L’inflazione non comporta solo l’aumento del prezzo di beni e servizi consumati dalle famiglie. Ha soprattutto effetti redistributivi. Per questo una fiammata inflazionistica dovuta all’uscita dall’euro e al ritorno alla lira avvantaggerebbe soprattutto lo stato, a danno delle famiglie.
Autore: Tommaso Monacelli Pagina 6 di 11
Tommaso Monacelli è professore ordinario di Economia all'Università Bocconi di Milano, e Fellow di IGIER Bocconi e del CEPR di Londra. Ha ottenuto il Ph.D. in Economia presso la New York University, ed è stato in precedenza assistant professor a Boston College e professore associato all'Università Bocconi. E' associate editor di riviste scientifiche internazionali, tra cui il Journal of the European Economic Association, il Journal of Money Credit and Banking, e la European Economic Review. E' stato adjunct professor presso la Columbia University, visiting professor presso la Central European University, e research consultant per Bce, Ocse, IMF, e Riksbank. I suoi interessi di ricerca riguardano la teoria e politica monetaria e la macroeconoma internazionale.
Il messaggio principale della decisione della Federal Reserve sul rialzo dei tassi è che il regime in cui opera l’economia è tornato normale e anche la politica monetaria può tornare a essere tale. E si possono pianificare le mosse future in modo trasparente.
L’apprezzamento del dollaro non dipende da un presunto deprezzamento strategico dello yuan da parte delle autorità cinesi. È dovuto invece al ruolo degli Usa nel sistema finanziario internazionale. I premi pagati oggi sono finanziati dagli enormi rendimenti ottenuti negli anni del boom finanziario.
La Fed ha rialzato i tassi. I più interessati a capire se è una inversione di rotta definitiva sono imprese e operatori al di fuori degli Usa. Perché in un mondo dominato dal dollaro come valuta di denominazione delle transazioni finanziarie, la sovranità della politica monetaria è un’illusione.
In un’epoca di persistente stagnazione economica si dovrebbe usare la spesa pubblica, finanziata col debito, per espandere la crescita. Sembra essere il “nuovo consenso”. Ma c’è chi sostiene che il debito debba sì crescere, ma per la riduzione delle tasse. I molti presupposti da dimostrare.
Si ripropone oggi il dilemma degli anni Settanta. Se la Fed misura correttamente il tasso naturale, la politica dei tassi a zero è appropriata. Se invece lo sta sottostimando, i tassi oggi sono eccessivamente bassi e andrebbero normalizzati. Il dibattito è destinato a continuare ancora per molto.
Un impegno esplicito della Bce a prolungare il programma di acquisto di titoli non ne avrebbe mutato l’efficacia. Consumi e investimenti delle imprese sono poco sensibili a tassi di interesse tanto bassi. Stimolo al credito nei paesi dove c’è meno bisogno.
Dopo aver concluso a dicembre 2015 l’era dei tassi zero, la Fed appare oggi paralizzata. Intanto da metà 2014, i mercati hanno smesso di credere che l’obiettivo di inflazione del 2 per cento sia raggiungibile per i prossimi anni. L’importanza della credibilità di chi conduce la politica monetaria.
La Bce ha annunciato un nuovo ampio pacchetto di misure per stimolare la crescita nell’Eurozona. Ma la deflazione è solo un sintomo, il problema è la combinazione viziosa di eccesso di domanda di risparmio e limite zero sui tassi di interesse. E per risolverlo non basta la sola politica monetaria.
Perché l’inflazione resta comunque una tassa patrimoniale
Di Tommaso Monacelli
il 11/04/2017
in Commenti e repliche
Famiglie, imprese e redistribuzione
Ringrazio molto i lettori per i commenti al mio articolo “Inflazione, la tassa che piace allo stato”. Riassumendo, ci sono tre tipi di considerazioni: 1. l’articolo ignora la redistribuzione all’interno del settore delle famiglie; 2. ignora il settore imprese; 3. se è vero che l’inflazione è una tassa che redistribuisce ricchezza reale dalle famiglie allo stato, cosa impedisce allo stato di redistribuirla a sua volta, magari a favore di famiglie più bisognose?
Sul primo punto, è certamente vero che non mi sono soffermato sulla redistribuzione all’interno del settore delle famiglie, ma ciò è dovuto a mere ragioni di spazio. Se è vero che l’inflazione ha potenti effetti di redistribuzione della ricchezza reale dai creditori ai debitori, è altresì vero che esistono famiglie “debitrici” e famiglie “creditrici”. Di solito, le prime sono famiglie di giovani che fanno un mutuo per la prima casa e si indebitano nella prospettiva di crescita di reddito futuro. Le seconde sono famiglie mature che risparmiano in vista della vecchiaia. Il lavoro di Klaus Adam e Junyi Zhu citato nell’articolo riporta dati anche su questa dimensione della redistribuzione. Invito quindi i lettori interessati a consultare quello studio.
Quanto al secondo rilievo, in realtà il settore imprese è conteggiato nella misura in cui la posizione finanziaria netta del settore famiglie include (secondo un conteggio complesso, i cui dettagli si trovano nello studio di Adam e Zhu) la partecipazione in aziende.
Sul terzo punto, certamente nulla vieta che lo stato decida di redistribuire la tassa da inflazione (che, si noti bene, è diversa dalla tassa da inflazione dovuta al signoraggio della banca centrale) in favore di settori specifici della popolazione. Ma questo vale per ogni altro tipo di tassa ed è quindi un problema del tutto separato. Il punto dell’articolo è sottolineare che anche tassi di inflazione moderati possono corrispondere a vere e proprie tasse patrimoniali. Che poi si possa decidere, a monte, di tassare il patrimonio per ragioni, a valle, di tipo redistributivo è un problema di politica fiscale concettualmente separato. Ripeto: ciò non toglie nulla all’implicazione logica che l’inflazione, di per sé, sia una tassa patrimoniale.