali. Senza però far cenno a risorse o priorità. E in una visione tutta ideologica della famiglia, riconosciuta come tale solo quando è eterosessuale e basata sul matrimonio, mentre rimane indifferente di fronte ai cambiamenti e alla pluralizzazione dei modi di fare famiglia.

 

La maternità all’europea responsabilizza i padri

Il Parlamento europeo ha approvato una proposta sui congedi di maternità. Tre gli obiettivi: portare a 20 settimane il congedo pienamente retribuito; proteggere le donne dal licenziamento e garantire anche ai padri almeno due settimane di congedo. L’Italia riconosce già i primi due punti, con scarsi effetti sulle scelte di lavoro e fecondità. Perché contano di più un adeguato sistema di servizi e agevolazioni fiscali alle famiglie con figli. Il congedo obbligatorio per i padri invece può rappresentare un segnale per smuovere una cultura di disuguaglianza nella distribuzione delle responsabilità familiari e sul posto di lavoro.

 

I giovani, un esercito immobile

I dati Istat confermano il quadro a tinte fosche della condizione dei giovani nel nostro paese e la loro dipendenza dalla famiglia di origine. Mentre un rapporto Eurostat mostra che non solo sono una risorsa scarsa, ma anche più sprecata e meno valorizzata che altrove. Sono oltre due milioni gli under 30 che non studiano e non lavorano: sospesi in quel tempo morto che separa episodi di lavoro precario da brevi corsi di formazione, appaiono come un esercito immobile. La conseguenza è un’economia che non cresce e una società che non si rinnova.

Non tutti i bambini vanno in Costa Smeralda

In un fase difficile per le famiglie italiane come questa di alta disoccupazione e grave ristagno economico, tra gli obiettivi più importanti c’’è quello di aumentare il lavoro retribuito delle donne, tra i più bassi d’’Europa e senza il quale oggi le famiglie non riescono a far quadrare il bilancio. Abbiamo già commentato come i tagli dell’’organico della scuola abbiano avuto  un impatto negativo sull’’occupazione femminile sia direttamente che indirettamente e sulla crescente difficoltà di rientro al lavoro per le mamme. Il secondo obiettivo cruciale è investire nell’’istruzione a tutti i livelli, ma soprattutto nelle prime fasi del ciclo di vita dei bambini, periodo essenziale per gli esiti cognitivi futuri. I recenti rapporti internazionali e i dati Pisa mostrano che i bambini italiani vanno meno bene a scuola che in altri paesi avanzati (siamo al quartultimo posto per i risultati nei test di scienze e matematica PISA 2006, e al sestultimo per quelli di lettura) e che la spesa in istruzione pubblica è del 15-20 per cento più bassa rispetto alla media dei paesi Ocse. La proposta di riorganizzare la calendarizzazione scolastica che ritarda ulteriormente il tempo di scuola rispetto ad altri paesi Europei (per esempio sia in Francia che in Inghilterra l’’anno scolastico inizia nei primi due giorni di settembre e finisce a luglio) mette in maggiori difficoltà le famiglie. Quanto meno vogliamo spendere per l’’istruzione dei nostri figli? Chi beneficerà dell’’incremento del tempo per gioire delle vacanze estive? Andiamo forse nella direzione di  un progetto di home schooling in cui le mamme staranno a casa ad insegnare ai loro figli? Si tratterebbe di un quadro molto coerente con il progetto di ottocentizzazione del paese che esce dalle pagine del documento congiunto del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali e del ministero per le Pari opportunità intitolato “Italia 2020”.

PERCHÉ L’ITALIA HA BISOGNO DI WOMENOMICS

Tradizionalmente l’auspicio di una maggiore integrazione delle donne nel mondo del lavoro si fonda su principi di equità. Ora alcuni saggi sostengono che la valorizzazione delle donne risponde anche a criteri di efficienza economica. Un approccio particolarmente interessante per l’Italia, dove la partecipazione femminile è assai scarsa, le donne difficilmente arrivano ai vertici di aziende e istituzioni e anche la fertilità è bassa. Politiche e interventi che sostengano le scelte di lavoro e di famiglia possono far bene anche al nostro Pil.

