Il maestro unico sarà facoltativo. Questa è la decisione che è stata annunciate nei giorni scorsi dal ministro Gelmini. Le famiglie potranno scegliere tra un impegno scolastico di 24 ore (il maestro unico), 27 ore oppure 40 ore (il tempo pieno con due maestri). Il ministro Gelmini, con questa decisione, ha fatto un passo indietro ed un passo avanti. Ha fatto un passo indietro rispetto alle dichiarazioni dell’autunno in cui si faceva passare il maestro unico come una riforma fondamentale per la scuola primaria italiana. In realtà si trattava solo di tagliare sul numero di maestri. Grembiule, maestro unico e "libro unico" erano solo un tentativo di camuffare come progetto educativo quella che era solo un’esigenza di bilancio.
Bene ha fatto il ministro a recedere da un provvedimento puramente ideologico, ma non era in linea con le esigenze di gran parte delle famiglie italiane. Ma sarebbe sbagliato parlare solo di un passo indietro. Garantendo la possibilità di scegliere tra 24, 27 e 40 settimanali, il Ministro ha garantito alle famiglie l’opportunità di adattare l’impegno scolastico dei figli con le proprie esigenze. E’ molto probabile che nelle città la richiesta del tempo pieno sia massiccia, mentre nei centri più piccoli le 24 ore potrebbero avere una maggiore domanda. Tutto bene, dunque? In realtà ci resta una perplessità. La flessibilità, se sarà veramente garantita a tutte le famiglie, rischia di entrare in conflitto con l’obiettivo, ribadito da Ministro, di attuare il piano di tagli all’organico degli insegnanti della scuola primaria, a meno di non procedere ad una forte riduzione dei plessi scolastici e all’aumento del numero medio di studenti per classe. Aspettiamo di conoscere meglio i piani del Ministro Gelmini per capire come concilierà maggiore possibilità di scelta e riduzione dei costi. Come dicono gli inglesi, il diavolo è nei dettagli.
Autore: Fausto Panunzi Pagina 14 di 15
Ha conseguito il PhD presso il Massachusetts Institute of Technology. Attualmente insegna Economia Politica presso l'Università Bocconi. In precedenza ha insegnato presso l'Università di Bologna, l'Università di Pavia, Lecturer all´University College London, Research Fellow presso IDEI (Toulouse ) e IGIER. Le sue aree di interesse scientifico sono la teoria dell'impresa, finanza d'impresa e teoria dei contratti. Redattore de lavoce.info.
Il 20 novembre i militanti del PS francese, o più esattamente coloro che hanno una tessera del partito socialista, saranno chiamati a votare per eleggere il loro segretario nazionale. La lotta tra Ségolène Royal e Martine Aubry si annuncia serrata, senza dimenticare il terzo incomodo Benoit Hamon. Dato che si tratta di un ruolo politico-organizzativo (non necessariamente il segretario del PS sarà il candidato alle prossime presidenziali) non si raggiungeranno certo i livelli di mobilitazione ottenuti due anni fa per scegliere il candidato da opporre a Sarkozy. E sarà improponibile il paragone con le moltitudini che hanno partecipato alle primarie del Partito Democratico negli USA per scegliere tra Hillary Clinton e Barack Obama. Ad esempio, nellOhio hanno votato in 2.224.907. Alle elezioni del 2004 i voti per il Partito Democratico nello stesso stato erano stati 2.741.265. Ciò significa che a quelle primarie ha partecipato più dell80 per cento dellelettorato di riferimento.
E in Italia? Immaginare che nel Pdl si possa votare per qualcosa di più rilevante dellinno o del colore delle scenografie che fanno da sfondo ai comizi dei loro leader sembra al momento utopistico. Ma le cose non vanno meglio neanche nel PD. Si possono infatti chiamare primarie le elezioni per il coordinatore cittadino del Partito Democratico a Milano che si sono svolte la scorsa settimana? Ad esse potevano votare solo i componenti dei Coordinamenti e i tesorieri di circolo più i consiglieri di zona, comunali, provinciali e regionali, i sindaci ed i parlamentari nazionali ed europei in possesso dellattestato di Socio Fondatore del PD.
Più che elezioni sembrano riunioni per pochi eletti scelti a priori. E i numeri parlano da soli. Hanno votato in 569 mentre alle ultime elezioni politiche il PD a Milano aveva ricevuto 620.460 voti. Quindi meno dello 0,1 per cento degli elettori del PD milanese è stato consultato. E il restante 99,9 per cento? Torniamo dunque alla domanda: sono primarie, secondarie o, meglio ancora, millesimarie?
Si dirà: tanto nessuno sarebbe andato a votare per il segretario di Milano. Forse. Ma è anche vero che con regole di questo tipo non ci sarà mai un outsider disposto a dare il proprio contributo di idee nuove in una vera competizione che può destare maggiore interesse, mobilitando la base elettorale dei partiti. Se vogliono veramente ridurre la frattura tra classe politica e cittadini, se vogliono veramente far sparire la parola casta dal vocabolario della politica italiana, le forze politiche , tutte, dovranno passare per un maggior ricorso allo strumento delle primarie, quelle vere.
