L’aiuto pubblico allo sviluppo è uno dei campi in cui l’Italia ha perso più terreno rispetto agli altri paesi Ocse. Non solo l’ammontare totale delle risorse stanziate è stato decurtato nel corso degli anni, ma i tagli hanno colpito di più proprio quei paesi poveri dove l’aiuto è più necessario, favorendo quelli medio-ricchi che già beneficiano di un eccessivo afflusso di aiuti. Sarà sufficiente la novità, positiva, di un ministro dedicato per cambiare questo stato di cose? Necessario riformare la legge, anche per risolvere i possibili conflitti con il ministero degli Esteri.
Autore: Iacopo Viciani Pagina 1 di 2
In tempi di crisi economica, aumenta la pressione ad usare efficacemente la spesa pubblica, inclusi gli aiuti pubblici allo sviluppo internazionale. Si punta sopratutto sulla massima trasparenza così da ridurre sprechi, corruzione e migliorare la programmazione. Si tratta di una sfida anche per le Ong. Ma comunicare e valutare la qualità degli interventi finanziati con contributi privati è un tema su cui c’è molto da costruire come dimostrano i risultati di una ricerca sull’efficacia delle Ong italiane.
Dal vertice del G8 di Deauville uscirà probabilmente un piano di sostegno alla primavera araba. Ma le promesse saranno mantenute? Probabilmente non per intero, a giudicare da quanto successo con gli impegni presi dal G8 sugli aiuti allo sviluppo per l’Africa. Tuttavia, le risorse destinate alla regione aumenteranno comunque, grazie soprattutto a Regno Unito e Stati Uniti. L’Italia vi contribuirà molto poco sia in fase di stanziamento che di erogazione effettiva, rendendo così “invisibile” la sua presenza in Nord Africa.
L’Italia stanzia sempre meno risorse per gli aiuti allo sviluppo. Anzi, gli unici che restano sono quelli obbligatori determinati dall’Unione Europea e da questa gestiti. Non è una scelta lungimirante per le nostre ambizioni di media potenza perché azzera ogni possibilità per il nostro paese di adottare politiche bilaterali incisive. Oltretutto, non offre neanche evidenti benefici economici. Diverso il giudizio se si guarda alla vicenda dal punto di vista dei paesi riceventi perché l’Europa è un donatore migliore di noi per tutte le dimensioni della qualità dell’aiuto.
L’articolo ha il merito di presentare quello che dal 1993 l’analisi econometrica evidenzia sulla relazione aiuti, ma anche flussi commerciali, povertà e migrazioni (Faini Venturini, 1993).
In sintesi, se gli aiuti sono efficaci e aumentano il redito procapite allora finché questo reddito non raggiunge una certa soglia (stimata intorno ai 7000 dollari PPP- circa il reddito di Sud Africa, Tailandia, fonte: Berthelemy, 2006) i flussi emigratori dal paese continuano ad aumentare. Superato questo reddito-soglia, la continua crescita aumenta gli incentivi economici a restare. L’aumento dei flussi sarebbe perciò un effetto transitorio legato alla convergenza delle economie, tanto più breve quanto maggiore fosse la crescita del Paese demigrazione. Un’analisi recente (Berthelemy, 2006) conclude che i flussi di immigrati aumentano in un paese che aumenti i suoi aiuti bilaterali, sopratutto per quanto riguarda la forza lavoro qualificata.
E’ importante precisare che il rapporto aiuto/migrazione forse nasconde una causa più importante: il Pil procapite e la crescita di output del paese di immigrazione. Secondo la letteratura economica sulle migrazioni, questi sono le maggiori determinanti nella scelta della meta d’immigrazione ma sono anche determinanti cruciali dei livelli di aiuto. Ossia, ad esempio, il Pil procapite alto della Svezia fa sì che questa sia meta ambita di immigrazione e che il livello di aiuti svedesi sia alto. Stabilire la causalità tra gli aiuti svedesi e l’emigrazione verso la Svezia può essere azzardato.
Anche il Pil procapite del Paese di emigrazione è tra le maggiori determinanti dell’emigrazione, in termini assoluti. Affermare che gli aiuti hanno causato questa crescita di reddito procapite, significa riconoscere che l’aiuto funziona. Purtroppo nessuno studio econometrico ha dimostrato una volta per tutte in maniera significativa questa correlazione tra aiuto e aumento del reddito/ crescita.
La crescita di reddito procapite in un Paese in via di sviluppo, o più semplicemente la sua crescita, è legata anche ad altri flussi finanziari e agli scambi commerciali. I Paesi Ocse potrebbero solo avere selezionato di investire maggiormente per l’aiuto in quei paesi con già migliori performance economiche.
