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Parlando dell’inadeguato riconoscimento economico del contributo delle donne alla società italiana, spesso si dimentica di ricordare che il divario di genere sul mercato del lavoro è significativamente diminuito negli ultimi anni.
I numeri dicono che il divario c’è ma oggi è più piccolo di ieri. Nel 2007 – prima della crisi – erano attivi sul mercato del lavoro (perché occupati o perché disoccupati ma attivamente alla ricerca di un lavoro) 75 uomini su cento. Le donne attive erano invece solo il 51 per cento, poco più della metà del totale delle donne. Il divario di genere nella partecipazione al mercato del lavoro era dunque di 24 punti percentuali. Nel 2014 le cose sono cambiate. Gli uomini attivi sul mercato del lavoro sono scesi a 73,5 su cento, mentre la quota delle donne attive è salita al 53,5 per cento. Così il divario è sceso a 19 punti percentuali. Meno cinque punti in sette anni.
E’ vero che la percentuale di donne occupate rimane nel 2014 inchiodata al 46,5 per cento, tale e quale al numero registrato nel 2007. Un deludente stop rispetto ai trend positivi degli ultimi vent’anni. Ma agli uomini è andata molto peggio: la percentuale di occupati uomini è scesa dal 70,5 al 64 per cento. E le donne che oggi vorrebbero entrare nel mercato del lavoro e invece rimangono disoccupate, fino al 2007 nemmeno provavano a cercarne uno. Una disoccupata spera di vincere la lotteria del lavoro, un’inattiva ha smesso o non ha mai cominciato a sperare.
Nella crisi le donne si sono difese meglio degli uomini, forse perché è scomparso un quarto del manifatturiero dove le donne sono meno rappresentate. Ma forse si può ben sperare per il futuro del divario di genere. La nuova occupazione sarà più spesso creata nei servizi che non nel manifatturiero. E le misure per ridurre il divario hanno appena cominciato a dare risultati misurabili. C’è ancora un soffitto di cristallo nelle posizioni di vertice in grandi aziende, università, media. Ma i dati di oggi sul mercato del lavoro suggeriscono più ottimismo rispetto al passato.
L’assoluta necessità dei politici di essere sempre sulle prime pagine dei giornali produce a volte delle conseguenze paradossali. Matteo Salvini, il segretario della Lega Nord, è onnipresente in televisione, con lo scopo preciso di conquistare l’elettorato del Sud, maggiormente colpito dalla crisi e dunque potenzialmente più sensibile al nuovo nazionalismo lepenista e anti-Euro di cui la Lega si è fatta portatrice. Per far questo tuttavia, il segretario ha dovuto seppellire l’antica bandiera secessionista-federalista, da sempre vista come uno spauracchio nel Mezzogiorno. Nel contempo però, Roberto Maroni, il governatore leghista della regione Lombardia, ha il bisogno opposto, quello di rinsaldare le fila in vista di elezioni future, e dunque lancia un referendum autonomista, che se avesse qualche effetto pratico, spaventerebbe lo stesso elettorato che Matteo Salvini cerca affannosamente di conquistare. Misteri della politica.
Naturalmente, al di là degli aspetti mediatici, il referendum lombardo, essendo puramente consultivo, non avrà alcun effetto concreto. Le materie su cui dovrebbero esprimersi gli elettori (quelle potenzialmente delegabili alla Regioni sulla base dell’attuale articolo 116 della Costituzione) sono poi del tutto marginali, e anche se delegate in toto non cambierebbero la vita dei cittadini lombardi di una virgola. Certo non rappresenterebbero un passaggio all’agognato sistema fiscale del trentino, oltretutto ormai parecchio bastonato dallo stato centrale. Ma il referendum non sarà probabilmente presentato così, con il rischio di rendere la consultazione del tutto inutile anche da un punto di vista di mero sondaggio d’opinione. Un referendum del tipo preferito dal mitico Catalano (“vuoi tu essere ricco e autonomo o preferisci essere povero e vincolato?”) non è di grande utilità informativa. Un sondaggio oltretutto costoso, 30 milioni di euro. Appoggiato dai consiglieri del Movimento 5 stelle, i fustigatori degli sprechi nella politica, perché in cambio hanno ottenuto che il referendum si svolga anche con voto elettronico. Un click vale davvero 30 milioni?