Va bene tagliare, fino a che i tagli riguardano le tasche degli altri. E’ la regola aurea del dibattito pubblico italiano. Stupisce che sia applicata anche dalla Chiesa italiana nel caso della scuola. Perché se il problema dei risparmi esiste, e per risolverlo servono proposte concrete, una delle opzioni potrebbe essere la riduzione di spesa ottenibile dall’abolizione dell’obbligo dell’insegnamento della religione cattolica negli istituti statali. Anche perché sono diverse le peculiarità che contraddistinguono gli insegnanti di religione in Italia.
Le banche italiane non solo non sono immuni dalla crisi, ma soffrono la crisi più delle altre. Dal fallimento di Lehman Bros il titolo Unicredit ha perso circa il 60 % del proprio valore, Intesa SanPaolo circa il 45%, più delle banche quotate al Dow Jones, nellepicentro della crisi. Sapremo presto in che misura su questo andamento contano i ritardi con cui da noi si sta procedendo alla ricapitalizzazione delle banche in Italia. Lo capiremo anche dal modo con cui il mercato reagirà ai provvedimenti che verranno introdotti da Governo e Banca dItalia. Ma limpressione è che ci sia dellaltro: organi direttivi troppo passivi, che hanno delegato troppo potere agli Amministratori Delegati negli anni passati, sull’onda dei successi in termini di acquisizioni e di profitti e che oggi non sembrano in grado di reagire alla crisi. All’inizio di ottobre, in mezzo alla tempesta che aveva colpito il suo titolo, l’Amministratore Delegato di Unicredit, Alessandro Profumo, davanti agli studenti del Collegio di Milano, aveva ribadito la sua intenzione di lasciare il timone della sua banca per il suo sessantesimo compleanno, cioè tra nove anni. Nove anni alla testa di un gruppo bancario così rilevante sono molto lunghi, specie se si tiene conto che Profumo occupa lo stesso posto da più di dieci anni. In nove anni può cambiare il mercato, rendendo obsolete alcune competenze, possono spuntare manager più giovani e più adatti a guidare la banca oppure la banca può essere oggetto di unacquisizione. Insomma, Profumo deve sentirsi saldo in sella per fare una simile affermazione. E’ giusto che un manager che ha avuto in passato tanti successi abbia fiducia nelle sue capacità. Ma la fiducia in se stessi non basta. Occorre anche che Profumo sia anche molto fiducioso che il suo Consiglio di Amministrazione lo appoggerà in modo incondizionato. E forse è proprio questa la chiave di lettura della sofferenza delle banche italiane: Ci sono troppi intrecci societari che danno luogo a veti incrociati. Tutti sono rappresentati, anche indirettamente chi siede in banche concorrenti. Tutti (o quasi) sulla carta indipendenti, compresi Gianfranco Gutty, Salvatore Ligresti o Carlo Pesenti, tanto per non fare dei nomi. Neanche il barlume di un fondo istituzionale, che rappresenti i piccoli azionisti. E un consiglio fatto col il manuale Cencelli, con ben cinque vicepresidenti, età media 65 anni, e ben 23 poltrone per accontentare tutti. In questi giorni si discute della possibilità di abolire la passivity rule nella normativa sulle OPA. Pessima idea, come abbiamo avuto modo di sottolineare. Meglio sarebbe ridurre la passivity dei Consigli dAmministrazione delle nostre banche.
La crisi finanziaria ha fatto crollare il valore delle azioni di molte società quotate in borsa. E benché quelle scalabili siano in Italia davvero poche, si cercano strumenti per rendere più difficili le offerte pubbliche di acquisto. Per esempio, rimuovendo la passivity rule, la norma che impedisce al management della società bersaglio di intraprendere azioni per ostacolare il successo dell’Opa. Ma una limitazione simile non tutela i piccoli azionisti. A trarne beneficio sono in genere i gruppi manageriali oppure gli azionisti di controllo. Regole speciali per i fondi sovrani.
Ieri il Primo Ministro, spaventato dalla possibilità che il calo di corsi azionari abbia effetti sugli assetti proprietari delle imprese italiane, ha avanzato la proposta di adottare misure per proteggere acquisizioni ostili. "Molte aziende italiane" – ha detto il premier "hanno oggi una quotazione che non corrisponde assolutamente al loro giusto valore. Quindi credo che sono delle ottime occasioni per chi, disponendo di capitali e penso a certi fondi sovrani, volesse proporre delle Opa ostili". Provvedimenti anti-OPA avranno un solo effetto: scoraggiare lafflusso di capitale fresco nel mercato azionario. Ci sono almeno due motivi per cui questa non è una buona idea. Primo, ostacolare lingresso di capitale nei mercati adesso è come chiudere i rubinetti idrici al culmine di una siccità. Con la prospettiva di una stretta creditizia alle porte, bisogna piuttosto incentivare tutti i possibili canali di reperimento di fondi da parte delle imprese, incluso il capitale di rischio. Secondo, il problema principale del mercato per il controllo societario italiano è la sua scarsa contendibilità. La struttura di controllo delle imprese italiane è pietrificata: se si escludono le privatizzazioni, il peso relativo dei soggetti controllanti (persone fisiche, società finanziarie, soggetti esteri ecc.) è rimasto pressoché immutato negli ultimi trentanni. In particolare, il ruolo del controllo familiare è sempre dominante. Un ingresso di nuovo capitale finanziario e manageriale porterebbe solo benefici: i fondi esteri sono oggi più che mai un’opportunità per i risparmiatori, gli investitori e le imprese italiane. E allora perché questo allarme contro le OPA ostili? A vedere con ostilità le OPA straniere sono i dirigenti delle società che potrebbero perdere il loro posto, le loro laute remunerazioni e i loro benefit e chi, utilizzando leva finanziaria e scatole cinesi, mantiene il controllo di unimpresa rischiando poco di tasca sua. In nome della difesa dellitalianità sono già stati combinati abbastanza pasticci: basta, please!
