Telecom Italia ha già versato 400 milioni all’erario per la vicenda Sparkle (presunta frode fiscale, su cui l’ex Ad di Fastweb, Scaglia, si è fatto alcuni mesi di prigione) e rischia ora di pagare altre centinaia di milioni a causa della sua passata gestione, che avrebbe lasciato mano troppo libera alla Security (il caso Tavaroli-Sismi, per intenderci). Non si sa a quanto salirà il conto, ma presumibilmente a ben di più di 500 milioni. E rimane l’impressione che nell’impresa succedesse di tutto senza che i vertici sapessero alcunché (vero o falso? lo diranno i magistrati).
A metà dicembre il Cda di Telecom Italia (con il voto contrario del consigliere indipendente Zingales) decide di non chiedere i danni agli amministratori precedenti. Con più di mezzo miliardo in ballo e unimmagine pesantemente compromessa, pare una decisione incredibile. Ma il Cda non dovrebbe fare gli interessi degli azionisti? E in che senso tali interessi sono tutelati dalla decisione del Cda di proteggere gli ex amministratori?
Si parla spesso di capitalismo consociativo, di reti di interessi che legano comunque le società (e chi siede nei consigli) ben oltre gli effettivi legami azionari, ed evidentemente anche quando i legami azionari si sono sciolti.
È stato un bruttissimo episodio, sul quale abbiamo taciuto nella speranza che succedesse qualcosa. Ma evidentemente la cosa sta bene a troppi. E non emergono le ragioni della decisione, e neppure i documenti che giustificherebbero la decisione stessa. Brutto momento per la tutela degli investitori. Brutto per la trasparenza dei mercati azionari.
C’è solo un modo con cui il Cda può fugare il dubbio di voler con una mano lavare l’altra: coprendo le malefatte di passate e presenti gestioni: renda pubblici i rapporti sulla gestione precedente sulla base dei quali ha preso la sua decisione. I piccoli azionisti hanno diritto di sapere.
Autore: Tito Boeri Pagina 17 di 38
Tito Boeri è professore di economia presso l'Università Bocconi di Milano e Senior Visiting Professor alla London School of Economics. È stato senior economist all’Ocse, consulente del Fmi, della Banca Mondiale, della Ue, dell’Ilo oltre che del governo italiano. Dal marzo 2015 al febbraio 2019 ha ricoperto la carica di Presidente dell'Inps. È Consigliere Scientifico della Fondazione Rodolfo Debenedetti. È stato editorialista del Sole24ore, de La Stampa e de La Repubblica e ha collaborato con quotidiani esteri quali il Financial Times e Le Monde. È tra i fondatori del sito di informazione economica www.lavoce.info e del sito federato in lingua inglese www.voxeu.org.
Non sarà facile governare Mirafiori con il 50 per cento degli operai contrari all’accordo. Soprattutto, però, il referendum indica una volta di più che il nostro sistema di relazioni industriali fa acqua da tutte le parti: copre sempre meno lavoratori, interviene sempre più in ritardo, accentua i conflitti e non incoraggia gli aumenti di produttività e salari. Le riforme più urgenti riguardano le regole sulle rappresentanze sindacali, i livelli della contrattazione, la copertura delle piccole imprese, i minimi inderogabili e i confini fra contrattazione collettiva e politica.
Grazie per i vostri commenti. Alcune critiche sembrano tuttavia non cogliere il punto: al di là del giudizio che si può dare sul ruolo delle nostre truppe in Afghanistan, lì inquesto momento c’è un pezzo del nostro paese ed è doveroso per un Presidente del Consiglio essere al fianco dei nostri soldati. E’ davvero strano che nessuna voce si sialevata in questi giorni anche dai banchi dell’opposizione per chiedere che Berlusconi, pur con ritardo, faccia quello che Blair, Cameron, Obama e Zapatero hanno fatto datempo. Non c’entra l’ideologia. E’ una questione di ruoli istituzionali e di civiltà. Tutto qui.
