Le banche italiane non solo non sono immuni dalla crisi, ma soffrono la crisi più delle altre. Dal fallimento di Lehman Bros il titolo Unicredit ha perso circa il 60 % del proprio valore, Intesa SanPaolo circa il 45%, più delle banche quotate al Dow Jones, nellepicentro della crisi. Sapremo presto in che misura su questo andamento contano i ritardi con cui da noi si sta procedendo alla ricapitalizzazione delle banche in Italia. Lo capiremo anche dal modo con cui il mercato reagirà ai provvedimenti che verranno introdotti da Governo e Banca dItalia. Ma limpressione è che ci sia dellaltro: organi direttivi troppo passivi, che hanno delegato troppo potere agli Amministratori Delegati negli anni passati, sull’onda dei successi in termini di acquisizioni e di profitti e che oggi non sembrano in grado di reagire alla crisi. All’inizio di ottobre, in mezzo alla tempesta che aveva colpito il suo titolo, l’Amministratore Delegato di Unicredit, Alessandro Profumo, davanti agli studenti del Collegio di Milano, aveva ribadito la sua intenzione di lasciare il timone della sua banca per il suo sessantesimo compleanno, cioè tra nove anni. Nove anni alla testa di un gruppo bancario così rilevante sono molto lunghi, specie se si tiene conto che Profumo occupa lo stesso posto da più di dieci anni. In nove anni può cambiare il mercato, rendendo obsolete alcune competenze, possono spuntare manager più giovani e più adatti a guidare la banca oppure la banca può essere oggetto di unacquisizione. Insomma, Profumo deve sentirsi saldo in sella per fare una simile affermazione. E’ giusto che un manager che ha avuto in passato tanti successi abbia fiducia nelle sue capacità. Ma la fiducia in se stessi non basta. Occorre anche che Profumo sia anche molto fiducioso che il suo Consiglio di Amministrazione lo appoggerà in modo incondizionato. E forse è proprio questa la chiave di lettura della sofferenza delle banche italiane: Ci sono troppi intrecci societari che danno luogo a veti incrociati. Tutti sono rappresentati, anche indirettamente chi siede in banche concorrenti. Tutti (o quasi) sulla carta indipendenti, compresi Gianfranco Gutty, Salvatore Ligresti o Carlo Pesenti, tanto per non fare dei nomi. Neanche il barlume di un fondo istituzionale, che rappresenti i piccoli azionisti. E un consiglio fatto col il manuale Cencelli, con ben cinque vicepresidenti, età media 65 anni, e ben 23 poltrone per accontentare tutti. In questi giorni si discute della possibilità di abolire la passivity rule nella normativa sulle OPA. Pessima idea, come abbiamo avuto modo di sottolineare. Meglio sarebbe ridurre la passivity dei Consigli dAmministrazione delle nostre banche.
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Sul Corriere della Sera del 16 ottobre Giovanni Sartori stigmatizza gli economisti per non aver saputo prevedere nè evitare questa crisi, e ne trae la conclusione che leconomia è "un sapere «pratico» che consiglia male e che prevede altrettanto male, produce guai o comunque ci lascia nei guai". Certo, è difficile negare che nellinsieme il prestigio degli economisti esca abbastanza malconcio da questa crisi. Ma è vero che tutti gli economisti siano stati così ciechi come dice Sartori? Basta leggere per esempio gli scritti di un grande economista come Robert Shiller sulla bolla immobiliare per rendersi conto che non è così. E non pochi avevano sottolineato l’eccessivo lassismo della politica monetaria fino al 2005 e i conflitti di interessi nelle società di rating e nelle banche, che hanno avuto parte non piccola nella genesi di questa crisi.