Infine sulla questione del brain drain, un documento Ocse del febbraio 2010 analizza il caso delle emigrazioni del personale infermieristico dai Paesi in via di sviluppo concludendo che non è l’emigrazione la causa della mancanza cronica di personale sanitario. Inoltre una studio della Banca Mondiale del 2009 ha messo in evidenza che in molto Paesi in via di sviluppo la possibilità di emigrare se qualificati in una certa professione costituisce un significativo incentivo per formarsi. Le Filippine sono il Paese che invia il maggior numero di infermiere all’estero ma non soffre di una carenza di personale infermieristico. In molti casi l’emigrazione è solo temporanea i sanitari con un rientro dei professionisti qualificati attorno ai 30 anni (World Bank, Microdeterminants of Migration, 2009).
Molto interessanti e appropriati gli spunti di Iacopo Viciani. Esiste certamente una relazione tra aiuti erogati e Pil del Paese donatore (che farebbe, nell’esempio citato, apparire la Svezia come forte donatore, in virtù del suo elevato Pil). Da un punto di vista puramente tecnico, nelle nostre analisi, abbiamo tenuto conto di questo problema esprimendo sempre l’ammontare di aiuti in percentuale del Pil del Paese donatore, in modo da “pesare” il volume di aiuti erogati per la dimensione economica del Paese. Allo stesso modo, studiando i flussi migratori in uscita dai Paesi africani, abbiamo sempre pesato gli aiuti ricevuti dal singolo Paese beneficiario per il suo Pil.
Abbiamo anche cercato di trattare il volume di aiuti ricevuti come una variabile endogena (in funzione di alcune caratteristiche economiche del Paese beneficiario) proprio per tener conto della possibile “selezione” (da parte dei Paesi Ocse) dei Paesi verso cui dirigere più aiuti. Al di là di analisi aggregate, stiamo invece studiando quanto e come gli aiuti si traducano effettivamente in un aumento di reddito, attraverso l’uso di dati che consentano di analizzare le relazioni economiche bilaterali (e i loro effetti socio-economici) tra Paese donatore e Paese beneficiario.
Sulla questione cruciale del brain drain, concordiamo con Viciani: non sempre i Paesi esportatori di capitale umano soffrono di carenza di capitale umano. Questo punto esula, per il momento, dalle nostre analisi; tuttavia, un spunto interessante potrebbe essere questo: se da una parte i flussi emigratori privano in una certa misura il Paese d’origine di forza lavoro, è anche vero (come afferma Viciani) che questo fenomeno può associarsi ad un incentivo all’ulteriore formazione da parte di chi resta. De Haas, in un lavoro del 2004, parla di brain gain: cioè del contro-flusso di rimesse, investimenti, conoscenza e capitale sociale che avvantaggia il Paese fonte di emigrazione, proprio in virtù di quanti, precedentemente emigrati, ritornano in patria o, attraverso reti economiche internazionali, partecipano dall’estero allo sviluppo del proprio Paese. Va detto che tale dinamica, però, non ha sempre luogo, e molti Paesi sub-sahariani tendono ad impoverirsi, in senso economico e non, quando all’emigrazione non segue nessun contro-flusso di capitale e conoscenza.
In tempi di crisi riprende vigore la scuola di pensiero contraria agli aiuti allo sviluppo, che produrrebbero fisiologicamente corruzione e dipendenza. I critici non considerano però che per missione l’aiuto interviene in aree dove è più difficile ottenere risultati. Comunque, proprio per rispondere alla crescente pressione dell’opinione pubblica globale sui risultati concreti che l’aiuto ha conseguito, i paesi donatori più impegnati hanno creato unità di valutazione sistematica dell’impatto degli interventi. I ritardi italiani.
Il Comitato di aiuto dello Ocse ha indicato al governo sedici raccomandazioni per rilanciare la cooperazione italiana. Sono fondamentalmente le stesse di sei anni fa, perché nel frattempo niente si è mosso per modernizzare il sistema e rendere più efficaci gli aiuti italiani. Inadeguata la normativa e scarsi gli stanziamenti di risorse. Però, il meccanismo del Dac non prevede sanzioni in caso di inadempienza e non indica priorità fra le misure da adottare. Meglio farebbe a concentrarsi sulle questioni tecniche, abbandonando le ambizioni politiche.
Nonostante le ammissioni di ritardi in termini di aiuti internazionali e le rassicurazioni del Presidente del Consiglio a far fronte agli impegni, la Finanziaria 2010 lascia inalterato il quadro tracciato nel 2009: risorse insufficienti per onorare gli impegni europei ed internazionali sottoscritti, incluso il rifinanziamento delle missioni militari. In attesa che sia fatta chiarezza sul progetto della detax, l’Italia continua a negare il suo contributo alla ripresa globale, ignorando gli appelli di Banca Mondiale e Fondo Monetario.
