Il Presidente dell’Inps Mastrapasqua, nel corso di un’audizione parlamentare, si è rifiutato di rilasciare dati sul numero dei cosiddetti lavoratori “esodati”, lavoratori bloccati dalla riforma pensionistica varata dal governo in novembre e precedentemente licenziati dalle loro aziende nell’aspettativa che avrebbero poi fruito delle pensioni d’anzianità. Come è noto, il Governo aveva inizialmente ignorato il problema e poi fortemente sottostimato il loro vero numero. Si trova così ora a dover reperire faticosamente risorse per finanziare ammortizzatori sociali che, presumibilmente, costeranno di più delle pensioni d’anzianità inizialmente previste per loro. Il Presidente dell’Inps ha detto in Parlamento che i dati li darà solo al Governo. Peccato che sul sito dell’Inps venga esplicitamente sostenuto che l’Inps vuole offrire un contributo alla conoscenza e all’analisi dei principali elementi del sistema di previdenza e d’assistenza del nostro Paese.” Rientra, in effetti, tra le funzioni istituzionali dell’ente, quella di fornire statistiche sulla copertura dei sistemi assicurativi e assistenziali che gestisce.
Non è la prima volta che Mastrapasqua mostra di ignorare i compiti di informazione del suo istituto. Nota la sua dichiarazione riguardo allopportunità di informare i giovani sul loro futuro previdenziale: se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati, rischieremmo un sommovimento sociale. I comunicati stampa dell’Inps sotto la gestione Mastrapasqua offrono sistematicamente poche informazioni e tantissime interpretazioni in genere favorevoli al governo in carica. Ad esempio, al picco delle ore di Cassa Integrazione nellagosto 2010, il comunicato Inps sottolineava come diminuisce ancora il tiraggio della cassa integrazione, vale a dire il grado di utilizzo delle ore autorizzate . Singolare che il comunicato non riportasse il numero di ore utilizzate, ma solo le percentuali di cosiddetto tiraggio. Il fatto è che moltiplicando le percentuali di tiraggio riportate dal comunicato per il numero di ore autorizzate, si sarebbe scoperto che lutilizzo della Cassa era aumentato.
Forse è per questa sua “capacità comunicativa” che Mastrapasqua sta superando ogni record di durata alla guida dell’istituto. E il decreto salva-Italia ha salvato la sua poltrona per altri 3 anni. L’art 21, comma 9, della legge 214/2011 infatti, ha prorogato la durata in carica del Presidente dell’INPS fino al 31 dicembre 2014.
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Ennesima puntata dal calcioscommesse. Andrea Masiello, ex capitano del Bari, si è autoaccusato di avere venduto la il derby con il Lecce del maggio scorso per circa 300mila euro (da dividere con alcuni compagni di squadra), contribuendo attivamente alla sconfitta della sua squadra con un autogol intenzionale. Una delle domande più ovvie è: perché in Italia? Perché non ci sono partite truccate in Premier League o in Bundesliga?
Una possibile spiegazione viene dalle parole di Masiello, il quale, per giustificare la combine, ha detto che il Bari non pagava più gli stipendi e pertanto i giocatori dovevano arrangiarsi. Cè dunque una connessione tra le partite truccate e lo stato economico disastrato del calcio italiano emerso recentemente da un rapporto di Figc, Arel e Pricewaterhousecoopers. Per quanto si pensi che tutti i calciatori siano super-ricchi, in realtà molti di essi lo sono solo sulla carta, dato che le società pagano spesso in ritardo gli stipendi e non sempre interamente. Non è un caso che i nomi implicati siano quelli di giocatori di secondo piano o vicini alla fine dellattività agonistica, cioè coloro per cui è più pressante il problema di cosa fare dopo il calcio giocato. Nessuno deve piangere per i problemi dei calciatori, che restano mediamente dei privilegiati, beninteso, ma mettere sullo stesso piano Masiello e Ibrahimovic è solo populismo.
