Nelle ultime elezioni politiche sondaggi ed exit poll si sono rivelati molto lontani dai risultati effettivi. Cinque fra i più importanti sondaggisti italiani hanno cercato di spiegare perché. Hanno anche accettato di rispondere ad alcune domande de lavoce.info. Un commento alle loro affermazioni.
Autore: Riccardo Puglisi Pagina 5 di 8
Alunno del Collegio Ghislieri, ha studiato all'Università di Pavia (dottorato in finanza pubblica) e alla LSE (PhD in economia). Professore ordinario di scienza delle finanze all'Università di Pavia, si occupa principalmente di political economy, ed in particolare del ruolo politico dei mass media. Redattore de lavoce.info.
Sulle riforme istituzionali, i saggi propongono ricette di buon senso, orientate al superamento del bicameralismo perfetto. Saranno approvate? Forse è più semplice riformare le istituzioni in tempi di crisi economica e politica. Il maggior potere contrattuale di Napolitano dopo la riconferma.
Buona parte della ricchezza degli italiani è investita in immobili. Un mercato oggi bloccato. Anche per un fattore di ordine fiscale: chi detiene immobili tramite una società, in caso di vendita, sconta una forte tassazione sulla plusvalenza realizzata. La soluzione è una legge di affrancamento.
Qual è l’andamento tipico dei voti nel Conclave prima che si raggiunga la maggioranza dei due terzi più uno? In ogni scrutinio le preferenze tendono a convergere sui cardinali che ottengono un numero crescente di voti tra una tornata e l’altra. Gli effetti della “controriforma” di Benedetto XVI.
Come si colloca Lavoce.info nel panorama dell’informazione? Lo ha spiegato il professor Riccardo Puglisi in occasione del Convegno de Lavoce.info all’Università Cattolica, il 4 luglio 2012. I risultati della sua analisi nelle slides che hanno accompagnato il suo intervento, che trovate in allegato in formato pdf.
Parte in questi giorni una campagna per l’introduzione anche in Italia del “Freedom of Information Act”. Si tratta di una legge che garantisce a tutti i cittadini l’accesso agli atti e ai documenti prodotti dalla pubblica amministrazione. La sua approvazione segnerebbe una svolta fondamentale in un paese come il nostro, che soffre di una acuta mancanza di trasparenza. Certo, il solo varo della norma non cambierebbe magicamente la pubblica amministrazione e dovremmo aspettarci resistenze di tutti i tipi.
UN CAMBIAMENTO DI PROSPETTIVA
Oggi in Italia un comune cittadino può richiedere alla pubblica amministrazione solo informazioni che lo riguardano personalmente; al contrario, con il Foia lo stesso cittadino potrebbe richiedere qualsiasi informazione che non sia esplicitamente esclusa dalla legislazione, senza dover fornire giustificazioni sulla richiesta. In sostanza, passerebbe il principio che le informazioni detenute dalla pubblica amministrazione appartengono ai cittadini: dunque, come se si invertisse l’onere della prova, non sarebbe più il cittadino a dover giustificare la richiesta di informazioni, quanto piuttosto la pubblica amministrazione a dover giustificare la segretezza, ed elencare in quali casi specifici i documenti non sono pubblici.
Da questo cambio di prospettiva e da una pubblica amministrazione più trasparente possono derivare numerosi benefici: (1) i cittadini sono più informati sull’operato dei loro rappresentanti e quindi probabilmente capaci di sceglierli in maniera più oculata; (2) si instaura un rapporto di maggiore fiducia fra cittadini e pubblica amministrazione; (3) si creano buoni incentivi per chi gestisce la cosa pubblica, affinché operi nell’interesse collettivo, aumentando dunque l’efficienza del sistema e riducendo il grado di corruzione.
