1. Le rigidità presenti nel mercato del lavoro determinano inefficienze nell’allocazione dei fattori della produzione e, in ultima analisi, livelli occupazionali più bassi. Inoltre, l’adozione di basi salariali uniformi, in presenza di strutture dei costi difformi, oltre ad essere economicamente inefficiente, favorisce il consolidamento della grande impresa ed esclude dal mercato le nuove imprese o quelle minori.

2. Se tutto questo è vero, un assetto contrattuale efficiente per qualsiasi mercato del lavoro deve necessariamente evitare rigidità non strutturalmente indispensabili al funzionamento del sistema, al fine di favorire la diffusione di relazioni industriali appropriate e calate su ciascuna realtà produttiva, che hanno evidenziato la correlazione esistente tra grado di centralizzazione della contrattazione salariale e performance occupazionali, individuando nelle forme estreme (alta centralizzazione, bassa centralizzazione) gli assetti in grado di massimizzare il livello di occupazione.

3. Se, infatti, le rigidità non adattive impediscono l’allocazione ottimale dei fattori della produzione, e livelli intermedi o livelli sovrapposti di centralizzazione della contrattazione salariale determinano tassi di disoccupazione maggiori, l’assetto ottimale potrebbe essere quello caratterizzato da una flessibilità sufficiente a favorire la spontanea adozione tra le parti del livello contrattuale ritenuto più appropriato per ogni singolo settore. Chiaramente, in assenza di una norma che imponga alle parti un determinato livello di centralizzazione, per gli assunti precedenti, nessuno si indirizzerà su una centralizzazione media di sottoccupazione ed inefficiente allocazione delle risorse, o se lo farà, ne subirà gli svantaggi modificando, nel futuro, il proprio comportamento.

4.    In altre parole, la riduzione delle rigidità al livello minimo necessario al funzionamento di un particolare mercato quale quello del lavoro, lungi dal ridurre la dialettica tra le parli, potrebbe, invece, incrementarla fino a giungere a favorire una sorta di "shopping contrattuale" con cadenza biennale o triennale, dove il primo passo negoziale (necessariamente nazionale) dovrebbe essere quello di accordarsi sull’unico livello ottimale di contrattazione (per un determinato periodo). In questo modo, in alcune realtà produttive potrà essere definito un livello contrattuale nazionale (alta centralizzazione), in altre un contratto aziendale (bassa centralizzazione). Chiaramente dovrà essere eliminata qualsiasi sovrapposizione tra livelli attraverso una sorta di gerarchia funzionale della prassi negoziale, lasciando comunque al livello di alta centralizzazione la trattazione dei macroaspetti del settore (la definizione del livello prescelto, la modulazione territoriale dei minimi salariali e le relative deroghe…), mentre a livello di medio bassa centralizzazione saranno destinate tutte le materie salariali, organizzative (orari), partecipative (profit sharing), previdenziali ecc.

5. Gli effetti positivi di una simile dinamica delle relazioni industriali sarebbero evidenti nel funzionamento del sistema produttivo già dai primi cicli di shopping contrattuale, ma il trascorrere del tempo ed il progressivo apprendimento cooperativo di entrambe le parti ne aumenterebbe costantemente la qualità, stabilizzando il sistema produttivo su livelli di efficienza via via sempre maggiori, al livello più alto di occupazione.

6. Gli accordi di luglio (3 luglio 1992 e 23 luglio 1993) potrebbero facilmente essere rivisti secondo le linee sopra esposte, in ragione, soprattutto, del venire meno dell’obiettivo disinflazionistico che era stato alla base di quegli accordi tripartiti.

7. Il livello nazionale di contrattazione potrebbe restare con la funzione di macroregolazione di settore, ma senza valenze salariali (verrebbero meno i meccanismi di regolazione salariale in ragione dell’inflazione programmata, coincidendo questa con l’inflazione effettiva e con tale semplificazione non avrebbero più senso i recuperi), se non un eventuale utilizzo della clausola della scala mobile carsica in caso di patologica assenza di contrattazione di secondo livello. Quest’ultima (a livello variabile, come abbiamo visto), dovrebbe essere l’unico vero strumento di distribuzione efficiente dei guadagni di produttività (sia nella versione baumoliana che in quella kaldoriana) a fini di efficienza e di massimizzazione dell’occupazione. Su questa base il secondo livello di contrattazione andrebbe premiato e favorito in tutti i modi (in quanto capace di ottimizzare crescita e occupazione) attraverso legislazioni di sostegno (penalizzazione in tema di incentivi per quelle aziende e quei fattori che non realizzassero fisiologicamente la contrattazione), incentivi fiscali e parafiscali ad aziende e fattori efficienti ed innovativi nell’applicare le nuove relazioni industriali.

8. In questo modo la contrattazione di secondo livello aumenterebbe progressivamente (in uno o due cicli negoziali) nella sua capacità di copertura dell’intero mondo aziendale, in una sorta di sincronica complementarizzazione rispetto al venire meno del ruolo salariale della contrattazione nazionale.

9. Autoregolazione, autorganizzazione, apprendimento, adattamento continuo rispetto ai segnali provenienti dal cambiamento tecnologico e dal ciclo economico dovrebbero essere le linee guida del nuovo percorso di relazioni industriali nel nostro Paese.