La novità più importante della riforma del pubblico impiego è l’introduzione della “progressione verticale” per l’accesso alla qualifica dirigenziale. Ma una procedura guidata e riservata al personale già dipendente si presta a condizionamenti.
Autore: Luigi Oliveri Pagina 1 di 6
E' Dirigente degli Ambiti di Verona e Vicenza dell'ente Veneto Lavoro. Collabora dal 1997 al quotidiano economico "Italia Oggi" per gli approfondimenti giuridici delle questioni attinenti agli enti locali. Collabora con il Centro Studi e Ricerche sulle Autonomie Locali di Savona e con La Gazzetta degli enti locali della Maggioli editore.
La cassa integrazione permette di dare sostegno economico ai dipendenti adibiti ad attività sospese o ridotte a causa di una crisi temporanea, come il lockdown. Per applicarla ai dipendenti pubblici, si può estendere l’istituto della “disponibilità”.
In tempo di pandemia, anche i servizi per l’impiego si ritrovano a fare i conti con lo smart working. Ma l’Italia continua a pagare un gap organizzativo, di risorse e di personale con gli altri paesi europei. A partire dallo scoglio del digital divide.
La “legge concretezza” ha il merito di intervenire su pochi punti nodali dell’organizzazione delle pubbliche amministrazioni. Il problema è la difficile applicabilità delle disposizioni. Insomma, sembra prevalere l’effetto mediatico più che la concretezza.
La manovra di bilancio destina poche risorse al grande piano di rilancio della pubblica amministrazione annunciato dal governo Conte. Peraltro, il progetto si concentra sulle assunzioni e non prevede investimenti in formazione, programmazione e valutazione.
Per i lavoratori pubblici, la tutela contro i licenziamenti illegittimi non discende più dall’articolo 18, ma da una norma speciale. Così però si allarga la distanza con il lavoro privato. E si contraddice la stretta contro i “furbetti del cartellino”.
Assumere 500 mila nuovi dipendenti pubblici in quattro anni, per compensare i pensionamenti, rischia di essere poco produttivo. Prima occorrerebbe avere la cognizione precisa di quali siano i fabbisogni, anche alla luce della rivoluzione digitale.
Alla fine, la riforma Madia si rivela più una revisione della legge Brunetta che un passo verso una Pa più organizzata ed efficiente. Gli elementi di regolazione formale prevalgono sulle modalità operative. E restano tutte le contraddizioni dell’ordinamento del lavoro pubblico “privatizzato”.
La riforma della pubblica amministrazione resta al centro delle priorità del governo. Spetterà al riconfermato ministro Madia portarne a termine l’attuazione, un compito più semplice se si accoglieranno suggerimenti e consigli, anche per correggere qualche difetto.
La Consulta ha bloccato le parti della legge Madia che prevedono solo un parere non vincolante delle regioni su materie a potestà concorrente. Tutto parte dalla delega scritta male e dal non aver cercato correttivi prima della sentenza. Il problema è antico e la nuova Costituzione non l’affronta.