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Autore: Massimiliano Bratti

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Professore Ordinario di Economia Politica presso il Dipartimento di Economia Management e Metodi Quantitativi (DEMM) dell’Università degli Studi di Milano. Si occupa prevalentemente di ricerca empirica su temi di economia del lavoro, economia dell’istruzione, economia della popolazione ed economia sanitaria, con particolare riguardo alla valutazione delle politiche. Nel 2016-2018 ha svolto funzioni di Grant Holder presso il Competence Centre on Microeconomic Evaluation (CC-ME) della Commissione Europea fornendo supporto alla valutazione delle politiche pubbliche. E’ attualmente research fellow dei network Institute of Labor Economics (IZA), Global Labor Organization (GLO) e Centro Studi Luca d’Agliano (LdA). Ha ottenuto un Ph.D. in Economics all'Università degli Studi di Ancona e un Ph.D. in Economics alla University of Warwick.

Alla scuola di qualità non bastano le risorse

Le variabili solitamente utilizzate nella letteratura economica per approssimare le risorse investite nella scuola sono la spesa per studente, il rapporto studenti/insegnanti e la numerosità delle classi. Il loro ruolo nell’influenzare il rendimento degli studenti è oggetto di aspre controversie fin dal 1966, quando negli Usa è stato elaborato il rapporto Coleman per spiegare i peggiori rendimenti scolastici che caratterizzavano alcune minoranze. Da allora, si sono susseguiti centinaia di contributi che, basandosi su metodologie non sperimentali, sono arrivati a conclusioni molto diverse tra loro. Per questo motivo, alcuni autori hanno scritto rassegne che avevano l’obiettivo di sintetizzare l’imponente mole di lavori disponibili. Tuttavia, anche le rassegne hanno raggiunto conclusioni opposte, in base al modo utilizzato per sintetizzare i contributi esistenti. Tutto ciò la dice lunga su quanto controverso sia il ruolo delle risorse.

Risorse e risultati

Ci sono anche ragioni teoriche che possono spiegare il fatto che non si trovi una relazione robusta tra risorse e risultati. Prendiamo la numerosità delle classi, ad esempio: una relazione negativa tra dimensioni delle classi e performance degli studenti potrebbe essere mascherata dal fatto che l’allocazione degli studenti in classi grandi o piccole non è casuale. Se gli studenti "peggiori" risultano concentrati con maggiore probabilità in classi di dimensioni ridotte, quelle più numerose possono anche risultare migliori. Recentemente, alcuni studi hanno fornito evidenza sperimentale sull’argomento e sembra esistere un effetto positivo, sebbene debole. Nel Tennessee l’esperimento Star ha assegnato in modo casuale una coorte di studenti, e i relativi insegnanti, a classi di diverse dimensioni: i risultati in test standardizzati sono migliorati di circa il 4 per cento durante il primo anno in cui gli studenti sono inseriti in classi più piccole, e dell’1 per cento in ciascun anno successivo. (1)
Pur in presenza di voci a volte molto discordanti, il dibattito in letteratura avviene in un ambito delimitato da alcuni punti fermi:
1) Un meccanismo automatico che leghi maggiori risorse investite nella scuola a migliori rendimenti degli studenti è tutt’altro che ovvio.
2) Anche gli autori che si mostrano più scettici sul ruolo delle risorse scolastiche non si spingono ad affermare che investire nella scuola sia inutile.

