Curiosa polemica tra il Ct della Nazionale italiana, Cesare Prandelli e il vicepresidente esecutivo del Milan, Adriano Galliani. Prandelli, in unintervista, aveva dichiarato che questanno avrebbe visto con favore una vittoria del Napoli nel campionato di serie A. Galliani, coinvolto con la sua società nella lotta scudetto, si è molto risentito e ha chiamato il diretto superiore di Prandelli, il presidente della Fgci, Giancarlo Abete, dicendo che era inammissibile che il Ct tifasse per qualcuno. Prandelli ha fatto subito retromarcia, dichiarando di essere stato frainteso dai media. Ma perché il Ct non può tifare per qualcuno? Che danni può arrecare alla regolarità del campionato? Al massimo può far giocare in Nazionale qualche partita in più ad alcuni giocatori rispetto ad altri. Dato che il contributo del Milan alla Nazionale italiana è al momento limitato, Prandelli può fare ben poco per cambiare i valori in campo. Si dirà: non importa il numero di giocatori del Milan in Nazionale, è una questione di principio. Benissimo. Sorprendente però che questa difesa di sani principi provenga da Galliani, che ha rivestito il ruolo di Presidente della Lega calcio dal 2002 al 2006. La Lega calcio, per chi non lo sapesse, organizza i tornei come la serie A e la Coppa Italia, stabilendo, ad esempio, anticipi e posticipi e vendendo anche alcuni diritti televisivi. La cosa notevole è che Galliani, nel periodo in cui è stato Presidente della Lega, ha mantenuto il ruolo di numero uno (almeno di fatto) del Milan. Quindi aveva, almeno in teoria, una capacità di incidere sullo svolgimento dei tornei ben più elevata di quella del Ct, a favore della sua squadra. Qualcuno obietterà: ma Galliani è stato eletto dai presidenti delle società che sapevano del suo conflitto di interesse. Poiché tutti sapevano del suo conflitto di interesse, Galliani non poteva fare nulla a favore del Milan. Chissà perché, questa mi pare di averla già sentita usare da qualcun altro.
Autore: Fausto Panunzi Pagina 9 di 15
Ha conseguito il PhD presso il Massachusetts Institute of Technology. Attualmente insegna Economia Politica presso l'Università Bocconi. In precedenza ha insegnato presso l'Università di Bologna, l'Università di Pavia, Lecturer all´University College London, Research Fellow presso IDEI (Toulouse ) e IGIER. Le sue aree di interesse scientifico sono la teoria dell'impresa, finanza d'impresa e teoria dei contratti. Redattore de lavoce.info.
Il presidente della Consob esprime alcune preoccupazioni sulle regole che disciplinano le Opa. La prima ha a che vedere col fatto che in questo momento le aziende europee, e in particolare le italiane, hanno meno liquidità di quelle asiatiche. La seconda riguarda la soglia oltre la quale scatta l’obbligo di Opa. Se per rivitalizzare il mercato finanziario italiano, occorre renderlo più attraente, non si vede che utilità possano avere provvedimenti volti a ridurre la contendibilità delle imprese e a mantenerne l’italianità.
Sono entrambe aziende quotate alla Borsa di Milano. Sono entrambe possibili bersagli di unacquisizione da parte di gruppi stranieri. Ma in un caso si mobilitano il governo e una banca per dire che non deve passare lo straniero. Nellaltro caso lo straniero non solo non viene contestato, ma se ne va in giro per la capitale osannato dalla metà dei romani. Stiamo parlando di Parmalat e AS Roma ovviamente, il cui controllo potrebbe essere acquisito nelle prossime settimane rispettivamente dal gruppo francese Lactalis e da una cordata di investitori americani capitanata da Thomas R. Di Benedetto. La differenza di trattamento riservata ai due casi, anche sui media, è piuttosto curiosa. Certo, Lactalis non pubblica un bilancio da tanti anni, come ama ricordarci il Corriere della Sera. Ma non è che si sappia molto di più di Di Benedetto. Proprio ieri il Sole 24 ore scriveva che mancano indicazioni sulla solidità patrimoniale e finanziaria di Di Benedetto. Aggiungendo Tom è sconosciuto nella sua città (Boston) e negli Stati Uniti. Possibile che abbia le credenziali per comprare la 18esima squadra di calcio dEuropa per fatturato?. La differenza pare sia unaltra: Parmalat è unazienda strategica mentre la Roma no. Certo, Parmalat è più grande di AS Roma e ha anche un indotto più significativo. E poi volete mettere limportanza del latte con quella del calcio? Tutto chiaro, allora? Non proprio. Telecom Italia è più grande di Parmalat e le telecomunicazioni non sono certo meno strategiche del comparto alimentare (che, in ogni caso, nella famigerata lista dei settori strategici per la Francia non cè). Ma Telecom è controllata da Telco, il cui azionista principale è Telefonica, azienda spagnola. Il quadro degli interventi ispirati al patriottismo economico sembra proprio un guazzabuglio senza coerenza. Ma ricordiamo che, con Telefonica, in Telco cè una banca. La stessa che adesso difende litalianità di Parmalat, dopo avere salvaguardato quella di Alitalia. Ecco, forse abbiamo finalmente trovato un punto dIntesa su cosa sia veramente strategico in Italia.