Cosa si può fare allora per evitare altri casi Masiello? In primo luogo sarebbe bene che il controllo sui conti delle società, fatto dalla Covisoc, fosse più rigoroso in modo tale da evitare che i calciatori rimangano senza stipendi per mesi. Saranno anche pagati troppo, ma se cè un contratto esso va rispettato per tutti, anche per i calciatori. Bisognerebbe inoltre riflettere sulla possibilità di ridurre il numero di squadre ammesse alla serie A e alla serie B. Alcune di esse sono palesemente inadeguate dal punto di vista finanziario alla sfida. Il Bari lo scorso anno era di fatto retrocesso dopo poche giornate, come il Cesena questanno. Anche senza che le partite siano vendute, il campionato risulta ugualmente falsato. In terzo luogo, dobbiamo penalizzare severamente i protagonisti delle combine. Platini, presidente dellUefa, propone una radiazione a vita, che impedisca ai corrotti anche di diventare allenatori o dirigenti. Bene. Ma bisogna ricordare che truccare una partita di calcio non è quasi mai unattività individuale. Ci vuole che ci sia laccordo di un gruppo di giocatori per essere certi di indirizzare il risultato. Questo implica che nella squadra interessata da una combine ci siano delle voci che girano (il portiere del Bari Gillet aveva forti sospetti sullautogol di Masiello, come si vede dal filmato diffusissimo ormai sulla rete). La vera domanda è allora: possibile che le società coinvolte non sapessero nulla? Nessun dirigente parlava con la squadra? Nessuno aveva dei sospetti sui calciatori implicati? Se così fosse le società sarebbero responsabili quanto meno di mancato controllo dei loro tesserati. Sta a loro fare in modo che le squadre vadano in campo per cercare di ottenere, nei limiti delle loro possibilità, il miglior risultato sportivo. In altre parole, occorre riflettere sulla possibilità di sanzionare le società per le loro omissioni nella sorveglianza dei calciatori. Certo, è una strada non priva di controindicazioni perché non è mai semplice accettare il principio del non poteva non sapere come base per una sanzione, ma non è nemmeno tollerabile che gli spettatori, dopo un autogol, debbano chiedersi se cè dietro una combine.
Il Governo insiste che non cambierà una virgola della riforma del lavoro. Ma la riforma ancora non cè. Due lettere inviate ai quotidiani nei giorni scorsi dai ministri Fornero e Patroni Griffi hanno chiarito che non è affatto chiaro ciò su cui politici, tecnici e parti sociali si stanno scazzottando (lespressione è di uno dei pugili, Pierluigi Bersani). La prima lettera ci informava del fatto che il Governo deve ancora definire il regime che si applicherà alle partite Iva e che le proposte saranno messe a punto entro pochi giorni. La seconda lettera sosteneva che la riforma comunque non si applicherà al pubblico impiego, contravvenendo al testo licenziato solo due giorni prima dal Consiglio dei Ministri e aprendo conflitti fra dipendenti pubblici e privati nonchè possibili problemi di costituzionalità della riforma.
Non si tratta certo di aspetti secondari. Coinvolgono milioni di lavoratori. Questi chiarimenti che intervengono dopo settimane di tira e molla nella cosiddetta concertazione, riunioni Abc che annunciano accordi sul testo elaborato dal tavolo e, infine, un Consiglio dei Ministri che ha approvato la riforma ci pongono alcuni quesiti inquietanti. Di cosa hanno mai discusso al tavolo? Di cosa si è parlato in tutto questo tempo se nodi così essenziali non sono ancora stati definiti? Su cosa ci si è confrontati nei tavoli tecnici? E come è possibile che il confronto politico possa aspirare ad una sintesi, fondata su soluzione pragmatiche anziché contrapposizioni ideologiche, se non cè una base di proposte ben definite da cui partire? Attorno a cosa bisogna aspirare a raccogliere il consenso? Ancora, perché alimentare ansie di lavoratori e datori di lavoro annunciando provvedimenti ancora non ben definiti? Perché creare cosi tanta inutile incertezza attorno al modo con cui verranno regolati in futuro i rapporti di lavoro?