Ma – si dirà – queste sono state posizioni minoritarie. Se così non fosse, perché avremmo avuto la crisi? Innanzitutto, una frase del genere presuppone che gli economisti siano sempre ascoltati e influenti: a noi piacerebbe che fosse così, ma non è vero. Ma facciamo pure lipotesi eroica che gli economisti siano sempre ascoltati e che quindi la terribile crisi attuale sia colpa della loro miopia. Allora, caro Sartori, quando le cose vanno bene dovremmo darne merito agli economisti: quante crisi sono state evitate o attutite perché gli economisti – per esempio, quelli al lavoro nelle banche centrali – le hanno previste e debellate sul nascere? Si ricorda per caso della sventata crisi finanziaria dopo la crisi di LTCM nel 1998? E di come sono state attutite le conseguenze del crollo di borsa del settore hi-tech tra la fine del 2000 e linizio del 2001, nonché quelle dello shock dell’11 settembre 2001? E si tratta solo di alcuni esempi recenti – la lista si allungherebbe fino alla noia se iniziassimo dalla fine della seconda guerra mondiale… Dovremmo allora portare gli economisti in trionfo per la maggior parte del tempo?
Ovviamente no. Innanzitutto perché è ingenuo pensare che, sia nelle scelte giuste che in quelle sbagliate, noi economisti abbiamo il ruolo determinante immaginato da Sartori, soprattutto a confronto con quello dei politici. E poi perchè siamo ben consci che il nostro "sapere pratico" è molto imperfetto e che di errori ne facciamo tanti, sia nella comprensione che nella previsione del comportamento di un sistema molto complesso, risultante dall’interazione di milioni di persone, il cui comportamento individuale è a sua volta solo parzialmente chiaro non solo a noi economisti ma anche a psicologi e medici. Al pari degli studiosi di meteorologia, che a volte non riescono a prevedere la formazione e la direzione di cicloni e tornadi, anche noi facciamo errori. Ma non ci risulta che nessuno abbia chiesto l’abolizione delle stazioni meteorologiche dopo un errore di previsione sul percorso di un devastante tornado.
Per Sergio Marchionne, sul Sole 24 Ore del 17 ottobre, è inaccettabile che siano le imprese e i loro lavoratori a pagare il costo della crisi. Questo è un problema. Ci sono tre tipi di agenti economici: le imprese, i lavoratori, e coloro che non lavorano. Se il conto non possono pagarlo né le prime né i secondi, rimangono i disoccupati, i pensionati, le casalinghe, e i bambini. Dubito che sia questo che intendeva Marchionne.
In realtà, cè un altro agente: il solito, vecchio Pantalone, cioè lo Stato. E, infatti, Marchionne avanza la legittima richiesta di un pacchetto di aiuti di almeno 40 miliardi di euro, naturalmente per lindustria dellauto europea. Facciamo due conti: ci sono 217 milioni di lavoratori nellUnione Europea, di cui circa 12 milioni nellauto. Se tutti i settori avanzassero la stessa legittima richiesta, il conto salirebbe a 720 miliardi. Togliamo pure le banche, che hanno già avuto; questo lascia diciamo 600 miliardi, circa i 2/5 del PIL italiano.
Il problema, ovviamente, è che Pantalone non esiste: prima o poi la spesa pubblica va finanziata con tasse, e le tasse le pagano proprio i lavoratori e le imprese. Ma Marchionne chiede anche una detassazione dei lavoratori. Qualcosa non quadra.
Come era da prevedere, uno delle conseguenze più gravi della crisi attuale è che ha messo miracolosamente tutti daccordo sugli aiuti alle imprese. Si può capire che politici di destra e di sinistra, a cominciare dal Presidente del Consiglio, cavalchino questa tigre; ma per la Confindustria è un gioco molto rischioso. Si ha un bel dire che gli aiuti devono essere provvisori, che lo Stato deve ritirarsi appena sarà passata la buriana. Sappiamo tutti che non sarà così. E far credere che con gli aiuti pubblici vincono tutti la politica che compra voti e consensi, le imprese, i lavoratori, e i nostri figli – è irresponsabile.