RISPOSTA AD ANDREA ICHINO: UN’ITALIA PIÙ POVERA SENZA ASILI NIDO

Nel suo intervento Andrea Ichino, in commento ad un nostro recente articolo, mette in dubbio l’utilità degli asili nido. Cogliamo l’occasione per chiarire meglio la nostra posizione a favore dei servizi per l’infanzia come importante strumento di conciliazione nella fase delicata in cui è più difficile lavorare e occuparsi dei piccoli (secondo i dati Istat, oltre una donna occupata su cinque lascia il lavoro dopo la nascita di un figlio (1)).

AI:“Le donne bolognesi in età lavorativa guadagnano dal 25 al 76 per cento in meno dei loro concittadini maschi (…). Questo risultato dovrebbe far riflettere chi ritiene che la fornitura pubblica di servizi sociali alle famiglie, in particolare di asili nido, sia la panacea che può consentire alle donne di avere le stesse opportunità lavorative degli uomini, soprattutto le stesse retribuzioni e le stesse possibilità di carriera”.

DB e AR: Concordiamo. Non abbiamo certo scritto che, di per sé, l’offerta di nidi sia in grado di realizzare l’uguaglianza delle opportunità di lavoro e di salario tra uomini e donne.  Nessuno, a quanto ci risulta, ha mai azzardato un’ipotesi di questo tipo. Abbiamo semplicemente sottolineato come gli asili nido possano spesso rivelarsi un concreto aiuto per le donne con figli piccoli che desiderano continuare a lavorare. Molte famiglie non hanno nonni e altri parenti vicini e non hanno un reddito sufficiente per il ricorso sistematico ad una baby sitter.

AI:“È possibile che asili e servizi alle famiglie siano un fattore importante per facilitare una maggiore partecipazione delle donne al lavoro e una maggiore fecondità, anche se chi sostiene questa idea dovrebbe spiegare come mai la fecondità e l’offerta femminile di lavoro siano più alte in paesi dove questi servizi sono praticamente assenti”.

DB e AR: Se il riferimento è al caso particolare degli Stati Uniti, va precisato che in tale contesto il mercato del lavoro è meno discriminatorio verso le donne, offre più opportunità occupazionali in genere e più part-time, ma ci sono poi anche servizi per l’infanzia non pubblici di vario costo e tipo (nidi familiari, nidi sul posto di lavoro, ecc.). Se però guardiamo ai casi a noi più vicini (quelli europei) si nota come i paesi con più alta fecondità (Francia e i paesi scandinavi) siano anche quelli dove rilevante è l’investimento in strumenti di supporto pubblico (non solo privato) alle famiglie con figli.
Ma al di là di casi specifici, quello che in generale si è osserva è che i paesi che più e meglio hanno investito in misure di conciliazione presentano, tendenzialmente, anche più elevati livelli sia di fecondità che di partecipazione femminile al mercato del lavoro (ci sono molte analisi in proposito, si veda per una rassegna il rapporto Ocse di D’Addio  e Mira d’Ercole (2). Ma questo risulta sempre più vero anche all’interno del territorio italiano, tanto che la fecondità è aumentata di più, anche la netto dell’immigrazione, dove maggiori sono sia l’occupazione femminile che le varie possibilità di conciliazione.
Tra gli strumenti di conciliazione particolare importanza hanno i servizi di cura per l’infanzia, tanto che nella Strategia di Lisbona dell’Unione Europea non viene fissato solo il livello di occupazione femminile da raggiungere (60%), ma anche quello di un’adeguata copertura di asili nido (33% su bambini in età 0-3). Lo stesso governatore di Bankitalia ha affermato che “le stime disponibili mostrano come l’incremento della disponibilità di posti negli asili nido avrebbe un effetto positivo sia sulla decisione delle donne di lavorare, sia sulla loro scelta di avere figli”. Sull’importanza di un ruolo del pubblico e sulle carenze italiane segnaliamo, inoltre, un recente contributo di Chiara Saraceno.