Il caso Italia

Il primo punto trova in Italia una immediata conferma. Come ben documentato nel Quaderno bianco sulla scuola (parte I, par. 4.2), l’Italia spende per l’istruzione più della media dei paesi Ocse. Particolarmente elevata risulta la spesa per il personale, in virtù dell’alto rapporto insegnanti/studenti. Ciò è dovuto, da un lato, al maggior impegno orario degli studenti, particolarmente nella scuola primaria e in misura minore nella scuola secondaria inferiore. Dall’altro, alla maggiore incidenza di alcune tipologie di insegnanti: di sostegno, di religione, e fuori ruolo. Anche al netto di queste figure, tuttavia, il rapporto è di 9,1 insegnanti per 100 studenti in Italia, contro una media di 7,5 nei paesi Ocse. Eppure, i risultati che emergono da indagini standardizzate internazionali, come ad esempio Pisa, pongono le competenze degli studenti italiani sistematicamente sotto la media. Anche all’interno del nostro paese non emerge una correlazione tra quantità di risorse investite, distribuite abbastanza uniformemente a livello territoriale, e risultati degli studenti, che mostrano un forte svantaggio delle regioni centro-meridionali. Inoltre, se la quota di spesa in conto capitale risulta correlata positivamente con le competenze degli studenti, non lo è altrettanto la spesa per insegnanti, mentre quella per altro personale e consumi intermedi mostra addirittura una correlazione negativa. (2)
L’assenza di sistematiche correlazioni positive tra quantità di risorse investite e risultati non esclude che esistano altri effetti sulle competenze degli studenti che le variabili elencate sopra non consentono di cogliere. E qui veniamo al secondo punto. Le differenze tra scuole potrebbero essere in parte spiegate da determinanti di tipo istituzionale anziché dall’ammontare delle risorse investite. O da altri fattori che influenzano la qualità della scuola, come il livello di preparazione e di motivazione degli insegnanti. La letteratura evidenzia fra questi la centralizzazione degli esami, il livello di autonomia scolastica, il livello di autonomia didattica degli insegnanti, l’esistenza di valutazioni da parte degli studenti e il livello di concorrenza da parte di scuole private.
In parole povere, la questione non è solo quanto spendere per la scuola, ma soprattutto come. E visto che in Italia la quantità di risorse investite non è inferiore a quella degli altri paesi sviluppati mentre sono inferiori i risultati ottenuti, è obbligatorio ripensare al modo in cui le risorse sono spese.
A proposito del decentramento delle responsabilità e delle competenze nel governo della scuola intrapreso in Italia dagli anni Novanta, sempre nel Quaderno Bianco (pag. 32) si legge che:
"È mancata l’assegnazione alla scuola di autonomia economico-finanziaria, ma anche la strumentazione per monitorarla; e, ancora, l’attribuzione alle scuole di poteri effettivi che consentano a ognuna di esse di attuare gli interventi necessari al miglioramento dei propri risultati".
Si tratta di una descrizione coincisa ed efficace di come una qualunque riforma sia destinata a rimanere incompiuta, finché al decentramento non si affianchi l’attribuzione di poteri effettivi e responsabilità in capo a chi è chiamato a gestire la fornitura del servizio. Se a questo aggiungiamo la già dimostrata avversione dei principali attori del sistema scolastico, ovvero gli insegnanti, alla loro valutazione e incentivazione su base meritocratica, risulta abbastanza facile prevedere che eventuali risorse addizionali da destinare alla scuola non sortiranno effetti di rilievo sulle competenze degli studenti.

(1) Krueger, A.B. (1999). "Experimental Estimates of Education Production Functions" Quarterly Journal of Economics 114(2): 497-532.
(2) Bratti, M., Checchi, D., Filippin, A. (2007) "Territorial Differences in Italian Students’ Mathematical Competencies: Evidence from Pisa 2003", IZA Discussion Paper No. 2603 (February) – Bonn: IZA.

La mobilità sociale resta al palo

I dati mostrano che la cosiddetta riforma del “3+2” ha avuto un effetto di “democratizzazione” dell’entrata all’università, ma non dell’uscita. Nelle facoltà sono aumentati del 9 per cento gli iscritti i cui genitori non hanno una laurea, tuttavia non è cresciuto il numero di laureati che proviene da tali famiglie. Sale infatti il tasso di abbandono. Passato per gli studenti con padre e madre meno istruiti dal 10,5 del 1998 al 12,3 del 2001. E se non si riduce il differenziale nei tassi di abbandono, non può esserci crescita della mobilità sociale.

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