Ieri il Primo Ministro, spaventato dalla possibilità che il calo di corsi azionari abbia effetti sugli assetti proprietari delle imprese italiane, ha avanzato la proposta di adottare misure per proteggere acquisizioni ostili. "Molte aziende italiane" – ha detto il premier "hanno oggi una quotazione che non corrisponde assolutamente al loro giusto valore. Quindi credo che sono delle ottime occasioni per chi, disponendo di capitali e penso a certi fondi sovrani, volesse proporre delle Opa ostili". Provvedimenti anti-OPA avranno un solo effetto: scoraggiare lafflusso di capitale fresco nel mercato azionario. Ci sono almeno due motivi per cui questa non è una buona idea. Primo, ostacolare lingresso di capitale nei mercati adesso è come chiudere i rubinetti idrici al culmine di una siccità. Con la prospettiva di una stretta creditizia alle porte, bisogna piuttosto incentivare tutti i possibili canali di reperimento di fondi da parte delle imprese, incluso il capitale di rischio. Secondo, il problema principale del mercato per il controllo societario italiano è la sua scarsa contendibilità. La struttura di controllo delle imprese italiane è pietrificata: se si escludono le privatizzazioni, il peso relativo dei soggetti controllanti (persone fisiche, società finanziarie, soggetti esteri ecc.) è rimasto pressoché immutato negli ultimi trentanni. In particolare, il ruolo del controllo familiare è sempre dominante. Un ingresso di nuovo capitale finanziario e manageriale porterebbe solo benefici: i fondi esteri sono oggi più che mai un’opportunità per i risparmiatori, gli investitori e le imprese italiane. E allora perché questo allarme contro le OPA ostili? A vedere con ostilità le OPA straniere sono i dirigenti delle società che potrebbero perdere il loro posto, le loro laute remunerazioni e i loro benefit e chi, utilizzando leva finanziaria e scatole cinesi, mantiene il controllo di unimpresa rischiando poco di tasca sua. In nome della difesa dellitalianità sono già stati combinati abbastanza pasticci: basta, please!
Domenica erano rarissime le Borse aperte: solo Tel Aviv e qualche mercatomedio-orientale. Tel Aviv è la più importante perchè alcuni start-up, ad esempio nel campo delle biotecnologie, sono quotati sia lì che a New York. Domenica Tel Aviv ha aperto con una perdita dell’8 per cento. Quel segnale ha trasformato la dinamica politica della giornata. Sabato era stato un giorno molto deludente: il comunicato del G7 di venerdi sera era vago e l’incontro dei ministri delle finanze con Bush era stata solo una"photo occasion". Ministri e governatori erano partiti da Washington convinti che ciascun paese avrebbe dovuto arrangiars da sé: erano stanchi e ci avrebbero pensato lunedi mattina. Gli operatori erano delusi; molti si preparavano a cambiar mestiere; lunedì, dicevano alcuni, non servirà neppure andare in ufficio. Il dato proveniente da Tel Aviv ha cambiato tutto, obbligando i politici a considerare seriamente la prospettiva di un meltdown globale dei mercati finanziari. Il coordinamento europeo che fino a quell’ora sembrava impossibile, improvvisamente è diventato una possibilità concreta. Il risultato: tre provevdimenti (la garanzia sull’interbancario, i fondi per le ricapitalizzazionie l’attenuazione del mark-to-market) che hanno salvato le economie del mondo.
Una parte del merito va anche a Gordon Brown che ha spiegato ai suoi colleghi perché questi provvedimenti erano essenziali e come realizzarli. Ma se domenica-come qualcuno aveva proposto- i mercati fossero rimasti chiusi il segnale non vi sarebbe stato e più difficilmente il meltdown sarebbe stato evitato.