Il 2010 se ne è andato. Un anno duro per molti aspetti e che si è chiuso male, con la morte di un altro militare italiano in Afghanistan. Il tredicesimo di questo anno e il trentacinquesimo dall’inizio della missione. Tra i tanti desideri che ciascuno di noi esprime per il nuovo anno sarebbe facile includere il ritiro delle nostre truppe. Ma sarebbe un desiderio sbagliato. I nostri soldati sono in Afghanistan per cercare di aiutare lo sviluppo della pace e della democrazia in quel Paese. Obiettivi forse parzialmente irrealistici, ma nei quali è giusto sperare ancora. C’è però un piccolo desiderio che è lecito esprimere per il nuovo anno e che è alla nostra portata a differeza dei molti che si sento fare in questi giorni. Che il Premier vada a visitare le nostre truppe in Afghanistan. Cameron lo ha fatto pochi mesi dopo la sua elezione, Zapatero è andato lo scorso novembre e Obama questo dicembre. Berlusconi invece risulta assente ingiustificato. Certo, nelle scorse settimana è stato molto impegnato a convincere i parlamentari di Fli e Idv a votargli la fiducia. Ieri mattina era ancora impegnato su Canale 5 a bombardare gli italiani con le sue fluviali esternazioni. Ma nei due anni e mezzo in cui è stato Primo Ministro ha trovato il tempo per andare ai compleanni di minorenni a Casoria, per far rilasciare dalla Questura di Milano la presunta nipote di Mubarak e per frequentare la signora D’Addario. Senza alcun moralismo, crediamo sarebbe ora che tra le sue visite includesse quella alle truppe italiane in Afghanistan. Sarebbe solo un gesto simbolico, è vero, ma anche i simboli sono importanti.
Due anni e mezzo all’insegna della decisione di non decidere. Questa, in sintesi, la politica economica del Governo Berlusconi, confermato dai due rami del Parlamento ma appeso a una maggioranza risicata di tre voti alla Camera. La scelta di non fare nulla ha portato a una caduta complessiva del reddito nazionale del 6,5 per cento e del reddito pro-capite di più del 7 per cento. Ma ha anche evitato un ulteriore deterioramento del deficit pubblico. Soprattutto, però, il governo non ha realizzato nessuna riforma strutturale benché disponesse di una larga maggioranza in Parlamento. E così l’Italia ha perso altri trenta mesi senza il varo di provvedimenti indispensabili per riprendere a crescere.
Da una parte il rischio che il prossimo Parlamento si trasformi in un’arena di rivendicazioni territoriali contrapposte. Dall’altra, nonostante la retorica federalista, un’azione di governo che deprime l’autonomia degli enti locali. Una buona idea è allora il federalismo a velocità variabile. Diamo maggiore autonomia, anche sul piano delle entrate, ai governi locali meritevoli di fiducia sulla base di parametri costruiti sui comportamenti passati. È un modo per incentivare tutti a migliorare, che in più permette di superare la frustrazione dei territori più efficienti.
Nel maxiemendamento alla Legge di stabilità la spesa aumenta mentre i finanziamenti sono rappresentati per lo più da entrate una tantum o aleatorie come i proventi dell’asta per il digitale, nettamente sovrastimati, e quelli dalla lotta all’evasione. Si potenzia ulteriormente il tesoretto (ormai di quasi tre miliardi di euro) gestito direttamente da Palazzo Chigi. Ci sono inoltre diverse poste che trasferiscono oneri sugli esercizi futuri. Insomma, è un maxiemendamento pre-elettorale. Che, senza sviluppo, toglie ulteriormente al rigore facendo aumentare l’indebitamento netto strutturale.
Le fondazioni bancarie non sono investitori istituzionali perché non rendono conto ad alcun risparmiatore delle loro scelte finanziarie e non hanno peraltro alcun obbligo di rendicontazione della redditività dei loro investimenti. Né sono autonome dalla politica, come mostrano gli ultimi riassetti ai vertici. Vanno dunque riformate, risolvendo l’anomalia di istituzioni non profit che esercitano funzioni di controllo nelle banche. Dovrebbero trasformare gradualmente le loro azioni in azioni di risparmio, evitando di incorrere in perdite in conto capitale.
Lettera al Corriere della Sera
Caro direttore,
Massimo Mucchetti nel suo articolo di sabato 23 ottobre ci arruola al partito di Geronzi. La ragione? Un nostro intervento su lavoce.info sarebbe ripreso dal Foglio a sostegno di tesi dell’attuale Presidente di Generali. In questo intervento, coerentemente con quanto pensiamo e scriviamo liberamente da tanto tempo, sosteniamo che: 1) le fondazioni bancarie farebbero bene a diversificare il loro portafoglio per meglio svolgere le loro funzioni sociali; 2) avendo vertici di nomina politica, non dovrebbero nominare a loro volta i consiglieri delle banche, evitando ancor di più di sceglierli tra le proprie fila. Quanto alla nostra vicinanza a Geronzi, invitiamo a leggere su questo sito cosa abbiamo scritto sul curriculum dell’ex banchiere. Non ci risulta che Mucchetti abbia mai dato queste informazioni ai suoi lettori.