Da quattro anni, ogni volta che le agenzie di rating emettono i loro verdetti si scatena il putiferio, con il solito corredo di accuse su complotti politici e conflitti di interessi. Ma la disciplina delle agenzie di rating negli ultimi tempi ha fatto importanti passi avanti, che non devono essere sottovalutati. Quello che ancora manca è un processo che attenui il rilievo del rating nelle regole di vigilanza. E che soprattutto valorizzi l’autonomia di giudizio e il ricorso a una pluralità di fonti informative da parte di banche e investitori.
Autore: Francesco Vella Pagina 9 di 16
Francesco Vella insegna Diritto Commerciale e Diritto Bancario all’Università di Bologna. Nella sua attività di ricerca ha prodotto quattro manuali (tutti editi dal Mulino), quattro monografie e numerose pubblicazioni in volumi collettanei e riviste in materia bancaria, finanziaria e societaria. Ha ricoperto e ricopre incarichi in organismi di controllo e di amministrazione, come amministratore indipendente, in società quotate. E’ tra i soci fondatori dell’Associazione Disiano Preite. È membro della redazione della voce.info.
Ringrazio i lettori e in primo luogo offro una prima risposta collettiva: non esistono pasti gratis.
I commenti pervenuti rappresentano una efficace sintesi  di tutti i problemi (e non sono pochi) tra i quali bisogna districarsi per realizzare una auspicabilmente  efficiente sistema dei controlli societari.
Armando Guerra,  ad esempio, richiama il rischio che ogni tentativo di snellimento sia bloccato sul nascere da chi è troppo appassionato di burocrazia, oppure più prosaicamente da chi vuole proteggere propri interessi corporativi: ha ragione, ma lo invito a leggere meglio l’articolo, perché il mio sforzo non è affatto quello di annullare i benefici delle nuove norme, ma di evitare l’inutilità dei controlli, proponendo una suddivisone tra sindaco unico nelle realtà imprenditoriali minori e collegio in quelle maggiori,  come suggerisce anche Giacomo Giuritano.
Nessuno nega che finora i controlli interni delle società abbiano messo in evidenza più di una criticità , se non proprio buchi neri, come quelli che richiama L. Scalzo, ma o li aboliamo, o cerchiamo di andare oltre gli anatemi individuando una strada per una equilibrata riforma. Il percorso da me indicato cerca di essere un contributo, per renderli semplici, indipendenti autonomi ed efficaci.
Un contributo discutibile finchè si vuole, ed anzi questo dibattito meriterà molti approfondimenti , ma che si fonda su due banalissimi presupposti, spesso dimenticati.
Il primo è che i controlli interni sono e continuano comunque ad essere utili e il secondo è che, se si condivide questo orientamento, bisogna anche accettare il fatto che costano.
Non è un caso che tutti i più recenti studi sulla governance societaria mettono in rilievo il loro ruolo centrale nella prevenzione e nel monitoraggio dei nuovi rischi emersi dopo la crisi finanziaria, ed anche i paesi anglosassoni, a proposito di quello che dice Ottavia, stanno rivedendo le loro posizioni sul sistema monistico che oggettivamente li indebolisce.
Infine,  per quanto riguarda la domanda sugli stakeholder che controllano le relazioni dei collegi sindacali delle piccole imprese,  sicuramente non sono molti, ma, a proposito di trasparenza, ve lo immaginate cosa sarebbero gli stessi bilanci senza nemmeno quelle tanto bistrattate relazioni?
La legge di stabilità ha modificato il sistema dei controlli interni delle società . Ora tutte le srl e le spa con ricavi o patrimonio netto inferiori a un milione di euro possono nominare un solo sindaco invece di un collegio sindacale. È sacrosanto liberare le imprese da oneri normativi che ne bloccano lo sviluppo. Ma un buon sistema di controllo significa aiutarne la maturazione verso assetti più efficienti e trasparenti. Proprio quello di cui le piccole e medie imprese avranno sempre più bisogno. Ed è illusorio fare affidamento sulle capacità di autocontrollo dei soci.
L’articolo 8 della manovra prevede la concessione di garanzie pubbliche per la raccolta delle banche. È una garanzia straordinaria perché limitata al tempo strettamente necessario. E con procedure di concessione che, come è giusto, garantiscono rapidità e riservatezza. Soprattutto, però, può essere un’occasione da non perdere per avviare le modifiche e le trasformazioni delle quali il nostro sistema bancario ha bisogno.
Ringrazio i lettori dei commenti e mi fa particolarmente piacere che provengano anche da chi ha diretta esperienza nel settore e da chi ha materialmente partecipato alla stesura della legge, a testimonianza dellÂ’importanza di un tema che, come  dicevo nell’articolo, meriterà senz’altro ulteriori riflessioni.