I governi europei non si sono accordati per un’azione coordinata contro la crisi, come richiesto dall’appello lanciato su questo sito e sottoscritto sin qui da oltre 300 economisti europei. Ogni Paese sta quindi adottando in modo indipendente le proprie politiche per arginare la crisi finanziaria. In Italia, sulla falsariga dei provvedimenti presi dal governo Brown nel Regno Unito, il Consiglio dei Ministri ha approvato un decreto legge che prevede la possibilità per lo Stato di ricapitalizzare le banche in difficoltà sottoscrivendo azioni senza diritto di voto e una garanzia pubblica sui depositi bancari, che va ad aggiungersi a quella già prevista dal fondo interbancario. L’assicurazione pubblica sui depositi è solo una protezione supplementare dei depositi, il cui utilizzo effettivo scatterebbe solo nel caso in cui il fondo interbancario non avesse fondi sufficienti per pagare i correntisti. Il valore di questa misura risiede più nel suo aspetto di rassicurazione dei risparmiatori che in quello di protezione effettiva, ma in questi tempi di sfiducia generalizzata, anche segnali come questo possono essere utili. E’ utile è anche il primo provvedimento, cioè la possibilità offerta alle banche, che in questo momento non riuscirebbero a ricapitalizzarsi sul mercato, di farlo con i fondi pubblici. Positiva anche la scelta delle azioni senza diritto di voto, al fine di ridurre le interferenze dello Stato nella gestione delle banche. La valutazione dei provvedimenti adottati dal governo è dunque favorevole.
L’unica perplessità che rimane è l’assenza di un esplicito orizzonte temporale o delle condizioni sotto le quali lo Stato si impegna a rivendere ai privati le azioni sottoscritte. Anche le azioni senza diritto di voto consentono a chi ha partecipazioni rilevanti di condizionare la gestione. Si partecipa ad assemblee (straordinarie o degli azionisti di risparmio) e si può sempre minacciare di ritirare il proprio capitale forzando il management in una direzione piuttosto che in un’altra. Il Ministro Tremonti ha detto che non ci saranno nazionalizzazioni. Bene. Ma non possiamo dimenticare che la politica, in Italia, ha storicamente avuto un forte desiderio di controllo del sistema bancario. Non possiamo dimenticare i tempi non troppo lontani in cui i partiti si spartivano le Presidenze e i Consigli di Amministrazione delle banche. E non riusciamo neanche a dimenticare che proprio il Ministro Tremonti propose, alcuni anni fa, di porre sotto il controllo della politica le fondazioni bancarie. Questo governo sembra che abbia la nostalgia dei bei tempi passati in cui c’erano il maestro unico, il grembiule e il sussidiario. Speriamo non abbia anche nostalgia delle Bin, le banche di interesse nazionale.
Nei giorni scorsi il governo ha varato un piano di intervento le cui linee guida sono pienamente condivisibili, e che certamente ha rassicurato molti risparmiatori italiani. Purtroppo le dichiarazioni rese oggi pomeriggio dal Presidente del Consiglio rischiano di avere leffetto opposto. Esse contengono due gravi errori.
Il primo errore consiste nellaccennare alla possibilità di sospendere le contrattazioni sui mercati, salvo smentire confusamente tale dichiarazione pochi minuti dopo. Chiudere i mercati in questo momento è come spezzare il termometro al capezzale di un malato con la febbre alta: così si finisce per non sapere più neanche quanto sia grave la sua malattia. Inoltre, imporre la chiusura dei mercati equivarrebbe a produrre la totale illiquidità dei titoli in un momento in cui tutto ciò che può dare liquidità è essenziale: ciò accescerebbe solo il panico in coloro che sono incerti se vendere o no i propri titoli, e farebbe sospettare ai risparmiatori che il governo stesso sia in preda al panico e alla confusione.
Il secondo grave errore è stato quello di consigliare ai risparmiatori di comprare azioni ENEL ed ENI. Non spetta al Presidente del Consiglio dare suggerimenti su quali società in cui investire i propri risparmi, specie considerato che in queste società lo Stato è lazionista di controllo. Ciò rischia di turbare gravemente il normale funzionamento del mercato.
Cè da augurarsi che la Consob intervenga immediatamente, con grande chiarezza e decisione su entrambe le questioni. Il suo silenzio sarebbe gravemente colpevole, e fonte di ulteriore disorientamento per i risparmiatori. Cè anche da augurarsi che in futuro ci sia maggior cautela da parte degli esponenti del nostro Governo: in questi giorni, una loro frase incauta può avere conseguente drammatiche. È lultima cosa di cui abbiamo bisogno.
