La Buona scuola prevede che dopo aver vinto il concorso e prima di entrare in aula i futuri insegnanti seguano un percorso formativo di tre anni. Il ministro Bussetti vuole mantenere il concorso, ma eliminare la formazione. Ecco perché è un grave errore.
Autore: Giunio Luzzatto
Già ordinario alla Facoltà dei Scienze dell’Università di Genova, ha presieduto il Centro di Ateneo per la Ricerca Educativa e Didattica CARED, e ivi svolge tuttora attività di ricerca sui sistemi universitari, con specifica attenzione alle competenze dei laureati e ai loro sbocchi lavorativi. Ha presieduto il Nucleo di Valutazione dell’Università di Bologna e ha fatto parte di numerose Commissioni nazionali sulle tematiche educative, in particolare dei "Bologna Experts" italiani impegnati nell'attuazione del processo europeo di convergenza tra i sistemi universitari.
Nel disegno di legge sulla pubblica amministrazione è stato prima introdotto e poi ritirato un emendamento che riguardava l’opportunità di “pesare” il voto di laurea nei concorsi statali. Quel testo era confuso, ma il tema andrebbe ripreso, facendo leva sul concetto di valutazione relativa.
Non è possibile, per ragioni di spazio, rispondere individualmente alle numerose osservazioni. Raggruppo perciò per temi; per le medesime ragioni di spazio, sono costretto ad affermazioni argomentate molto sinteticamente e un po secche, ma spero chiare.
Desidero fare una premessa alle risposte specifiche. Capisco i sentimenti di molti degli interlocutori, che hanno insegnato, immagino con impegno, e si sentono ingiustamente accusati o comunque poco apprezzati. Ma io non ho accusato loro, bensì -basta rileggere il mio testo- un insieme di responsabilità politico-amministrative del passato che hanno determinato la situazione di cui essi stessi sono vittime; e ho sollevato il problema perché la proposta del Miur da me criticata costituisce non una soluzione, bensì la perpetuazione dei disastri nonché, per loro, la donazione di una etichetta che proprio questa scelta renderebbe pressoché inutile.
Vengo ora al merito.
Con leccezione di uno, quegli interventi che rivendicano la partecipazione alla procedura abilitativa senza vincoli numerici e perciò senza prove di accesso non rispondono alla mia obiezione di fondo: poiché il numero programmato corrisponde alle prospettive di futuro reclutamento, aumentare indiscriminatamente gli abilitati crea illusioni pericolose. Lintervento che fa eccezione afferma che va bene così, si faccia una marea di abilitati e poi le singole scuole sceglieranno chi piace loro; è proprio ciò che rischia di accadere, e non credo vi sia da esserne soddisfatti.
Sui riferimenti alla Direttiva europea non mi pronuncio; è un tema giuridicamente complicatissimo e controverso. Osservo solo che se essa fosse applicabile nei termini ora proposti si tratterebbe di interventi non una tantum ma permanenti; sostituiremmo per sempre a un sistema di formazione e scelta concorsuale le assunzioni occasionali ripetute. Non è compatibile con larticolo della Costituzione che stabilisce che ai pubblici uffici si accede per concorso.
Alcuni contributi introducono questioni diverse da quelle che ho sollevate.
Con riferimento a queste, condivido alcune opinioni:
– Nella scuola non deve esservi lassismo, ed è importante che anche dopo lassunzione il docente venga stimolato allaggiornamento e valutato.
– Nelle attività delle SSIS vi sono state, accanto a meriti, carenze; in particolare, alcuni docenti hanno riprodotto proprie lezioni su contenuti disciplinari anziché discutere le strategie didattiche. Non sempre vi è stato inoltre rigore nelle valutazioni.
Ritengo deplorevole, invece, la proposta di cancellare lidea stessa di una formazione allinsegnamento. Considerare sufficiente la laurea disciplinare, dopo la quale si dovrebbe andare direttamente in classe, significa che la didattica dovrebbe essere acquisita sulla pelle degli studenti (previo concorso, o anche senza); è la situazione italiana pre-1999, dalla quale si è faticosamente usciti cercando di uniformarsi, con decenni di ritardo, alla realtà di tutti i Paesi evoluti. Nessuno di noi andrebbe da un medico che, dotato di ottime conoscenze biologiche, non avesse mai visto un malato, e diamo perciò per scontato che occorrono le Scuole di Specializzazione cliniche; negare che occorra quella per linsegnamento significa negare il valore stesso della scuola.
Quanto ai contributi, non pochi, che vanno nella stessa direzione del mio intervento, alcuni forniscono utili motivazioni aggiuntive. Spesso, però, mostrano un atteggiamento rassegnato, di chi deplora, magari con molta veemenza, quanto accade intorno a noi, ma poi dice che non cè nulla da fare. Io spero invece, ostinatamente, che cambiare sia possibile, e nelle mie modeste possibilità cerco di contribuire un po’.
A quasi cinque anni dall’abolizione delle Ssis, le scuole di specializzazione per futuri insegnanti, parte finalmente il Tirocinio formativo attivo per il conseguimento dell’abilitazione. Ed è ben congegnato perché è a numero chiuso e prevede una selezione in più fasi. Solo che ora il ministro sembra voler aprire le porte del tirocinio a chi, seppure non abilitato, ha svolto supplenze per tre anni, senza dover sottostare ai test previsti per gli altri. Una scelta che spazzerebbe via ogni programmazione legata al turnover. E che penalizzerebbe i più giovani e i più bravi.
Dietro le proteste degli insegnanti precari ci sono due problematiche diverse. Quella di coloro che sono già abilitati e iscritti nelle graduatorie a esaurimento. E quella di chi invece aspira all’abilitazione. Il progetto del ministero non dà risposte né agli uni né agli altri. Perché non dice niente sui nuovi sistemi di reclutamento. E perché sulla formazione dei futuri docenti si è scelta una via opposta a quella seguita nel resto d’Europa. Quanto alla programmazione del fabbisogno di insegnanti, lo contraddice l’ammissione al tirocinio di soprannumerari.
La laurea è la condizione necessaria per partecipare ad alcuni concorsi nel pubblico impiego e per accedere agli albi delle professioni regolamentate. Oltre a stabilire alcuni livelli minimi di inquadramento nel settore privato. Ma la selezione è sempre determinata da un mix tra valutazione degli studi e prove specifiche, più o meno formalizzate. Abolire il valore legale del titolo di studio significa ampliare la discrezionalità. Con effetti che possono essere tutt’altro che positivi. Anche la competitività tra atenei si può raggiungere con altri strumenti.
Riportiamo opinioni diverse, già espresse su queste pagine.