Il primo ministro italiano Silvio Berlusconi ha posticipato dal 2005 al 2006 i tagli alle imposte sui redditi (Irpef) degli italiani, nonostante le promesse fatte durante la campagna elettorale del 2001. Secondo l’International Herald Tribune (www.iht.com) i motivi dietro la decisione del governo sono semplici: le finanze pubbliche non lasciano sufficienti margini di manovra ed è comunque mancato l’accordo tra i partiti della coalizione. Il quotidiano si sofferma soprattutto sullo stato precario dei conti pubblici italiani, saliti alla ribalta della cronaca internazionale nel mese di luglio, quando l’agenzia Standard & Poor’s aveva abbassato il proprio rating sul debito del Bel Paese: era la prima volta dall’introduzione della moneta unica nel 1999 che una nazione dell’area Euro riceveva un downgrading. Per Standard & Poor’s l’abbassamento del rating era dovuto all’eccessivo ricorso di Roma a misure una tantum, efficaci solo nel breve periodo, per mettere un po’ di ordine nel bilancio statale.Il quotidiano inglese Financial Times (www.ft.com), invece, sottolinea come la decisione di Berlusconi sia in linea con le raccomandazioni del Fondo monetario internazionale per il riequilibrio dei conti pubblici. La testata inglese riporta anche le dichiarazioni di Piero Fassino (“L’opposizione sostiene da un pezzo che il taglio delle tasse non è un’opzione possibile, visto lo stato disastroso del bilancio statale”) e i commenti positivi di Luca Cordero di Montezemolo sulla riduzione delle imposte societarie. Per il presidente di Confindustria, infatti, il governo ha mandato “un segnale che noi imprenditori apprezziamo molto”. Anche El Pais (www.elpais.es) si sofferma sulla posizione di Montezemolo, per il quale il problema più urgente del sistema Italia resta la scarsa competitività delle aziende. E’ un tema che, come riporta il quotidiano spagnolo, Berlusconi ha affrontato direttamente, dichiarando: “Avrei preferito fare il contrario, vale a dire ridurre le tasse sui redditi delle persone fisiche già dal 2005 e spostare al 2006 i cambiamenti nelle imposte societarie. Tuttavia, quello che poi è stato fatto sembra essere più utile a promuovere la competitività”.La testata francese Le Figaro (www.lefigaro.fr) torna sull’importanza della posizione del Fondo monetario internazionale, che, raccomandando a Roma un maggiore rigore di bilancio, avrebbe contribuito al ritardo nell’implementazione delle riduzioni fiscali promesse in campagna elettorale. Con il rinvio all’anno successivo, come riporta il quotidiano finanziario tedesco Handelsblatt (www.handelsblatt.com), i tagli alle tasse dei redditi delle persone fisiche si concretizzeranno solo nel gennaio del 2006, e cioè cinque mesi prima della fine dell’attuale legislatura.Ma la riforma del sistema fiscale non si trova solo nell’agenda di Berlusconi. Anche il presidente americano Bush, come scrive il Wall Street Journal (www.online.wsj.com), ha promesso novità a riguardo. Anzi, ha messo la riforma tra i punti fondamentali del programma del suo secondo mandato. Tuttavia, continua la testata della finanza Usa, molti economisti non condividono le scelte del presidente. Secondo un’inchiesta del giornale, infatti, per un terzo degli esperti d’economia d’oltre Atlantico la vera priorità d’affrontare è un’altra: il disavanzo del bilancio pubblico. Una percentuale minore, il 25%, condivide invece la decisione della Casa Bianca di mettere la revisione del sistema tributario in cima alla lista dei punti più importanti.
Autore: Giovanni Stringa
35, 36 o 40 ore a settimana? Maggiore flessibilità sul lavoro? L’argomento è di scottante attualità, tanto che il Financial Times vi ha dedicando l’intera pagina “Comment & Analysis” del numero di venerdì. Tutto è cominciato il mese scorso, quando la tedesca Siemens è riuscita a strappare ai sindacati un nuovo contratto, che ha allungato la settimana lavorativa da 35 a 40 ore. In cambio, l’azienda si è impegnata a non spostare all’estero alcuni livelli della produzione. Successivamente altre imprese, anche in Francia, hanno cominciato a considerare o a mettere già in pratica l’esempio di Siemens. Intanto le statistiche, continua il quotidiano inglese, sembrano dare ragione a chi, in Europa, propone di lavorare di più. Il “productivity gap” tra Stati Uniti e Vecchio Continente, infatti, è spiegato più dalla quantità (in ore) che dall’efficienza: il prodotto per lavoratore in Europa è solo il 70% di quanto realizzato oltre Atlantico, mentre il corrispondente prodotto per ora lavorata si attesta su un più accettabile 91% (in Francia, addirittura, è al 105%). Sono percentuali confermate dall’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, secondo cui “in quanto a Pil pro capite, i vantaggi degli Stati Uniti sull’Europa sono principalmente dovuti a differenze nel totale delle ore lavorate per persona, invece che ad un maggiore prodotto per singola ora lavorata”. Questa prima differenza, sottolinea l’Ocse, sta diventando un fattore importantissimo alla base dei diversi tassi di crescita tra le due sponde dell’Atlantico. Tornando in Germania, dove “tutto è cominciato”, il quotidiano Handelsblatt ripercorre tutti i casi aziendali che stanno sposando la settima lunga, con la benedizione della legge, che non impone il rispetto