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Autore: Francesco Pastore Pagina 2 di 5

pastoreù Francesco Pastore è professore associato di Economia Politica presso l’Università della Campania Luigi Vanvitelli. È, inoltre, research fellow dell’IZA di Bonn; country leader per l’Italia della Global Labor Organization; e membro dell’executive board dell’European Association of Comparative Economic Studies e dell’AISSEC. Già segretario dell’Associazione Italiana degli Economisti del Lavoro (2010-’16). Ha conseguito il Ph.D. in Economics presso la University of Sussex nel Regno Unito ed è stato consulente, fra gli altri, di Commissione e Parlamento Europei, ILO, UNDP, OCSE, Unesco e World Bank. È autore molto prolifico, con circa 60 articoli scientifici pubblicati su riviste ad alto impact factor su diversi temi di economia del lavoro e dell’istruzione. Per i tipi della Giappichelli, ha pubblicato il volume dal titolo: “Fuori dal tunnel. Le difficili transizioni dalla scuola al lavoro in Italia e nel mondo”. Cura un blog molto seguito su Il Fatto Quotidiano: Francesco Pastore, Il Fatto Quotidiano

Alternanza scuola-lavoro, cancellarla è un boomerang

L’alternanza scuola-lavoro può essere un grande vantaggio per imprese e studenti. Serve però un investimento di tutti gli attori in campo per renderla davvero efficace. A partire dalle risorse per incentivi alle imprese e la formazione dei docenti.

Dottorati industriali per lavorare nell’industria 4.0

Come reagire ai cambiamenti determinati nel lavoro dalle nuove tecnologie? La formazione teorica non basta più. Occorre invece “imparare facendo”, attraverso il coinvolgimento di università, imprese e governo. E lo strumento è il dottorato industriale.

Alla quarta rivoluzione industriale serve un diploma Its

Il governo ha promesso di aumentare i fondi destinati agli istituti tecnici superiori. Una promessa da mantenere perché gli Its, con alternanza scuola-lavoro e apprendistato, sono i tasselli di un sistema d’istruzione adeguato al lavoro del futuro.

Università, come frenare l’emorragia di iscritti e laureati

I dati dicono chiaramente che l’Italia è ben sotto la media Ue per laureati. Anche le iscrizioni all’università sono calate negli ultimi anni. Le cause sono tante e diverse. Le soluzioni passano per uno snodo centrale: rivedere la riforma del 3+2.

Per trovare lavoro servono centri per l’impiego 4.0

I centri per l’impiego sono oggi strutture amministrative del tutto inadeguate a trovare lavoro ai disoccupati. Andrebbero perciò riformati. Sono quattro i punti chiave da seguire, puntando sulle tecnologie e sulla riqualificazione del personale.

Scuola-lavoro: una transizione ancora in corso

Sono molte le novità introdotte in Italia nel regime di transizione scuola-lavoro: dal Jobs act alla Garanzia giovani, alla riforma dei centri per l’impiego, alla Buona scuola. Il punto chiave però è prevedere un vero percorso di apprendistato, sul modello tedesco. Cambiare la laurea specialistica.

Non è un paese per dottori di ricerca

I dottori di ricerca non sono molti in Italia, anche perché il terzo livello di formazione universitaria è stato istituito solo negli anni Ottanta. Hanno sbocchi professionali al di fuori dell’ambito accademico? Dipende dalle discipline, ma i dati non sono incoraggianti. Dove e come intervenire.

Quanto è utile la laurea per il lavoro?

Politiche efficaci per i giovani in cerca di lavoro

La disoccupazione giovanile è un problema di tutta Europa. In Italia si assesta tra il 40 e il 50 per cento. Su quali servizi investire per aiutare i giovani a trovare lavoro? Vantaggi e svantaggi di programmi di accompagnamento, formazione, incentivi occupazionali e posti finanziati dallo Stato.

Cos’è cambiato con la riforma Gelmini

 