GRAN BRETAGNA MA NON SOLO
Leggi sulla trasparenza della pubblica amministrazione sono state adottate da circa 80 paesi. Il caso più famoso è il “Freedom of Information Act”americano del 1966 (cui i promotori del Foia si ispirano anche nel titolo), ma la prima norma di questo tipo fu introdotta più di duecento anni fa in Svezia. Un esempio emblematico della sua efficacia è la Gran Bretagna, dove il Foia è stato adottato nel 2000. C’è poco da dire: lo scandalo sui rimborsi spese dei parlamentari del 2009 è una conseguenza diretta di quella legge. I cittadini vennero a conoscenza di vari trucchetti usati per gonfiare le spese, alcuni giudicati di gravità tale da spedire i loro autori (sei parlamentari) in prigione. I cittadini ebbero anche modo di riflettere sull’abisso economico e sociale che li separava da alcuni di questi parlamentari, come l’onorevole Douglas Hogg, che si faceva rimborsare a spese del contribuente la pulizia del fossato del suo castelletto (mansion).
TORNANDO ALLE COSE ITALIANE
Pochi paesi fra quelli democratici soffrono l’assenza di trasparenza quanto il nostro, dove gli accordi politici e gli affari avvengono troppo spesso nel chiuso dei palazzi anziché alla luce del sole. Solo pochi giorni fa, Stefano Rodotà denunciava su La Repubblica come una fase di fatto costituente come quella attuale si svolga ancora una volta senza una piena partecipazione dei cittadini e addirittura senza che vi sia consapevolezza diffusa della sua importanza: le proposte di riforma costituzionale sono spesso solo segnali di fumo e merce di scambio fra addetti ai lavori, da parte peraltro di un parlamento che non gode della rappresentatività necessaria per mettere mano al lavoro dei padri fondatori della Repubblica.
Un esempio lampante dei mali della scarsa trasparenza sono le recentissime nomine all’ Agcom (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) e all’Autorità garante per la privacy, le quali nonostante l’appello pubblico ad inviare curricula- sono ancora una volta il frutto evidente di un cencelliano accordo preso dai partiti politici fuori dal parlamento.
Esistono comunque controindicazioni alla trasparenza, che vale la pena ricordare. Sicuramente non tutti gli atti della pubblica amministrazione possono essere resi pubblici. Ci sono ragioni di sicurezza nazionale, ad esempio, per le quali è nell’interesse stesso dei cittadini che alcune informazioni non vengano rese pubbliche. È una controindicazione ovvia e difatti tutti i paesi che hanno adottato il Foia hanno incluso la sicurezza nazionale tra i motivi per negare l’accesso a documenti.
Dal punto di vista dell’architettura complessiva dei diritti, naturalmente non ci sfugge il contrasto tra la vigente (e stringente) normativa sulla privacy e il principio di trasparenza e informazione che è implicito nel Foia. È pur vero che ogni norma deve mediare tra diritti e interessi in conflitto: pur non essendo giuristi, ci azzardiamo dunque a suggerire che nel caso dei rapporti tra cittadini e Stato prevalga la trasparenza del Foia, mentre nei rapporti orizzontali tra cittadini dovrebbe prevalere il principio della privacy.
Sarebbe utile peraltro se il Foia trovasse applicazione anche presso enti e associazioni senza fini di lucro, come i partiti politici, i sindacati e le chiese. Applicando un (notevole) sforzo di fantasia, la domanda che sorge spontanea è questa: in presenza di un diritto generale alle informazioni come quello implicito nel Foia, sarebbero mai potuti accadere scandali gravi come quello della gestione “impropria” dei finanziamenti pubblici da parte dei tesorieri Luigi Lusi e Francesco Belsito? E che dire della campagna di diffamazione contro l’ex direttore de L’Avvenire Dino Boffo, che – secondo il libro “Sua Santità” di Gianluigi Nuzzi – sarebbe stata avallata dal direttore dell’Osservatore Romano Giovanni Maria Vian? Se un cittadino ha un diritto generale alle informazioni, perché non anche un fedele?