delle 35 ore. Dopo Siemens, le 40 ore hanno conquistato anche Thomas Cook (agenzie di viaggi) e Stihl (motoseghe). Inoltre, trattative in questo senso con i sindacati sono cominciate a Karstadt-Quelle (grandi magazzini). Dulcis in fundo, anche il nuovo accordo tra Daimler-Chrysler e sindacati prevede il ritorno alle 40 ore per i 20.000 dipendenti del ramo “ricerca e sviluppo”. Dal canto suo l’azienda, come ha riportato la Frankfurter Allgemeine Zeitung , ha garantito la sicurezza di migliaia di posti di lavoro e ha ridotto del 10% i compensi del management. Ma per Juergen Schrempp, numero uno della casa automobilistica, 5 ore in più non sempre sono la soluzione giusta. Piuttosto, è necessaria una maggiore dose di flessibilità in tutte le contrattazioni tra imprenditori e sindacati. Il presidente degli industriali tedeschi Ludwig Georg Braun, invece, insiste sulla validità universale dell’allungamento della settimana di lavoro. In un’intervista alla Sueddeutsche Zeitung , Braun ha sottolineato l’importanza dell’innovazione come fattore concorrenziale delle imprese tedesche. E per essere in grado di innovare bisogna lavorare tanto: 35 ore in sette giorni e 30 giorni di ferie all’anno sono troppo pochi per crescere e competere seriamente con l’estero. Dopo la Germania, l’onda della controriforma nell’orario di lavoro è arrivata anche in Francia. Prima Bosh e poi Doux (alimentari) e SEB (elettrodomestici) hanno rimesso in discussione l’opportunità delle 35 ore, che in questo paese sono garantite per legge. Secondo il quotidiano Le Monde , il dibattito nazionale è confuso e disordinato. Lanciata dal presidente Chirac e dal ministro dell’economia Sarkozy, la discussione sulla necessità di riforme manca ora di regole e obiettivi. Cittadini, lavoratori e operatori economici non riescono a capire quale indirizzo prenderà la questione, mentre alcune aziende agiscono in ordine sparso proclamando il proprio interesse, in sostanza, a non rispettare la legge delle 35 ore. Se quest’ultima deve essere riformata, tuttavia, dialogo e chiarezza sono fondamentali. Tutto il contrario di quello che sta succedendo, con colpi ad effetto di scoordinate iniziative imprenditoriali.
“L’Italia ha bisogno di un governo in grado di dare un calcio alle zuffe interne, per concentrarsi sulla riduzione del debito pubblico e sulla riforma di pensioni, sanità e mercato del lavoro. Ma, al momento, le probabilità che tutto questo accada sono molto basse”. Sono le parole del quotidiano economico inglese Financial Times, subito dopo il declassamento del debito italiano da parte di Standard & Poor’s. Il giornale rosa salmone non usa mezzi termini anche quando dà del “ridicolo” alle liti nell’alleanza di centro-destra tra chi vuole ridurre le imposte per 14 miliardi di euro e chi, invece, chiede che il fiume di sussidi che da Roma scende al Mezzogiorno continui senza interruzioni.
Per l’americano Wall Street Journal, il declassamento di Standard & Poor’s non poteva capitare in un momento peggiore, attribuendo maggiore risalto ai problemi di Berlusconi nel dare forma a una qualche politica economica e nel tenere unito e in piedi il governo. Inoltre, il downgrading è probabilmente più dannoso di un “early warning” da Bruxelles, perché Roma dovrà così pagare un onere maggiore per il debito, spingendo nuovamente verso l’alto il deficit. Quali, invece, le cause del declassamento del rating? Per Giovanni Zanni, economista di CSFB a Londra, “dietro la decisione di Standard’s & Poor’s, oltre alla crisi politica, c’è la mancanza di chiarezza nei conti pubblici italiani”. Ma non solo. A rincarare la dose ci pensa l’Economist, la bibbia dei settimanali economici mondiali: sono le tante, troppe misure una tantum ad aver spinto l’agenzia di rating verso il giudizio AA- (da AA) sul debito del Bel Paese. Intanto, continua l’Economist, i provvedimenti strutturali scarseggiano, il primo ministro lavora per dipanare la matassa dei propri problemi legali e le audaci promesse elettorali sembrano dimenticate. Con il risultato che oggi l’Italia è in gara con la Germania per il titolo di “malato d’Europa”.
Anche la stampa dell’America latina non ha mancato di riportare e commentare la notizia. La testata argentina Mercado, per esempio, ironizza sul giudizio AA-, che mette l’Italia, quarta economia dell’Unione Europea, sullo stesso piano di Slovenia, Cipro e Andorra. E ancora, il declassamento di Standard & Poor’s è il primo per un paese del G7 dall’aprile del 2002, quando il Giappone era passato da AA ad AA-. E’ un paragone non felice per Roma, dopo i tanti e prolungati problemi di Tokyo, alle prese per anni con stagnazione e deflazione. Tutto questo, secondo il quotidiano tedesco Handelsblatt, comporta una grossa perdita d’immagine per l’Italia, che, stando ai giudizi dell’agenzia di rating, è meno meritevole di paesi come il Portogallo. Restando in Germania, per la Sueddeutsche Zeitung il declassamento può aprire la porta a nuovi downgrading per altre capitali europee, tra cui la stessa Berlino.
Ma il problema, come evidenzia il francese Le Figaro, non è limitato al 2004. Anzi, la situazione potrebbe peggiorare nei prossimi due anni con un deficit al 4% del Pil, se i promessi tagli alle imposte saranno implementati senza ridurre anche la spesa pubblica.