I governi europei non si sono accordati per un’azione coordinata contro la crisi, come richiesto dall’appello lanciato su questo sito e sottoscritto sin qui da oltre 300 economisti europei. Ogni Paese sta quindi adottando in modo indipendente le proprie politiche per arginare la crisi finanziaria. In Italia, sulla falsariga dei provvedimenti presi dal governo Brown nel Regno Unito, il Consiglio dei Ministri ha approvato un decreto legge che prevede la possibilità per lo Stato di ricapitalizzare le banche in difficoltà sottoscrivendo azioni senza diritto di voto e una garanzia pubblica sui depositi bancari, che va ad aggiungersi a quella già prevista dal fondo interbancario. L’assicurazione pubblica sui depositi è solo una protezione supplementare dei depositi, il cui utilizzo effettivo scatterebbe solo nel caso in cui il fondo interbancario non avesse fondi sufficienti per pagare i correntisti. Il valore di questa misura risiede più nel suo aspetto di rassicurazione dei risparmiatori che in quello di protezione effettiva, ma in questi tempi di sfiducia generalizzata, anche segnali come questo possono essere utili. E’ utile è anche il primo provvedimento, cioè la possibilità offerta alle banche, che in questo momento non riuscirebbero a ricapitalizzarsi sul mercato, di farlo con i fondi pubblici. Positiva anche la scelta delle azioni senza diritto di voto, al fine di ridurre le interferenze dello Stato nella gestione delle banche. La valutazione dei provvedimenti adottati dal governo è dunque favorevole.
L’unica perplessità che rimane è l’assenza di un esplicito orizzonte temporale o delle condizioni sotto le quali lo Stato si impegna a rivendere ai privati le azioni sottoscritte. Anche le azioni senza diritto di voto consentono a chi ha partecipazioni rilevanti di condizionare la gestione. Si partecipa ad assemblee (straordinarie o degli azionisti di risparmio) e si può sempre minacciare di ritirare il proprio capitale forzando il management in una direzione piuttosto che in un’altra. Il Ministro Tremonti ha detto che non ci saranno nazionalizzazioni. Bene. Ma non possiamo dimenticare che la politica, in Italia, ha storicamente avuto un forte desiderio di controllo del sistema bancario. Non possiamo dimenticare i tempi non troppo lontani in cui i partiti si spartivano le Presidenze e i Consigli di Amministrazione delle banche. E non riusciamo neanche a dimenticare che proprio il Ministro Tremonti propose, alcuni anni fa, di porre sotto il controllo della politica le fondazioni bancarie. Questo governo sembra che abbia la nostalgia dei bei tempi passati in cui c’erano il maestro unico, il grembiule e il sussidiario. Speriamo non abbia anche nostalgia delle Bin, le banche di interesse nazionale.
Salvare le banche in difficoltà oggi non è abbastanza. Occorre continuare a favorire la concorrenza, anche facilitando l’ingresso di banche straniere che di solito apportano maggiore efficienza operativa. E si dovrebbe anche imporre l’offerta di alcuni contratti standard, per accrescere la comparabilità delle condizioni proposte da istituti diversi. E’ solo riportando nell’agenda politica la liberalizzazione del settore bancario che sarà possibile restituire alle famiglie e alle imprese una parte dei potenziali benefici del salvataggio.
La crisi finanziaria si allarga perché i mercati finanziari negli Stati Uniti sono troppo poco regolamentati? In realtà, la regolamentazione non manca, anzi alcuni sostengono che è perfino eccessiva. Semplicemente è di cattiva qualità. E spesso rivolta a risolvere i problemi di ieri, dimenticando che quelli di domani saranno del tutto diversi. La lezione che occorre imparare da Freddie e Fannie è che bisogna essere scettici verso chi propone nuove regole senza spiegare perché quelle passate non hanno funzionato.
Pedagogisti e scienziati dell’educazione discutono da decenni vantaggi e svantaggi del maestro unico. Ed è vero, come dice Bossi, che “Se c’è un solo insegnante è più facile che si rovini il bambino”. Ma sulla scuola bisogna comunque rifiutare l’immobilismo e intervenire per migliorarla. Tenendo conto del livello qualitativo attuale. Ecco in che modo.