L’8 marzo di ogni anno ci si interroga sulla condizione femminile. Una soluzione per ridurre il divario tra i sessi nel mondo del lavoro è utilizzare le quote. Le prevede ad esempio un disegno di legge che impone di riservare alle donne il 30 per cento dei posti nei consigli di amministrazione delle società quotate entro il 2015. Nel breve periodo, il rischio è quello di cooptare donne non preparate che potrebbero finire per confermare eventuali stereotipi negativi. Né va scartata del tutto l’ipotesi che le quote siano come le mimose: l’omaggio di un solo giorno.
Grazie per i vostri commenti. Alcune critiche sembrano tuttavia non cogliere il punto: al di là del giudizio che si può dare sul ruolo delle nostre truppe in Afghanistan, lì inquesto momento c’è un pezzo del nostro paese ed è doveroso per un Presidente del Consiglio essere al fianco dei nostri soldati. E’ davvero strano che nessuna voce si sialevata in questi giorni anche dai banchi dell’opposizione per chiedere che Berlusconi, pur con ritardo, faccia quello che Blair, Cameron, Obama e Zapatero hanno fatto datempo. Non c’entra l’ideologia. E’ una questione di ruoli istituzionali e di civiltà. Tutto qui.
Il 2010 se ne è andato. Un anno duro per molti aspetti e che si è chiuso male, con la morte di un altro militare italiano in Afghanistan. Il tredicesimo di questo anno e il trentacinquesimo dall’inizio della missione. Tra i tanti desideri che ciascuno di noi esprime per il nuovo anno sarebbe facile includere il ritiro delle nostre truppe. Ma sarebbe un desiderio sbagliato. I nostri soldati sono in Afghanistan per cercare di aiutare lo sviluppo della pace e della democrazia in quel Paese. Obiettivi forse parzialmente irrealistici, ma nei quali è giusto sperare ancora. C’è però un piccolo desiderio che è lecito esprimere per il nuovo anno e che è alla nostra portata a differeza dei molti che si sento fare in questi giorni. Che il Premier vada a visitare le nostre truppe in Afghanistan. Cameron lo ha fatto pochi mesi dopo la sua elezione, Zapatero è andato lo scorso novembre e Obama questo dicembre. Berlusconi invece risulta assente ingiustificato. Certo, nelle scorse settimana è stato molto impegnato a convincere i parlamentari di Fli e Idv a votargli la fiducia. Ieri mattina era ancora impegnato su Canale 5 a bombardare gli italiani con le sue fluviali esternazioni. Ma nei due anni e mezzo in cui è stato Primo Ministro ha trovato il tempo per andare ai compleanni di minorenni a Casoria, per far rilasciare dalla Questura di Milano la presunta nipote di Mubarak e per frequentare la signora D’Addario. Senza alcun moralismo, crediamo sarebbe ora che tra le sue visite includesse quella alle truppe italiane in Afghanistan. Sarebbe solo un gesto simbolico, è vero, ma anche i simboli sono importanti.