I PROVVEDIMENTI
Nell’area della cooperazione internazionale e degli aiuti allo sviluppo, il primo anno del Governo Berlusconi è stato all’insegna della discontinuità con il precedente governo, soprattutto per quel che riguarda la priorità data alla cooperazione nelle politiche governative. Mentre il Governo Prodi era riuscito ad aumentare le risorse disponibili per gli aiuti allo sviluppo gestite dal Ministero degli Affari Esteri del 86%, ed a stanziare un miliardo di Euro del "tesoretto" di 13 miliardi per saldare debiti pregressi ad organizzazioni internazionali, il Governo Berlusconi ha ridotto significativamente gli stanziamenti. Un primo taglio sostanziale è arrivato prima dell’estate 2008, e quindi prima dello scoppio della crisi finanziaria globale. La Finanziaria 2009 ha poi confermato la riduzione della voce di bilancio relativa agli aiuti (-56% per quelli gestiti dal Ministero degli Affari Esteri, nessuna disponibilità finanziaria per il pagamento delle rate verso le banche multilaterali di sviluppo). Inoltre, le riforme istituzionali all’organizzazione e finanziamento delle attività di cooperazione allo sviluppo proposte dal governo precendente, sulle quali la scorsa legislatura stava discutendo un testo, sono state archiviate senza nuove iniziative governative. Infine, la nomina di un Vice-Ministro con delega alla cooperazione allo sviluppo nel governo precedente, segnale di priorità politica, non è stata mantenuta.
Vi sono comunque da notare alcune iniziative interessanti e sicuramente necessarie, stimolate però più dall’attivismo dell’amministrazione che non quello della politica. Per cominciare, il Ministero sta formulando la bozza di un piano d’azione sull’efficacia degli aiuti, che sta coinvolgendo diversi attori e che ha lo scopo di rispondere all’agenda internazionale sull’efficacia degli aiuti contenuta nella Dichiarazione di Parigi. Sulla stessa linea, il Governo ha chiesto una delega parlamentare per semplificare le procedure per gli interventi di cooperazione d’emergenza e consentire la gestione dei fondi italiani da parte di altri donatori. Sfortunatamente, il provvedimento mira a favorire l’avvio e la gestione di iniziative di cooperazione anche nei paesi dove l’Italia abbia stipulato accordi di rimpatrio detentivo o controllo degli immigrati, trasformando la politica di cooperazione allo sviluppo in semplice strumento di politica interna e di sicurezza, in netta opposizione alle finalità della legislazione vigente.
GLI EFFETTI
L’effetto immediato della riduzione dei fondi disponibili per la cooperazione allo sviluppo non è soltanto quello di ridimensionare la capacità del governo italiano di rispondere alle necessità impellenti di lotta alla povertà nei paesi in via di sviluppo, ma anche quello di sottolineare il mancato raggiungimento degli impegni presi a livello internazionale in un momento in cui l’aiuto viene considerato come strumento di politica economica internazionale per la ripresa globale. Malgrado la promessa più volte ripetuta di portare allo 0,51% il rapporto tra aiuti e PIL entro il 2010, per il 2009 i dati del Ministero degli Affari Esteri e le stime della Commissione Europea indicano che l’aiuto italiano si fermerà tra lo 0,13 e lo 0,16% del PIL, una flessione del 27%-40% rispetto al 2008. Sulla semplificazione delle procedure e sul piano d’azione sull’efficacia, gli effetti si potranno vedere soltanto dopo che i provvedimenti saranno di fatto finalizzati e varati, e dipenderanno dalla volontà politica di metterli in pratica ed di non renderli meri esercizi di facciata (nel 2009, la cooperazione italiana sarà nuovamente oggetto di una peer review dell’OCSE).
LE OCCASIONI MANCATE
Le riforme istituzionali per modernizzare l’apparato organizzativo della cooperazione allo sviluppo italiana sono sicuramente una delle aree prioritarie di intervento che il Governo Berlusconi ha deciso di ignorare durante il suo primo anno di vita. Più grave è che il 2009, anno della presidenza italiana del G8, rischi di essere sprecato. Una preparazione più attempata e profonda sui temi legati allo sviluppo per il G8 avrebbe potuto fornire lo spunto per iniziative diverse legate sia alla quantità che alla qualità degli aiuti italiani. La mancata nomina di un Vice-Ministro con delega alla cooperazione allo sviluppo da parte del Ministro Frattini era stata presentata come un modo di dare alla cooperazione massima centralità negli indirizzi del suo dicastero, ma nei fatti il risultato è stato una sua marginalizzazione generalizzata.
La Banca Mondiale chiede ai paesi industrializzati di destinare lo 0,7 per cento dei pacchetti anticrisi per interventi a sostegno di infrastrutture e welfare nei paesi in via di sviluppo più esposti. E alcune nazioni aumentano di conseguenza gli stanziamenti. Non l’Italia, dove la progressiva riduzione delle risorse rischia di togliere alla struttura di cooperazione qualsiasi incentivo a riformarsi. Soprattutto, manca un impegno politico esplicito e coerente. Sugli aiuti allo sviluppo, l’Italia agisce come una economia piccola o in transizione, non da presidente del G8.