AI: “la vera origine del problema sta nel modo in cui i compiti familiari sono allocati tra donne e uomini all’interno delle famiglie”.

DB e AR: E’ vero che la scelta di un figlio produce conseguenze che ricadono soprattutto sulla madre. Come abbiamo scritto nel nostro libro, è importante invece che lo stato (con offerta di strumenti di cura), le aziende (con possibilità di ricorrere a part-time e consentendo orari più flessibili), i padri (contribuendo di più ai compiti familiari e di cura) facciano ciascuno la loro parte.

AI: “Per quale motivo, infatti, chi non ha figli dovrebbe finanziare chi ha liberamente scelto di averne?”

DB e AR: Curiosa questa obiezione, visto che l’Italia è attualmente uno dei paesi che penalizzano di più chi ha scelto di avere figli. Questo vale sia sul piano fiscale che su quello dei servizi. In particolare, la quota di spesa sociale che va per la voce “famiglia” è, come ben noto, una delle più basse (spendiamo meno della metà rispetto alla media europea).
Ma forse spendiamo anche troppo per chi, come Ichino, pensa che il figlio sia un bene privato e che i costi debbano ricadere su chi ha fatto tale scelta. Si potrebbe obiettare in vari modi (il discorso ha inoltre valenza più generale visto che investe tutto il ruolo pubblico e il preteso diritto di ciascuno di scegliere cosa contribuire a finanziare e cosa no). Ci limitiamo ad osservare che questa argomentazione non tiene conto del fatto che le misure di conciliazione consentono alle donne con figli di poter partecipare in modo più continuativo al mercato del lavoro e quindi ad avere non solo maggior benessere familiare ma anche  contribuire alla crescita economica del paese e alla sostenibilità del sistema di welfare. Penalizzare chi desidera avere figli non aiutandolo con strumenti adeguati a partecipare al mercato del lavoro ci sembra non solo iniquo ma anche socialmente controproducente. Rischia inoltre di aumentare la povertà delle coppie con figli che rimarrebbero monoreddito. Perché dovremmo assisterle con un voucher quando potrebbero difendersi dalla povertà con un proprio lavoro? Meglio incentivare comportamenti responsabili che l’assistenzialismo.

AI: “Ammesso e non concesso che gli asili nido pubblici favoriscano la fecondità (che come detto sopra è maggiore della nostra anche in paesi in cui lo stato non offre questi servizi), siamo proprio sicuri che in Italia sia una buona idea incrementare la popolazione, già crescente per via dell’immigrazione?”

DB e AR: Sul fatto che gli asili nido possano favorire la fecondità abbiamo già detto. Aggiungiamo a tal proposito anche evidenze empiriche che provengono da un’analisi recente sul caso spagnolo (molto più simile all’Italia rispetto agli Stati Uniti): dove si ottiene “a significant and positive effect of regional day care availability on both first and higher order births” (3).
Gli asili nido sono uno strumento utile per le donne che lavorano a non rinunciare ad avere un figlio se lo desiderano in assenza di nonni a disposizione per poter accudire i bambini quando sono al lavoro. Meno strumenti di conciliazione le coppie hanno a disposizione, più facilmente si fermeranno al figlio unico se non vogliono rinunciare al lavoro. Oppure possono essere incentivate a rinunciare ad opportunità di carriera per rimanere a vivere vicino ai nonni e non perdere il loro aiuto.
Ma c’è di più. Secondo Andrea Ichino non pare importante ciò che a noi sembra cruciale cioè mettere tutti nelle condizioni di scelta di avere figli (anche a chi non ha redditi elevati e chi non ha nonni vicini), visto che la popolazione cresce già abbastanza con il contributo degli immigrati.
Questa argomentazione ignora che la conseguenza maggiore della persistente denatalità italiana non è tanto il declino o meno della popolazione quanto gli squilibri che si creano nella sua struttura.
L’accentuato invecchiamento della popolazione italiana richiederebbe un riequilibrio attraverso una minore denatalità e una maggiore occupazione femminile. L’intenso invecchiamento della popolazione è proprio uno dei fenomeni che gli altri paesi meno ci invidiano. Anzi, sono particolarmente interessati a vedere come ce la caveremo nei prossimi decenni per capire quali errori evitare.
Come anche le ultime previsioni Istat confermano, l’apporto dell’immigrazione su questo aspetto è rilevante ma limitato. Sulla nota informativa di presentazione, si legge: “L’aspetto in assoluto più certo di tutte le previsioni è il progressivo e inarrestabile incremento della popolazione anziana (…), tanto in termini assoluti quanto relativi” (4).