UN PASSO NELLA DIREZIONE GIUSTA
Un’ultima considerazione riguarda l’attuazione del Foia. Occorre stabilire meccanismi precisi di responsabilità in caso di mancato adempimento. Una richiesta di informazioni in qualsiasi formato, compresa una semplice e-mail, deve essere evasa entro un termine dato (diciamo un massimo di venti-trenta giorni); inoltre occorre stabilire precise responsabilità e sanzioni in caso di ritardi, incompletezze, omissioni, eccetera.
Inutile farsi illusioni: il Foia non cambierà magicamente la pubblica amministrazione, mentre dovremo comunque aspettarci resistenze di tutti i tipi, oltretutto favorite dalla lentezza della macchina giudiziaria. Si tratta però di un passo nella giusta direzione che speriamo possa nel medio-lungo termine restringere gli spazi di quella cultura della segretezza che ancora prevale nella nostra società.
Quando accade un disastro naturale e terribile, a molti viene spontaneo dare il proprio aiuto. Nel caso del terremoto in Emilia Romagna, è possibile ad esempio inviare un sms alla protezione civile per donare due euro. Per rendere l’iniziativa più efficace sarebbe opportuno diffondere in tempo reale l’ammontare totale di contributi fino a quel momento ricevuti. Perché secondo studi recenti sapere che gli altri hanno contribuito alla causa comune induce il singolo individuo a essere più generoso. E aiuta a fermare l’attenzione su quel tema, a farlo diventare più saliente.
Dopo il ritiro di Rick Santorum, lo sfidante di gran lunga più credibile, è ormai certo che Mitt Romney sarà il candidato repubblicano alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Adesso l’attenzione si sposta sulla scelta dei ticket presidente-vicepresidente e sulle elezioni di novembre. Ma chi sarà il vincitore? Lo indicano i mercati predittivi. Che aiutano anche a rispondere a due domande: che effetti ha l’andamento dell’economia sul risultato elettorale? E che dire degli effetti del risultato elettorale sulle prospettive economiche future?
Il legame tra economia e risultati elettorali funziona anche in senso inverso: l’esito delle elezioni ha con ogni probabilità un effetto sull’andamento futuro delle variabili macroeconomiche come la crescita, la disoccupazione e l’inflazione. Dal punto di vista teorico ciò è tanto più vero quanto più sono distanti le piattaforme programmatiche dei candidati, sia sulla carta che, soprattutto, nei fatti.
DALLA POLITICA ALLECONOMIA
Sempre focalizzandoci sul caso degli Stati Uniti, secondo il modello tradizionale del ciclo economico-politico, quando il presidente in carica è un democratico l’inflazione è in media più elevata e la disoccupazione è più bassa che sotto un presidente repubblicano; dal punto di vista empirico tale conclusione si basa sull’analisi diretta dei dati storici relativi al secondo dopoguerra. Il problema di questa metodologia è che non si riesce a isolare l’effetto opposto, che va dalle variabili economiche all’esito elettorale.
Sotto questo profilo, i mercati predittivi inerenti a una certa gara elettorale sono uno strumento utile per valutare in maniera rigorosa l’effetto della probabilità di vittoria di un candidato o dell’altro sull’andamento di variabili macroeconomiche e finanziarie rilevanti. L’idea consiste nell’analizzare la correlazione tra quotazione sui mercati predittivi dopo che i seggi elettorali sono stati chiusi e l’andamento contemporaneo di alcune variabili finanziarie rilevanti: la bontà di questo approccio sta nel fatto che, per definizione, l’andamento del mercato predittivo non è più influenzato dall’andamento delle variabili economiche, in quanto i cittadini si sono già espressi tramite il voto.