Il Parlamento ha approvato lo statuto d’impresa. Vi faceva riferimento anche la lettera di intenti inviata dal governo all’Europa. Contiene importanti principi, ma mira a tutelare soprattutto le piccole imprese. Il rischio di privilegiare la piccola dimensione è però quello di condannare il nostro sistema produttivo a una condizione di nanismo industriale che non crea i presupposti per una reale crescita dell’economia.
Grazie ai lettori per i commenti, sia perché mi consentono di specificare alcuni profili sacrificati dalla sintesi dell’articolo, sia perché offrono spunti per ulteriori approfondimenti.
Il primo aspetto importante: è evidente che le fondazioni devono innanzitutto guardare ai dividendi che ottengono dalle partecipazioni  bancarie, ma è inutile, in una prospettiva di medio lungo termine, farsi illusioni: non saranno più i succosi dividendi del passato, al contrario la prospettiva è decisamente magra e inviterei i lettori a non essere più realisti del re. Nel mio articolo  cito la “Carta delle Fondazioni” che l’ACRI intende, meritoriamente, elaborare. E’ la stessa ACRI a dire, testuali parole, “L’evoluzione del ruolo delle fondazioni richiede una programmazione puntuale nel medio lungo periodo, con la conseguente necessità di poter contare su flussi costanti di introiti derivanti dall’investimento dei patrimoni”. Se questo non significa aprire la strada ad una seria diversificazione degli investimenti, nella consapevolezza di non poter più fare affidamento nel bengodi dei dividendi bancari.. …..
La mia proposta prevede che l’insieme delle partecipazioni sia gestita da  intermediari specializzati che da un lato  possano “far massa” e quindi valorizzare maggiormente l’investimento, dall’altro introdurre un elemento di separazione tra le fondazioni e le banche (ad esempio provvedendo a nomine dove siano più forti le qualità professionali e di indipendenza degli amministratori). Un lettore sostiene, a ragione, che questo comunque non elimina del tutto l’intreccio e il rischio di conflitti di interesse, ma premesso che la soluzione perfetta non esiste,  sicuramente contribuisce ad attenuare queste criticità . E’ poi del tutto evidente, che queste soluzioni si possono realizzare solo sul piano volontario e dell’autoregolamentazione: nessuno le deve imporre, a mio parere è nell’interesse stesso delle fondazioni adottarle.
LÂ’altra obiezione significativa di molti lettori riguarda il ruolo delle fondazioni nel sostegno alle piccole banche locali in grado di favorire lo sviluppo dei territori. Nessuno nega questo ruolo ma la domanda è: siamo cosiÂ’ sicuri che una piccola impresa per crescere non abbia bisogno di servizi e strumenti che solo grandi intermediari sono in grado di offrire? Se continuiamo a commiserarci  (come il lettore che si rassegna al fatto che “la nostra realtà economica non permette megabanche”) daremo ragione, e mi scuso per lÂ’ autocitazione di un mio precedente articolo, al  Presidente francese Sarkozy, che nellÂ’ultimo incontro bilaterale ha candidamente dichiarato, a proposito della vicenda Parmalat, che Francia e Italia possono felicemente integrarsi perchè intanto noi abbiamo il 90 per cento di piccole imprese, mentre alle grandi ci pensano loro! Â
La tumultuosa estate dei mercati lascia sul campo molti feriti. Può però rappresentare una buona occasione per riforme che in tempi normali incontrerebbero molti ostacoli. Come nel caso delle fondazioni bancarie. Le risorse messe a disposizione dalle fondazioni per le comunità hanno giocato un importante ruolo integrativo se non sostitutivo nel welfare locale. Ed è un compito che sempre più saranno chiamate a svolgere. Conviene allora che continuino a mantenere l’intreccio, spesso assai costoso, con le banche?
È sicuramente importante che al centro del dibattito ritornino temi come le procedure per la quotazione o gli ostacoli alla crescita rappresentati dai costi di regole complesse, opache e spesso totalmente inutili. Senza però dimenticare che gli imprenditori italiani non hanno colto l’occasione offerta dalla nuova disciplina dei mercati finanziari e del diritto societario. Un ordinamento realmente funzionale alla crescita, dove tutti possano competere ad armi pari, è un ordinamento che deve avere il coraggio di disincentivare la piccola dimensione.
La nostalgia per il ritorno del capitalismo di Stato è oggi forte in Italia. Tanto da sfociare in un decreto che consente alla Cassa depositi e prestiti di assumere partecipazioni in società di rilevante interesse nazionale. L’attuale irresistibile desiderio di italianità delle imprese porta però alla riproposizione di un’Iri tutta particolare, perché le sue risorse derivano dalla raccolta postale. Forse, bisognerebbe provare a raccontare la realtà anche dalla parte di chi acquista i prodotti e utilizza i servizi.