Mai forse come in questo caso il diavolo è nei dettagli. Per definire questi dettagli bisogna scrivere un testo di legge e simulare gli effetti, i costi, di diverse alternative. Invece di molti richiami di circostanza ad un confronto civile e meno ideologico, dovremmo tutti chiedere al governo: per favore dacci un articolato!
Simili al Conte Ugolino, gli azionisti di a2a (i comuni di Milano e di Brescia) si buttano sulla loro impresa in pessime condizioni finanziarie e la spolpano per saziare la loro fame.
La notizia è di quelle curiose. Abbiamo unimpresa quotata in borsa (a2a, una delle maggiori multi-utility italiane), che presenta i conti per il 2011, conti caratterizzati da un utile netto negativo per 420 milioni. Questo risultato è dovuto a 168 milioni di utile sulla gestione ordinaria, vanificati purtroppo da oltre 600 milioni di svalutazioni, soprattutto legate alla chiusura della pessima operazione Edison (conclusasi infatti con una minusvalenza) e allo sventurato investimento in Montenegro (che continua a generare perdite). A fronte di queste perdite cosa fanno gli azionisti di controllo (i comuni)? Deliberano di distribuire dividendi.
Si ricordi ma i nostri lettori questo ben lo sanno che i dividendi rappresentano quote di utile che, invece di essere reinvestite, vengono distribuite agli azionisti come parziale remunerazione del loro investimento. Quote di utile, non di perdite
E invece gli azionisti constatano le perdite, e distribuiscono dividendi che non sono bruscolini, parliamo di circa 40 milioni di euro.
Per certi versi li capisco, intendiamoci. I bilanci dei comuni/azionisti, soprattutto per il comune di Milano, versano in uno stato anche peggiore di quello di a2a, così che spolpare limpresa delle sue risorse è uno dei pochi modi per tenere a galla i bilanci comunali. Ma questo comportamento impoverisce limpresa, ne diminuisce le capacità di investire, ne compromette la capacità di finanziarsi (se questo è il modo in cui gli azionisti tengono allimpresa, cosa potranno pensarne i mercati?) Si noti in particolare che a2a è molto presente in settori che hanno un bisogno disperato di investimenti (servizio idrico, rifiuti….) così che i comuni sicuramente rallentano processi di investimento dei quali il territorio ha bisogno. Si chiama depauperamento del patrimonio pubblico.
Il difetto sta nel manico. Mi ricorda qualche impresa ormai defunta nella quale il titolare ha passato la mano ai suoi numerosi eredi, i quali usano limpresa di famiglia per sostenere il loro tenore di vita. Se un azionista non ha soldi, e se utilizza limpresa per finanziare le sue spese correnti, siamo allinizio della fine.
Sale a dieci il numero dei membri del Consiglio Regionale Lombardo indagati dalla Magistratura per episodi di corruzione. Quasi una squadra di calcio. Non vogliamo entrare nel merito delle singole vicende e delle accuse, sulle quali indagini e processi potranno dare il verdetto finale. Ma guardando allinsieme degli episodi si ottiene indubbiamente un quadro impressionante di come la corruzione oggi si manifesti e quali guasti nella selezione del personale politico comporti. Il rapporto tra pubblici amministratori e imprese si manifesta nelle forme di una coalizione stabile, che coinvolge su molti episodi diversi le stesse persone, nelle quali lo scambio tra favori e finanziamenti si intreccia tra episodio e episodio, passando da una vicenda ad unaltra in un quadro stabile di collaborazione e mutuo interesse. Coalizioni che richiedono professionalità specifiche, i broker della mazzetta, capaci di portare il proprio patrimonio di relazioni e di individuare connessioni tra un episodio e un altro che danno continuità e cementano certe alleanze infedeli. Se questo, alla fine, ricade sulle tasche dei contribuenti, vero costo della politica, attraverso un gonfiamento della spesa pubblica e una bassa qualità delle opere realizzate, è una seconda implicazione che ulteriormente inquieta. Si ha infatti la netta impressione che la capacità di costruire queste relazioni infedeli del pubblico amministratore con il settore privato sia oggi uno dei fattori di successo nelle carriere politiche locali, e un meccanismo di selezione a cui le forze politiche non sanno resistere. Con un impatto importante e trasversale, testimoniato dal numero e dalla provenienza politica della squadra di indagati della Regione Lombardia. E una domanda ad oggi senza risposta: se questa squadra assomigli di più a un gruppetto di amici che si ritrovano tra loro, o sia una attività organizzata con tanto di allenatore.