Enzo Bearzot è morto stanotte a Milano. Nell’anno dei Mondiali se ne va il simbolo stesso della vittoria ai Mondiali. Per la mia generazione la pur stupenda vittoria di Germania 2006 non ha lo stesso valore di quella di Spagna 1982. Ricordiamo ancora tutto di quei giorni di quasi trenta anni fa. La partenza tra le contestazioni e lo schiaffo di una tifosa per la mancata convocazione di Evaristo Beccalossi. Quelli che suggerivano il rientro a casa dopo l’amichevole di Braga. Il girone di qualificazione passato con tre pareggi con Polonia, Perù e Camerun. L’orrenda divisa sociale con cui erano vestiti Bearzot, Maldini e il Dott. Vecchiet. Il primo silenzio stampa. Il girone della morte con Argentina, campione del mondo in carica, e il magno Brasile, come lo chiamava Gianni Brera, da poco emigrato a Repubblica. I falli di Gentile su Maradona e la vittoria per 2-1 con i gol di Cabrini e Tardelli con l’Argentina. Poi la partita delle partite, quella giocata al Sarrià di Barcellona il 5 luglio 1982. Italia – Brasile 3-2, con tripletta di Paolorossi, tutto attaccato. La vittoria ormai scontata sulla Polonia. E la notte del Bernabeu. 11 luglio. Le fontane unico rimedio per raffreddare la gioia e le strade improvvisamente troppo strette per ospitare anche chi non avrebbe mai creduto di esultare per una squadra di calcio. Il giorno dopo la Gazzetta esaurita la mattina presto perché nessuno poteva perdersi il titolo “Campioni del Mondo”. Dopo il 1938, la vittoria di Vittorio Pozzo in mezzo ai saluti fascisti, l’Italia era di nuovo la più forte nel calcio.
Senza Bearzot tutto questo non ci sarebbe stato. Chi al suo posto avrebbe avuto la forza di difendere il gruppo in mezzo alle polemiche e alle insolenze? Paolo Rossi appena tornato da due anni di squalifica e palesemente fuori forma all’inizio dei Mondiali. Dino Zoff, portiere indiscusso titolare a 40 anni. E chi avrebbe avuto, allo stesso tempo il coraggio di far giocare in finale il ragazzino con i baffi, lo zio Bergomi? Solo un friulano testardo che metteva il gruppo e la sua parola sopra ogni altra cosa.
Il successo di Spagna 1982 non era certo frutto del caso: quattro anni prima, al Mondiale di Argentina, l’Italia era stata la squadra che aveva giocato meglio, anche se era arrivata solo quarta. Con Bearzot si archiviava finalmente il catenaccio: Cabrini che attaccava sempre sulla fascia sinistra, Scirea e Bergomi che, nella finale di Madrid, si scambiavano il pallone nell’area della Germania in occasione del gol di Tardelli erano il simbolo di un’Italia nuova e moderna. Ma non è certo il momento della sociologia spicciola. Oggi ricordiamo una persona che, dopo la dura sconfitta di Messico 1986, se ne era andato senza polemiche e in silenzio. Il tempo di Bearzot nel calcio italiano era finito. Il 1986 è l’anno in cui Berlusconi acquistò il Milan. Da lì iniziarono le presentazioni delle squadre in elicottero e diventò fondamentale la “comunicazione”. Bearzot non era un uomo adatto alla comunicazione. La pipa in bocca e le frasi che uscivano a fatica. Anche per questo non lo scorderemo. Grazie, Bearzot.
Nella vicenda del rinnovo del contratto dei calciatori, torti e ragioni non stanno da una sola parte. Per esempio, hanno ragione le società sugli allenamenti separati per i fuori rosa. Mentre appaiono corrette le obiezioni dei calciatori alle nuove regole sui trasferimenti. Lo sciopero forse può essere ancora evitato, ma occorre che entrambe le parti siano disposte a fare delle concessioni. Ma se sciopero sarà, come sarà calcolata la trattenuta sullo stipendio? Si possono considerare questi atleti alla stregua dei lavoratori?
La Consob ha presentato nei giorni scorsi delle proposte di revisione della regolamentazione sulle Opa. Alcune sono opinabili, ma l’impianto complessivo fa pensare che Consob sia tornata a preoccuparsi della tutela degli azionisti di minoranza, dopo gli sbandamenti dell’ultimo periodo della presidenza Cardia. Importante però che sia nominato al più presto un nuovo presidente. Con le competenze necessarie per il ruolo che dovrà ricoprire. L’ennesimo politico spacciato come tecnico sarebbe un boccone indigeribile.
La minaccia di uno sciopero pende sul campionato di calcio. In discussione c’è il nuovo contratto di lavoro e due sono i punti di disaccordo: il diritto dei calciatori che non rientrano più nei piani delle società di allenarsi insieme al resto della rosa e la rescissione del contratto in caso di rifiuto del trasferimento a un altro club nell’ultimo anno di contratto. E se non è facile per i normali cittadini comprendere le ragioni dei giocatori, è anche difficile avere simpatia per chi ha liberamente sottoscritto un contratto e vorrebbe poi uscirne senza pagare le conseguenze.