AI:“Numerosi studi recenti, tra cui quelli del premio Nobel Jim Heckman mostrano l’enorme importanza dei primi anni di vita del bambino per la sua performance futura, ma siamo ancora ben lontani dal poter affermare con cognizione di causa se sia meglio la famiglia o il nido per un neonato”

DB e AR: Questo è un tema che consideriamo molto importante e su cui stiamo lavorando. Soprattutto in un paese di figli unici e di genitori iperprotettivi, l’asilo con opportuni standard di qualità, può essere un utile strumento per una socializzazione più equilibrata dei figli. Un asilo inteso solo come parcheggio per il figlio è deleterio. Il bene del bambino lo si ottiene non solo se tale strumento aiuta la famiglia a proteggere il proprio benessere grazie alla possibilità della madre di non rinunciare al lavoro, ma anche, soprattutto, se fornisce benefici in termini di formazione e crescita. Per questo, come spesso sottolineiamo, è cruciale investire nella qualità dell’offerta, non solo sulla copertura.
Un’ultima precisazione. L’offerta di servizi per l’infanzia e’ strumento per ampliare le scelte delle famiglie, uno strumento disponibile assieme ad altri, che la coppia decide o meno di scegliere. Il problema è che attualmente in Italia, più di altri paesi, tale scelta è spesso negata per la carenza di un’offerta adeguata.
Come mostrano, poi, alcuni studi della Banca d’Italia, nelle regioni dove più ci sono asili nido più lunga è anche la lista di attesa, il che suggerisce che l’offerta di nidi di adeguata qualità può contribuire ad attenuare alcune resistenze culturali verso la delega della cura dei figli piccoli

(1) Linda Laura Sabbadini (2004, a cura di), Come cambia la vita delle donne, Demetra, Atti e interventi n. 6, Roma.
(2) Anna Cristina D’Addio e Marco Mira d’Ercole (2005), "Trends and Determinants of Fertility Rates in Oecd Countries: The Role of Policies", Oecd Social, Employment and Migration Working Papers.
(3) Pau Baizan (2009),  “Regional child care availability and fertility decisions in Spain”, Demographic Research, 21(27).
(4) Istat,Previsioni demografiche. 1° gennaio 2007-1° gennaio 2051. Nota informativa (19 giugno 2008).

FIGLI E LAVORO: DUE REGIONI, DUE STORIE DIVERSE

La natalità in Italia continua a essere bassa. Ma anche in un anno così generalmente depresso come il 2009, c’è chi ha resistito meglio e chi ha ceduto di più. La fecondità cresce in Emilia Romagna e scende ancora in Campania. Ovvero cala nella regione nella quale l’occupazione femminile è più bassa e sale nell’unica regione italiana che in proposito ha già superato gli obiettivi di Lisbona. Un risultato paradossale a prima vista, che si spiega con la ben diversa quantità e qualità dei servizi di conciliazione tra lavoro e famiglia.

ANCORA RITARDI PER IL SOSTEGNO ALLE FAMIGLIE

Tra i pochi interventi varati negli ultimi anni a sostegno delle famiglie che lavorano e hanno figli piccoli, figura la legge 53/2000. Prevede contributi a fondo perduto alle imprese che presentano progetti per facilitare la conciliazione lavoro-famiglia dei dipendenti. A pochi anni dalla sua entrata in vigore però si è già arenata tra ritardi e sospensioni. Si preclude così l’opportunità di costruire una convergenza di interessi tra le aziende e i lavoratori, tra interessi sociali ed economici. Adattare la misura alle piccole e medie imprese.

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