Da anni si parla di spending review, di analisi minuziosa di ogni capitolo di spesa, volta ad accertare e rimuovere sprechi di denaro pubblico, ma sin qui nulla è dato sapere sulle modalità e sui primi esiti di questo processo. Dovrebbe riguardare non solo l’amministrazione centrale dello Stato, ma anche le amministrazioni pubbliche soggette alla vigilanza dei ministeri. Il principio dovrebbe essere quello di identificare spese che non contribuiscono a raggiungere gli obiettivi che sono stati affidati alle diverse amministrazioni o che li raggiungono solo a fronte di spese molto più alte del necessario. La legge che istituisce le spending review richiede espressamente il contributo dei cittadini e degli esperti nell’identificare questi sprechi.
Ecco allora un nostro primo modesto contributo. Girando tra i siti delle amministrazioni pubbliche abbiamo trovato all’indirizzo un “programma di sostegno a progetti sperimentali ed innovativi” della Civit, la Commissione di valutazione della pubblica amministrazione istituita dal ministro Brunetta e affidata ad Antonio Martone. Il costo del programma è di 4,3 milioni di euro. La Civit, come recita il suo stesso nome, ha come finalità istituzionale quella di garantire la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche. Non sappiamo chi abbia valutato questo progetto prima di approvarlo. Sappiamo solo che stanzia 800.000 euro per realizzare il “portale della trasparenza”, 470.000 euro per “l’individuazione di metodologie di misurazione e valutazione adottate dalle pubbliche amministrazioni”, 400.000 euro per la “ricognizione degli strumenti di programmazione, controllo e rendicontazione della performance”, 400.000 euro per “la sperimentazione di un progetto per la misurazione e valutazione dell’apporto di ciascuno all’outcome”, e così via, con una serie di sottoprogetti che essenzialmente ripetono tutti la stessa cosa ma spezzano i 4,3 milioni in importi più piccoli.
Qualcosa ci sfugge. Non sono proprio questi i compiti istituzionali della Civit? E allora perché è necessario valutarli sperimentalmente impegnando una mole così ingente di risorse? Dato che questo progetto prevede anche “lo snellimento dei processi organizzativi al fine di ridurne gli sprechi”, vogliamo noi fornire il nostro “apporto all’outcome”: aboliamo questo progetto. E ragioniamo sul significato di un organismo come la Civit che costa ogni anno 8 milioni di euro alle casse dello Stato per sperimentare come valutare sperimentalmente la valutazione. Di se stessa.
Il decreto cresci Italia doveva essere rafforzato nel passaggio parlamentare, estendendo e approfondendo le liberalizzazioni in modo da irrobustire gli effetti di sinergia tra le varie misure e dare così un contributo sostanziale alla crescita dellItalia. Stabilendo tempi brevi per la separazione fra Eni e Snam, cambiando la governance degli ordini professionali (separando il sindacato degli iscritti dalla tutela dei consumatori), intervenendo con più decisione su ferrovie, porti e aeroporti, nonché sulle banche e le assicurazioni con stimoli alla concorrenza anziché interventi dirigistici (come il divieto della discriminazione di prezzo o i conti correnti gratuiti per i pensionati). Ancora, bisognava togliere lesclusiva alle farmacie nella vendita dei farmaci tipo C e abolire del tutto i vincoli al numero di farmacie e di notai. Ma forse era difficile aspettarsi che un parlamento con 341 fra avvocati, medici, ingegneri, commercialisti, architetti, notai, giornalisti e farmacisti (più di un terzo del numero totale di deputati e senatori) avrebbe liberalizzato di più del decreto.