A questo proposito, Eirik Snowberg, Justin Wolfers ed Eric Zitzewitz sfruttano l’andamento oscillante dei mercati predittivi dopo la chiusura delle urne nel 2004, quando inizialmente gli exit poll davano la vittoria a John Kerry, per poi essere sonoramente smentiti dalla riconferma di George W. Bush. (1) Ebbene, l’effetto della vittoria di Bush consiste in un apprezzamento tra l’1,5 e il 2 per cento dei mercati azionari, molto probabilmente a motivo della minor tassazione sulle plusvalenze (capital gain) prevista da Bush, e in un aumento dei tassi di interesse nominali, che è verosimilmente dovuto a un aumento del tasso di interesse reale sottostante, e non dell’inflazione attesa. Secondo gli autori, l’aumento dei tassi di interesse reali potrebbe essere ricollegato alla maggiore propensione degli ultimi presidenti repubblicani a creare un deficit del bilancio federale.
L’appartenenza politica del presidente potrebbe avere un effetto anche sulle prospettive specifiche dei diversi settori dell’economia. Brian Knight ha studiato la questione analizzando l’effetto della contesa elettorale tra Bush e Al Gore nel 2000, ancora una volta sfruttando l’andamento dei mercati predittivi. (2) Knight mostra come una maggiore probabilità di vittoria per Bush abbia avuto effetti positivi sul settore del tabacco, mentre ha sortito effetti negativi sulle imprese concorrenti di Microsoft, e sui produttori di energia tramite tecnologie alternative. E si noti come questi risultati sono rinforzati dal fatto che le imprese che l’analisi indica come favorite da Bush sono proprio quelle che hanno sostenuto in maniera sistematicamente più generosa la sua campagna elettorale rispetto a quella di Gore, e viceversa per le imprese che appaiono come sfavorite.
È facile pensare ai mercati finanziari solo in termini speculativi, mentre si dimentica spesso la dimensione assicurativa, che è altrettanto fondamentale. Ciò vale anche in questo caso, nella fattispecie rispetto al rischio politico: cittadini abbienti che verosimilmente avrebbero pagato imposte più elevate sotto Gore che sotto Bush avrebbero potuto assicurarsi contro questo rischio fiscale acquistando prima delle elezioni quei titoli che sarebbero saliti di più nel caso avesse vinto il primo (ed eventualmente vendendo allo scoperto i titoli favoriti dal secondo).
E in Italia? Se nel 2013 ci sarà ancora una forma di bipolarismo politico, Mediaset è l’azienda giusta per fare arbitraggi tra variabili politiche ed economiche: chi è avverso al rischio e teme di essere svantaggiato da una vittoria del centrodestra dovrebbe acquistare azioni Mediaset. E viceversa dovrebbe venderle allo scoperto chi si aspetta svantaggi dal centrosinistra.
(1) Erik Snowberg, Justin Wolfers e Eric Zitzewitz [2007]. Partisan Impacts on the Economy: Evidence from Prediction Markets and Close Elections Quarterly Journal of Economics, May 2007, 122(2) 807-829. Disponibile qui.
(2) Brian Knight [2007] Are policy platforms capitalized into equity prices? Evidence from the Bush/Gore 2000 Presidential Election. Journal of Public Economics 91(1-2): 389-409. Disponibile qui. Per lidea di mercati azionari collegati alle elezioni a fini assicurativi, si veda David Musto and Bilge Yilmaz [2003]. Trading and voting. Journal of Political Economy, 111. Disponibile qui nella versione working paper.
In modo goffo e prudente, i politici degli Stati Uniti sono stati i primi a usare Twitter per comunicare con elettori e opinione pubblica. Da qualche mese anche gli italiani: circa metà dei nostri deputati ha un account di Twitter, ma le modalità sono simili a quelle dei colleghi americani. Il profilo tipico del deputato utilizzatore è: di centro o centrosinistra, giovane, uomo. L’adozione del mezzo da parte della politica è dunque in una fase iniziale, in cui i meccanismi d’uso non sono ancora consolidati e l’apprendimento è in corso.