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Autore: Michele Ruta

I LIBRI E LE IDEE

Nell’ultimo mese in molti su questo sito ci hanno offerto dei bei ricordi personali relativi all’azione di Tommaso Padoa-Schioppa nelle varie istituzioni in cui ha operato. Io vorrei, invece, dare una prospettiva diversa, ricordando dei contenuti dei suoi scritti che mi hanno colpito. Si tratta in particolare di tre interconnesse proposizioni su integrazione economica e politica che compaiono ripetutamente, come a formare una specie di leitmotiv, nei vari libri ed articoli pubblicati da Padoa-Schioppa (molti dei quali sono disponibili sul suo sito personale www.tommasopadoaschioppa.eu).

  • Il mercato ha bisogno di istituzioni non di mercato per il suo buon funzionamento. Come già intuito da Adam Smith, il mercato non è soltanto un insieme di comportamenti individuali (che ne sono, in effetti, il risultato), ma una realtà giuridico-istituzionale, sociale e culturale. In particolare, il mercato richiede una struttura istituzionale di tipo statuale, cioè la capacità legislativa, esecutiva e giudiziaria che permetta il concretarsi delle sue libertà fondamentali. Tra il mercato e la rule of law esiste quindi una necessaria corrispondenza.
  • Integrazione economica ed integrazione politica sono processi complementari. Quando più paesi decidono di perseguire l’obiettivo di un mercato comune (cioè di stabilire tra essi la libera circolazione di beni, servizi, capitali e persone), si rendono allora necessari quegli stessi istituti senza i quali l’economia non funzionerebbe neppure all’interno di un paese. In altri termini, lo sviluppo del mercato comune deve procedere in parallelo con l’instaurazione degli elementi statuali che erano in precedenza solo interni agli Stati nazionali. Ciò pone il problema della corretta struttura istituzionale di uno Stato composto da più nazioni.
  • L’integrazione politica deve essere articolata secondo i principi del federalismo. Una struttura politica basata su Stati nazionali a sovranità illimitata non può garantire il governo di un mercato comune perché è incapace di decidere e far eseguire la legislazione comune ad esso necessaria. In un sistema federale, gli Stati nazionali delegano attraverso un patto (foedus) ad un livello di governo sovranazionale (globale o regionale) le questioni di comune interesse a cui individualmente non sono in grado di provvedere. I membri della federazione rimangono competenti per tutte le aree di governo non esplicitamente incluse nel patto.

Nel ricordare queste idee vorrei solo aggiungere una breve riflessione sul perché penso che valga la pena continuare a tenerle a mente. Per quanto in astratto possano essere condivise da molti, queste tre proposizioni rientrano solo in parte nel bagaglio culturale dell’economista. Ciò si riflette sia nella pratica del funzionamento delle istituzioni internazionali che nel laboratorio dell’analisi economica. Fondo Monetario, Banca Mondiale, WTO, G-20 sono istituzioni costruite sul presupposto che i soggetti della cooperazione siano gli Stati nazionali. In questi contesti, difficilmente si accetta il principio della sovranazionalità, anche quando esso sarebbe indispensabile per dare concreta applicazione a regole comuni. Nel laboratorio dell’economia internazionale, l’unità di analisi è lo Stato nazionale, non altra. Salvo rare eccezioni (in particolare, la teoria delle aree monetrie ottimali e i principi del federalismo fiscale), l’idea che la politica economica sia prerogativa dei governi nazionali – che possono scegliere di coordinarsi o meno- è un assunto comune raramente messo in discussione.
In una lezione tenuta all’Istituto Universtario Europeo nel 2005, ricordo che Padoa-Schioppa affrontò questo punto con una efficace provocazione. Parafrasando una frase di Keynes (un po’ spocchiosa e, forse per questo, spesso amata da chi studia economia), disse che non c’è ragione per cui gli economisti debbano essere schiavi di una visione politica defunta: il dogma (Westfaliano) della sovranità illimitata degli Stati nazionali. L’economista accademico deve riflettere sui mutamenti che è necessario apportare all’assetto istituzionale esistente, ed il politico economico deve operare affinché questi mutamenti si compiano. Una bella sfida –mi pare- per chi sceglie di operare nel campo dell’economia internazionale.
Il 2010 che si è appena chiuso non è stato un anno facile per l’integrazione europea e per il progresso della governance mondiale in senso sovranazionale. La crisi economica, in parte essa stessa frutto dell’incoerenza tra la crescente interdipendenza economica e un ordine politico frammentato, ha avuto come reazione immediata il riemergere di atteggiamenti egoistici. Tuttavia, come altri hanno ricordato, Tommaso Padoa-Schioppa vedeva nella presente situazione l’opportunità per introdurre quegli elementi di riforma necessari a far muovere in avanti la storia. Forse perché sentiva –come scrisse molti anni fa Altiero Spinelli – che la forza di una idea, prima ancora che dal suo successo finale, è dimostrato dalla capacità di risorgere dalle proprie sconfitte.

QUANDO L’IMMIGRAZIONE E’ GOVERNATA DAL PREGIUDIZIO *

Una politica restrittiva in tema di immigrazione, come quella adottata dal nostro governo, certamente riduce il numero dei lavoratori stranieri presenti in un paese, ma ha anche l’effetto involontario di allontanare di più gli immigrati qualificati rispetto a quelli meno qualificati. Si resta così intrappolati in una spirale di forti restrizioni e “cattiva” immigrazione. E di pregiudizi che si autoalimentano. Per l’Italia, la soluzione non è inasprire indiscriminatamente le norme sull’immigrazione, ma ripensarle coerentemente con le necessità del paese.

PER L’EUROPA UN PRESIDENTE ELETTO DAI CITTADINI

L’Unione Europea è il laboratorio più avanzato nell’esercizio della democrazia a livello sopranazionale, ma è percepita come poco democratica dai suoi cittadini. Per rilanciarne l’azione è necessario aumentare la partecipazione dell’elettorato nel processo decisionale. L’elezione diretta del nuovo presidente della Commissione avrebbe molti vantaggi, compreso quello di concentrare il dibattito elettorale sui temi europei e non sull’operato dei governo nazionali. E non richiederebbe cambiamenti formali dell’attuale architettura dell’Unione.

Fusioni e campioni

Campioni nazionali o campioni europei? Nessuno dei due. I governi nazionali rispondono al proprio elettorato e possono essere motivati da considerazioni non economiche nel loro appoggio alle concentrazioni di imprese, anche se non corrispondono all’interesse generale. Invece, l’Unione Europea deve avallare solo le fusioni per le quali si hanno guadagni di efficienza che compensano l’aumento di potere di mercato del nuovo soggetto. E bloccare tutte le altre. Il ruolo della Commissione nel promuovere un sistema industriale competitivo è essenziale.

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