Cè stata invece la diluizione del provvedimento: a leggere il testo del Maxi-emendamento presentato ieri e su cui il governo chiederà la fiducia al Senato, la X Commissione ha imposto alcune marce indietro significative. Il fatto più grave è la data fissata per la separazione fra Eni e Snam: settembre 2013, quando questo Governo non ci sarà più. Sappiamo bene che i provvedimenti lasciati a metà fra due legislature finiscono quasi sempre nel nulla. Perché non fissare allora come data limite il marzo 2013 che avrebbe comunque dato tempo sufficiente per completare loperazione? Le altre diluizioni sono meno gravi. È stato varato lincremento nel numero di farmacie ma in misura minore di quanto previsto dal decreto originario del governo, tolto lobbligo di preventivo per gli avvocati e lasciato che siano i Comuni a decidere sul numero di licenze di taxi (previo parere, non vincolante, della nuova Autorità dei trasporti). Sulle banche si rafforza ancora di più il dirigismo, abolendo qualsiasi commissione per la pratica del credito. La ratio è che, dato che ci sono tetti sui tassi di interesse, si vuole evitare che le banche per rifarsi aumentino le commissioni. Ma in questo modo si rischia solo di restringere ancora di più laccesso al credito in un momento in cui il credit squeeze è marcato. Siamo allantitesi delle liberalizzazioni. Di questo passo dovremmo tornare alle Bin, banche di interesse nazionale. La vera novità positiva è la decisione di istituire subito lAutorità sui Trasporti (non rinviando a un futuro disegno di legge) e anzi di renderla operativa in breve tempo. Da essa ci si attende una regolazione più razionale e nuova propulsione alla concorrenza in un settore che ne ha molto bisogno.
Si sapeva che il decreto privatizzazioni avrebbe portato tensioni con le parti in causa. Era da mettere in conto che le categorie più protette, dai tassisti ai farmacisti passando per gli avvocati avrebbero protestato, anche in forme molto aspre. Ma che l’Associazione bancaria italiana arrivasse al gesto plateale delle dimissioni in massa dell’organo di vertice per protesta contro le misure prese da un governo che comprende colui che è stato fino ad ieri amministratore delegato della più grande banca italiana, sfiora il sublime del surreale, degno delle migliori commedie di Ionesco. Il problema non è tanto l’oggetto del contendere, quello delle misure in materia di commissioni bancarie, quanto nella guerra di religione che è stata scatenata. In gioco ci sarebbe la libertà di impresa, il posto di lavoro di 300 mila bancari (apprendiamo che tutti si occupano solo di commissioni) e via elencando in un mulinare di draghinasse. Il fatto è che questa presidenza dell’Abi, in netta discontinuità con tutte quelle precedenti, ha scelto fin da subito la linea dello scontro frontale. Nei mesi passati, la parte del cattivo è stata assegnata alle autorità di vigilanza che chiedevano alle banche di aumentare il capitale e poiché con la Banca d’Italia non ci si può mettere in urto, non è sembrato vero sferrare attacchi feroci contro quella europea, l’Eba, colpevole di aver seguito le indicazioni del Consiglio europeo e di aver condotto un nuovo stress test che ha messo in evidenza un deficit di capitale per 119 miliardi complessivi. Si badi che solo due mesi prima il Fondo monetario internazionale aveva detto che il fabbisogno di capitale delle banche europee era di 200 miliardi. Ma la tesi secondo cui le banche stanno benissimo, sprizzano dalla voglia di concedere prestiti alle imprese, ma non possono farlo solo per l’ottusità di un regolatore europeo, era troppo facile da cavalcare ed è stata anche amorevolmente assecondata da una parte non piccola della stampa.
Una strategia, al di là di ogni giudizio sullo stile, che non porta lontano, anche perché l’ultima clamorosa decisione mette in evidenza un dilemma drammatico. Delle due l’una: o le banche si rifiutano di fare la loro parte, nel momento in cui si chiedono sacrifici a tutti. Oppure sono in condizioni così fragili che non si possono permettere il lusso di un ritocco, piccolo o grande che sia, ai loro ricavi. In ogni caso, sarà bene che qualcuno si affretti ad accettare le dimissioni.