Il Ministro Tremonti ha minacciato di dimettersi se dovesse passare lemendamento, inserito ad opera di due parlamentari nel decreto sullAlitalia, che metterebbe al riparo una serie di managers implicati in recenti e non dimenticati scandali finanziari. La scelta del Ministro e un passo importante verso la moralizzazione delleconomia italiana. Ne potrebbe compiere unaltro, con lo stesso spirito e nella stessa direzione. Riveda quella norma contenuta nel decreto del Ministro del Tesoro (1998, n° 516) che fissa le incompatibilità con lesercizio della funzione di amministratore presso un intermediario finanziario per chi ha subito una condanna definitiva. Renda questo criterio più stringente e lo ampli anche a chi ha procedimenti a carico in corso o subito condanne non definitive. E vero che si rischia di rovinare la carriera di un innocente, ma ben peggiore è il rischio dati i tempi della giustizia italiana di lasciar gestire per anni a un potenziale truffaldino i soldi degli altri.
Il 3 ottobre la Sapienza di Roma, il più grande ateneo dItalia e dEuropa, ha eletto il proprio rettore. Luigi Frati, da 17 anni preside di Medicina e Chirurgia1. diventa il terzo rettore consecutivo della Sapienza di Roma con uno o più figli nella sua stessa università. Nel suo caso, entrambi sono stati chiamati (ed uno di questi nella sua stessa facoltà) quando egli era già preside. Ma in facoltà gli fa compagnia anche la moglie, ex insegnante di lettere al liceo, ora ordinaria di Storia della Medicina. Proprio in questi giorni si sta svolgendo sul sito repubblica.it lennesima raccolta firme di accademici per chiedere maggiori finanziamenti alluniversità. Ma prima di chiedere soldi al contribuente, non sarebbe più credibile dare unaltra immagine di sé al paese? Se la maggioranza del più grande ateneo italiano elegge per tre volte consecutive un rettore che si circonda di parenti, non è legittimo nutrire qualche dubbio su come verranno spesi questi fondi? Per rispondere a questa domanda forse può aiutare la visione di questo video delle Iene sulla festa di nozze della figlia del neo-rettore, svoltasi (incredibile ma vero) nellAula Grande della Sapienza
Nel dibattito in corso sulla crisi si intersecano e si confondono due piani:
a) Le misure da adottare per evitare che la crisi di fiducia tra banche dilaghi in crisi di fiducia verso le banche;
b) Le misure da adottare per migliorare la regolamentazione dei mercati alla luce di quanto imparato dalla crisi. Le prime misure sono il problema delloggi e non vi è moltissomo tempo per dibattere sui dettagli. Lapprovazione in seconda battuta del Piano Paulson da parte del congresso risponde a questa necessità. Approvato il piano e rassicurati i mercati sulla sua implementazione vi è uno spazio per meglio definirne alcune modalità, ma questo spazio è contenuto nel tempo. Se anche l’Europa riuscisse ad adottare misure analoghe in tempi ragionevoli le chance di successo nel bloccare la crisi si accrescerebbero di molto.
Vi è invece molto più tempo per rivedere i meccanismi di regolamentazione, negli Stati Uniti e in Europa, per correggerne i difetti che si sono manifestati durante la crisi. Qui il tempo disponibile occorre prenderlo tutto per pensare accuratamente cosa fare. Vi sono tre ragioni per questo:
1. Qualunque nuova regolamentazione non serve a fermare la crisi in atto ma a prevenire quelle future; il suo successo dipende da una buona comprensione di cosa non ha funzionato negli strumenti di regolamentazione disponibili.
2. La storia insegna che la reazione alle crisi è liper-regolamentazione del mercato. Accadde dopo la Grande Depressione con una severa repressione finanziaria e il costo è stato molto elevato (pensiamo alle quotidiane lamentale degli imprenditori italiani sulladifficoltà di ottenere finanziamenti dalle banche).
3. Non abbiamo solidi principi guida sul disegno e il dosaggio della regolamentazione dei mercati finanziari; la regolamentazione è guidata dallesperienza e dagli sviluppi empirici. Sappiamo però anche che una regolamentazione lasca espone a instabilità finanziaria; ma anche che la regolamentazione che elimina le crisi elimina anche leconomia. Il giusto dosaggio richiede unaccurata ponderazione.