Ringrazio gli autori per i commenti ricevuti al mio articolo. Devo dire, però, che alcuni dei commenti hanno un po’ frainteso il senso dell’articolo. Cerco allora di spiegare meglio il mio punto di vista. Indubbiamente, la legge Gelmini non è la panacea di tutti i mali, né la migliore delle riforme possibili. Non ho detto questo. Ho detto solo che rispetto ai concorsi locali che c’erano prima, la Gelmini ha introdotto almeno una valutazione di massima e la verifica di uno standard minimo per l’accesso alla carriera di professore universitario. Gli scambi di favori fra baroni erano all’ordine del giorno prima della Gelmini: “Io faccio associato/ordinario tuo figlio/nipote/allievo e tu il mio”. Molte persone che con i concorsi locali avrebbero vinto a man bassa, con la riforma Gelmini non hanno ottenuto le abilitazioni o non hanno neppure fatto domanda.
È altresì vero che ci sono state differenze non trascurabili fra i diversi settori scientifico-disciplinari. Alcuni settori, rifiutando l’uso di metri di valutazione oggettivi e trasparenti, hanno applicato criteri discrezionali e perciò discutibili, promuovendo non tanto (o non sempre) sempre i più bravi, ma quelli più vicini alla commissione, come è nella tradizione di tutti i concorsi universitari italiani. Soprattutto i settori non bibliometrici hanno mantenuto una eccessiva discrezionalità che non sempre ha premiato i migliori. Ma se si va a chiedere ai giovani di questi settori cosa ne pensano, come presi dalla sindrome di Stoccolma, continuano a dire che occorre mantenere la discrezionalità di valutazione delle commissioni e, sinceramente, a chi scrive cadono le braccia. Viene il dubbio che il sistema sia irriformabile.
Altri settori ancora hanno abbassato troppo l’asticella, promuovendo una percentuale troppo alta e facendo così un grave torto ai più bravi in quel settore che sono stati penalizzati dalla conseguente svalutazione del titolo di abilitazione.
Un problema della riforma è che anziché imporre tutto dall’alto, sta cercando di favorire un processo di learning by doing che per i professori universitari sembra difficile e che rischia di far fallire la riforma come è stato per altre riforme importanti che sono state introdotte senza adeguata discussione e introiezione da parte di chi la doveva attuare. Perciò vi sono ancora tante incomprensioni, talvolta anche dei propri stessi interessi da parte di alcuni attori, come i più giovani e bravi dei settori non bibliometrici di cui si è detto sopra. C’è poi un tentativo di neutralizzare la riforma laddove sottrae potere ai baroni.
Insomma, ci sono tanti aspetti della legge GeImini che richiedono un tagliando. ll tema dell’articolo, però, non era “quanto è bella (o brutta) la riforma Gelmini”. Sembra che non si possa che parlare del tema “riforma sì/riforma no”. Non si può parlare invece di come migliorare la riforma. Ripeto: lo schema della riforma è molto migliorativo rispetto al passato, ma occorre anche apportare dei correttivi. Uno di questi correttivi è capire meglio chi decide quale fra gli abilitati di un dipartimento debba avere la precedenza, in specie in un regime di risorse scarse. La legge Gelmini non ha affrontato questo tema in modo adeguato.
Non ho neppure discusso di sistemi alternativi o di incentivi a scegliere personale dall’esterno. Questo è un altro discorso che non affronto in questo articolo.
Il problema che ponevo è: a parità di esterni chiamati, chi e come bisogna scegliere fra gli abilitati interni ad un dipartimento che vanno pure premiati per il lavoro fatto e non vanno necessariamente messi in competizione con degli esterni? Su questo sono pienamente d’accordo. È bene che una struttura premi chi lavora di più e meglio al proprio interno consentendo loro un necessario passaggio di carriera. Se non fosse così, verrebbe meno l’incentivo a lavorare per quella struttura.
Non ho discusso neppure di incentivi. Potrà essere naturale che decidano gli ordinari, i più anziani, come accade dappertutto. Tuttavia, altrove, nei paesi anglosassoni, pur non mancando le ingiustizie, che in questo mondo non mancano mai, il sistema premia in media i migliori più del nostro. Sarà anche grazie agli incentivi che nel nostro sistema mancano e sono d’accordo su questo con Alberto Rotondi.
Tuttavia, siccome gli incentivi non ci sono ancora e finché le risorse sono e saranno scarse e immagino che il quadro degli incentivi non cambierà per molto tempo ancora, che facciamo? Consentiamo agli anziani di fare quello che vogliono? Cioè di scegliere parenti/amici/allievi meno meritevoli perché a loro conviene fare così? Finché non ci sono le risorse e gli incentivi, riconosciamo il diritto all’abuso? Ecco, questo è il punto dell’articolo. Nel frattempo, finché mancheranno incentivi economici a scegliere i migliori, occorre introdurre criteri oggettivi, trasparenti, misurabili per costringere i più anziani, visto che gli incentivi gli fanno difetto, a scegliere i migliori e non chi fa a loro più piacere o più comodo, facendo perdere anni ed anni di carriera ai più bravi. Tutto qua.
Non entro approfonditamente nel merito dei criteri. Bisogna pensare bene a questo. Alcuni criteri sono però oggettivi e verificabili: il conseguimento di un’abilitazione di prima fascia per una promozione di seconda fascia, il numero complessivo delle abilitazioni, la quantità e continuità della produzione scientifica di un certo livello (magari totale di articoli in riviste di classe A normalizzate per le riviste totali di classe A di quel settore, poiché alcuni settori hanno dichiarato di classe A tutte le loro riviste di settore), fabbisogno della facoltà per il personale appartenente a quel determinato settore, anzianità di servizio del docente etc etc. Ci sono tanti criteri oggettivi che si possono adottare e che limiterebbero facilmente gli abusi attuali. Il punto non è definire i criteri, che spesso sono concorrenti, non discordanti e portano dritto sempre alle stesse persone, ma rendete tali criteri cogenti!
Mi auguro, infine, che il problema sollevato scompaia con le abilitazioni a sportello, che limiteranno l’affollamento, la definizione di asticelle sempre più giuste (non dico più alte) e l’eliminazione dei punti organico e la loro sostituzione con altri strumenti di definizione delle risorse disponibili. In futuro, dovrebbe essere possibile ad un dipartimento di promuovere automaticamente uno studioso meritevole che abbia acquisito un’abilitazione nazionale senza doverlo fare aspettare ingiustamente.

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