Le previsioni economiche di primavera della Commissione europea confermano il buon andamento dei piccoli paesi e la permanenza di un nucleo forte intorno alla Germania. Per altri invece i problemi non sono finiti. Dietro l’unione monetaria, una disunione reale tra gli Stati che ne fanno parte.
Autore: Francesco Daveri Pagina 11 di 28
È stato Professor of Macroeconomic Practice alla School of Management dell'Università Bocconi, dove insegnava Macroeconomics, Global Scenarios ed è stato direttore del Full-Time MBA. Ha insegnato in varie università come l’Università Cattolica (sede di Piacenza), Parma, Brescia, Monaco e Lugano. Ha svolto attività di consulenza presso il Ministero dell’Economia, la World Bank, la Commissione Europea e il Parlamento Europeo. Le sue ricerche si sono concentrate sulla relazione tra le riforme economiche, l’adozione delle nuove tecnologie e l’andamento della produttività aziendale e settoriale in Italia, Europa e Stati Uniti. Ha collaborato con il Corriere della Sera e ha fatto parte del comitato di redazione de lavoce.info, di cui è stato Managing editor dal 2014 al 2020. Scomparso il 29 dicembre 2021.
Il Def 2016 conferma la strategia del governo di una discesa graduale del deficit effettivo e del rapporto debito pubblico-Pil, pur con una politica fiscale moderatamente espansiva. È una scommessa che si basa su previsioni ottimistiche di crescita del Pil. Condizioni per ottenere la flessibilità.
L’economia italiana continua a crescere, ma senza mettere il turbo. Se continua così, la crescita 2016 rimarrà al di sotto dell’1 per cento. Rispetto alle riprese del passato a partire dal 1999 mancano il traino delle esportazioni e degli investimenti.
Non si può andare a Bruxelles, come ha fatto l’Italia, a proporre più Europa proprio nel momento in cui decolla il referendum sulla Brexit, che comunque cambierà tutto. L’esigenza di ripartire da Eurozona e dai suoi meccanismi per non sprecare i risultati raggiunti finora. Anzi per consolidarli.
A due anni dall’insediamento, Renzi traccia un bilancio del suo governo. E rivendica i successi raggiunti. Ma niente si dice sulla produzione industriale e le vendite al dettaglio che continuano ad arrancare. Le riforme e gli interventi concreti per tornare a una vera crescita.
A novembre c’è stata una battuta d’arresto della lenta ripresa italiana. I dati sulla produzione industriale rivelano però che alcuni settori sono in netto rilancio. E altri, durante la crisi, si sono rafforzati. La stagnazione nella produzione dei beni di consumo e il boom delle importazioni.
Il grafico mostra che in novembre la già lenta ripresa della produzione industriale ha subito una battuta d’arresto dopo due mesi di crescita. Nel complesso, le serie destagionalizzate dell’Istat indicano che, durante l’attuale ripresa, l’indice della produzione industriale è salito del 2,3 per cento rispetto al suo minimo di maggio 2014. In questi 18 mesi di ripresa la produzione industriale è comunque diminuita in otto mesi rispetto al mese precedente. Oltre che lenta la ripresa è anche accidentata. Non c’è da scoraggiarsi: dopo tutto, di questo passo, il livello di produzione industriale pre-crisi (quello dell’aprile 2008) sarà toccato di nuovo nel 2034, tra poco più di 18 anni. Un obiettivo più alla portata del sistema Italia è il ritorno al livello della produzione industriale prevalente prima della crisi dell’euro: con il passo degli ultimi 18 mesi, la produzione industriale tornerà al livello dell’aprile 2011 tra sei anni e mezzo, dunque a metà del 2022.
Data la elevata dipendenza dei numeri positivi dei mesi precedenti dalla robusta ripresa della produzione di autoveicoli, è il caso di dire che il motore della ripresa dell’industria batte in testa. Il ritorno in negativo della crescita della produzione industriale è stato infatti determinato dal dato negativo registrato per la produzione di autoveicoli, scesa del 2,4 per cento nel mese di novembre. Il dato di novembre interrompe una stringa di dati positivi che ha portato la produzione di autoveicoli a un meno 11,3 per cento rispetto ai livelli del 2008 e a un sonoro +18,2 per cento rispetto al massimo del gennaio 2011.
Per l’automobile insomma, la crisi (almeno quella post-estate 2011) è finita. Non così per chi ne produce le componenti: questi settori hanno certo beneficiato della ripresa (la produzione di carrozzerie e di altre componenti è aumentata – rispettivamente – del 42 e del 6 per cento rispetto ai livelli di maggio 2014). Ma, fatta 100 la loro produzione pre-crisi dell’aprile 2008, i livelli di oggi delle produzioni indicate indicano 50,7 e 65. Come dire che metà della produzione italiana di carrozzerie è scomparsa. Lo stesso è avvenuto a un terzo della produzione italiana di componenti per autoveicoli. Il settore automobilistico si è ripreso, ma senza generare l’indotto di una volta. Inutile stupirsi che Pil e produzione industriale languiscano.
Con l’approvazione della legge di Stabilità 2016 nei due rami del Parlamento e in attesa della pubblicazione della nota tecnico-illustrativa definitiva da parte della Ragioneria generale dello stato si può comunque calcolare in che misura l’impegno preso dal governo di ridurre le tasse sarà rispettato nel 2016 e negli anni successivi. I dati complessivi di variazione delle entrate e delle uscite dello stato presentati dal governo a ottobre sono stati complessivamente rispettati anche dopo il dibattito parlamentare, con l’eccezione del rinvio (proveniente dal governo) del taglio dell’Ires al 2017 per far posto alle voci del cosiddetto “pacchetto sicurezza” (ad esempio, i 500 euro ai diciottenni e gli 80 euro alle forze dell’ordine).
Con la diffusione delle stime Istat definitive sul terzo trimestre, emerge che il Pil 2015 crescerà meno dello 0,9, più probabilmente dello 0,7 per cento. La minor crescita porta con sé un leggero aumento del deficit e soprattutto il segnale che i conti pubblici dell’Italia dipendono da circostanze esterne.
Le proposte economiche della Lega si tradurrebbero in 86,9 miliardi di minori entrate e 9 miliardi di maggiori spese. In altre parole, in un maggiore deficit pubblico per 95,9 miliardi, pari al 5,8 per cento del Pil. E probabilmente in una rapida perdita della fiducia faticosamente recuperata.