Una serie di veti incrociati dei partiti nella X Commissione del Senato sembra stia riducendo la portata delle liberalizzazioni previste nel decreto cresci Italia del 24 gennaio scorso. Quel provvedimento, lo avevamo scritto, andava rafforzato per essere davvero incisivo nello stimolare la crescita. Invece, viene sistematicamente diluito. I partiti pretendono che sui taxi si rimettano le decisioni sulle licenze e sulle tariffe nelle mani dei sindaci, da sempre straordinariamente attenti alle richieste e, talvolta, ai ricatti dei tassisti e poco alle esigenze di chi il tassista vorrebbe fare e dei cittadini che un taxi vorrebbero prendere. Alla costituenda Autorità dei trasporti verrebbe lasciato il compito di esprimere un parere in materia: si dovrebbe trattare di un parere obbligatorio e quindi i sindaci dovrebbero motivare adeguatamente le loro eventuali decisioni difformi, ma si sa che la politica locale tende ad avere un senso della vergogna piuttosto basso. Lassalto lobbistico sta anche rimettendo in discussione la possibilità di aprire nuove farmacie e la liberalizzazione dei farmaci di fascia C. Sta anche cercando di diluire nel tempo (fino forse a perderla in un indeterminato futuro) la separazione tra Snam (rete gas) ed Eni, e di azzerare quel pochissimo che il decreto conteneva sulle banche. E quando si parla del settore dellenergia e di quello del credito nessuno può dire che si tratti di noccioline!
Al di là dellimportanza dei pezzi persi dal provvedimento nel suo passaggio parlamentare, rimane il segnale politico. Il presidente del consiglio aveva invitato i partiti a non stravolgere limpianto del decreto. Oggi proprio questo sta avvenendo. Inoltre ad avere un impatto significativo non sono tanto le singole misure, sui taxi o sulle farmacie, ma linsieme dei provvedimenti. Se linsieme si assottiglia, il rischio è che il risultato finale sia molto rumore per nulla. Ci sono tanti veti incrociati anche nella trattativa sul mercato del lavoro. Al punto che, cercando misure condivise da tutti, delle tante riforme messe sul piatto non sembra rimanere proprio nulla. Come pensa il governo di andare avanti senza il consenso dei partiti e delle parti sociali nella cruciale (ma ancora poco delineata) riforma del mercato del lavoro quando appare disponibile a cedere ai veti incrociati di lobbies ristrette ma ben rappresentate in Parlamento?
In un paese schierato contro i giovani non si esita ad accusare di nepotismo i figli anziché i padri. E più bravi sono i figli, più pesanti sono le accuse. Nei giorni scorsi abbiamo assistito a una vera e propria gogna mediatica contro Silvia Deaglio, professore associato di medicina all’Università di Torino. Avrebbe fatto una carriera brillantissima solo grazie ai suoi genitori, Elsa Fornero (da due mesi Ministro del Welfare) e Mario Deaglio (Professore di Economia). Nepotismo significa che genitori inetti impongono alla collettività figli inetti. Ognuno è libero di farsi unopinione dei genitori. Sono entrambe persone conosciute. Molto meno conosciuta è la figlia, la vera vittima di questa persecuzione. Opera in un campo diverso dei suoi genitori, le scienze mediche. Lavora nello stesso ateneo di questi, luniversità di Torino. Ma questo di per sé non significa nepotismo: qualunque facoltà di medicina italiana dovrebbe infatti fare di tutto per avere Silvia Deaglio nel proprio corpo docente.
Guardiamo a due misure dell’impatto della sua ricerca: l’indice h (misura il numero di lavori pesandoli per il numero di citazioni ricevute) e il numero totale di citazioni. Come si vede dai grafici qui sotto, in tutte e due queste misure, Silvia Deaglio è nella parte alta della distribuzione delle persone della sua età che hanno un posto nelle facoltà di medicina in Italia, quattro volte al di sopra della media. E’, in altre parole, un’eccellenza. Vogliamo fare una proposta: chi l’accusa di portare via il posto ad altri più meritevoli, non si nasconda dietro agli pseudonimi così frequenti sul web. Si dichiari, nome, cognome e disciplina e ci dia così modo di misurare l’impatto anche delle sue ricerche.