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Autore: Eleonora Patacchini

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringraziamo tutti per gli interessanti commenti. Non siamo in disaccordo con Ambrosini, almeno non completamente. L’esperienza degli Stati Uniti continua a indicare esempi di comunità che si possono definire "ben integrate", quantomeno nel senso che non manifestano comportamenti ostili verso la cultura dominante e che raggiungono un certo successo economico, ma con fortissima identita’ religiosa.
Recentemente ad esempio si parla molto di vari gruppi di ebrei ortodossi a Brooklyn, specie gruppi provenienti dalla Siria. Due di noi hanno lavorato molto proprio su dati e teorie riguardanti
l’integrazione religiosa negli Stati Uniti. Resta a nostro parere più che ragionevole supporre che  l’esplicita dichiarazione di immaginarsi "estremamente contrariato se un parente stretto dovesse sposarsi con una persona di razza bianca" (specie se correlata a varie altre risposte alla survey di questo tenore) sia correlata a sentimenti e comportamenti che e’ comune definire "non-integrati".

Il bello delle analisi empiriche e’ che non ci si può nascondere dietro definizioni sofistiche: quello che misuriamo e’ chiaro, la correlazione statistica tra  dichiarare che la religione e’ estremamente importante nella propria vita, che ci si sentirebbe estremamente contrariati se un parente stretto dovesse sposarsi con una persona di razza bianca, etc, con vari fattori economici e demografici.

L’interpretatazione in termini di integrazione e’ quello che è, una interpretazione dei dati. La possibilità che l’integrazione culturale in Europa avvenga per segmenti religiosi (come il "triplo melting pot" negli Stati Uniti) e’ esattamente questo, una possibilita’, a cui noi non sappiamo dare misurazione statistica.

Che la religione si associ statisticamente a comportamenti "virtuosi" non abbiamo dubbi. Abbiamo seri dubbi che ciò avvenga, però, in situazioni socio-economiche in cui la religione assume una funzione di identità  "contro" la cultura dominante, scenario che si accorda con l’evidenza sulla
situazione degli immigrati musulmani in Inghilterra cui i nostri dati si riferiscono.

 Le enormi limitazioni di questo tipo di dati sono note a noi e alla comunità di economisti e sociologi che se ne occupano: ad esempio, il rispondente potrebbe essere indotto a rispondere in modo da far piacere all’intervistatore, magari, inconsciamente, oppure anche l’opposto; inoltre, come la domanda è posta, quali sono le possibili risposte permesse – ovvio ad esempio che è difficile dichiarare di essere di razza mista se tale risposta non è prevista -, ha effetti noti e statisticamente significativi sulle risposte; e così via. Ma questo e’ quello che abbiamo e a questo cerchiamo di dare un senso statistico ed economico. Spesso, la critica delle metodologie e
dei dati tout court si associa purtroppo ad atteggiamenti concettuali di cattiva  disposizione ad accettare evidenza empirica che contrasta con i propri (pre)giudizi.

Infine gli altri commenti, molto interessanti, esprimono giudizi individuali sulla questione dell’integrazione, giudizi connessi ma non direttamente rivolti alla nostra analisi.

Vorremmo concludere con un commento metodologico generale, che si riferisce a tutti i commenti. Studiare l’integrazione culturale è operazione complessa perche’ richiede una definizione di cosa sia
"integrazione". Spesso, nel linguaggio comune, la parola "integrazione" ha connotati normativi oltre che positive: si ritiene che "integrarsi" e’ quello che gli immigrati dovrebbero fare (un tempo
si usava la parola "assimilazione", che non si usa piu’ nella letteratura economica proprio perche’ ha assunto un eccessivo contenuto normativo). In analisi empiriche come la nostra, integrazione è definita precisamente, da un punto di vista statistico. Non ci interessa se questo e’ quello che gli immigrati debbano o non debbano  fare o se esistano forme di integrazione diversa che non comportino integrazione nel senso da noi definito statisticamente. Come dicevamo sopra: questo misuriamo. Altre misure sono benvenute. (Ma, con sano positivismo,  che siano misure!) Ed e’
importante farlo: ad esempio, questa analisi ci ha convinto che integrazione geografica (definita anche questa in modo statisticamente preciso) non è associata a integrazione culturale (come da noi
definita). Questo e’ secondo noi importante perche’ l’associazione tra integrazione geografica e culturale è alla base essenzialmente di tutte le politiche di integrazione nell’Unione Europea.

I MUSULMANI E L’INTEGRAZIONE

Un’indagine ha raccolto dati su attitudini religiose, caratteristiche socioeconomiche e luogo di residenza delle minoranze etniche nel Regno Unito negli anni Novanta. Anche se occorre molta cautela, appare evidente una spiccata specificità dei musulmani nel processo di integrazione. Che non si accorda con i principi alla base della maggior parte delle politiche di immigrazione in Europa, focalizzate sull’innalzamento del livello di istruzione e soprattutto sull’integrazione geografica.

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