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Categoria: Concorrenza e mercati Pagina 44 di 82

E ORA CHI PAGA PER L’ACQUA?

Il sì al secondo referendum sull’acqua dice che le tariffe idriche non devono remunerare il capitale. E le imprese che gestiscono il servizio ora bloccano gli investimenti. Miliardi di investimenti all’anno per molti anni sono a rischio. Nell’immediato, serve almeno una norma interpretativa transitoria “salva-investimenti”. A regime, si deve scegliere se rinunciare agli investimenti o aumentare le imposte per salvare il settore. L’alternativa è tradire un’altra volta la volontà popolare.

LA POLITICA ECONOMICA PER USCIRE DALLA CALMA PIATTA

La calma piatta dell’economia italiana nei primi mesi 2011 è il riassunto di situazioni molto diverse. C’è chi langue sul mercato interno e chi sta sfondando sui mercati lontani. Ma se le aziende che esportano stanno in piedi con le loro gambe, la politica economica dovrebbe sostenere la domanda interna. Senza devastare i conti pubblici. Non serve la riforma fiscale complessiva di nuovo in agenda. Meglio la ripresa delle liberalizzazioni e un piano anti-burocrazia, oltre a specifici interventi fiscali e legislativi sul mercato del lavoro.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Molti sono stati i commenti al nostro articolo. Non è possibile rispondere a ciascuno. Così scegliamo di rispondere (collettivamente) solo ai lettori critici, lasciando da parte quelli che hanno mostrato apprezzamento per i nostri argomenti e hanno avanzato anche spunti meritevoli di approfondimento. Tra i critici prevalgono gli argomenti contrari alla privatizzazione, e ci attribuiscono addirittura una "voglia di privato" dedotta non si sa bene da che cosa. Ma non era e non è nostra intenzione discutere di questo: ognuno la pensi come vuole e vada o non vada a votare come vuole. Non è nostra intenzione dare indicazioni di voto. L’importante è che sia chiaro a tutti per cosa si va a votare. Alcuni degli argomenti critici potrebbero trovarci in linea di principio d’accordo (Stiglitz l’abbiamo studiato anche noi), se quella di cui stiamo parlando fosse davvero una privatizzazione: peccato che, invece, non lo sia affatto.
La campagna referendaria ha profuso una grande quantità di inesattezze e forzature, che ormai hanno dato vita nella mente delle persone a un mostro virtuale. Qui non si tratta di monarchia o repubblica. Non stiamo parlando di sottigliezze, ma di qualcosa di sostanziale. Alla gente che va a votare si sta facendo credere che il voto è "contro la privatizzazione" e "contro l’ingiusto profitto". Perfino la RAI, negli spot informativi, descrive la norma oggetto del primo quesito come quella che "consente l’affidamento della gestione a privati" (sic). Ci dispiace per chi in buona fede lo ha creduto e tuttora lo crede, ma purtroppo non è così.
Primo punto. Checché vi abbiano fatto credere, la norma oggetto del primo quesito non riguarda la privatizzazione dell’acqua (o del servizio idrico), bensì l’obbligo di gara. Se vincerà il no, non ci sarà nessun obbligo di privatizzazione, perché la legge non prevede quello. Se invece vincerà il sì, non ci sarà nessun divieto di coinvolgere privati, perché nella norma che riprenderebbe vita (la cui abrogazione parziale prevista dall’art. 23-bis verrebbe annullata) la gestione dei servizi a rilevanza economica può essere effettuata mediante società pubblica, concessione a privati o società mista, come infatti è stato finora.
L’unica cosa che cambierebbe veramente è che con la vecchia norma la scelta della gestione in house potrebbe avvenire in modo diretto e senza ulteriori spiegazioni (non solo per l’acqua, ma per tutti gli altri servizi locali). Con la nuova norma che si vuole abrogare, invece, il comune che desidera mantenere la gestione pubblica può farlo, (i) se riesce a dimostrare che la gara è inutile, meritandosi la deroga di cui al comma 3, oppure (ii) se l’azienda pubblica partecipa alla gara e la vince. Non esiste alcun obbligo di vendere il 40%: questa opzione serve solo se si vuole a mantenere l’affidamento esistente senza invocare la deroga, ma ci sono sempre le altre due strade, ugualmente possibili e legittime. Molte aziende si stanno organizzando per ottenere la deroga per il mantenimento dell’in house, e dati i criteri fissati molto generosamente dal DPR 168/2010, con ogni probabilità ci riusciranno.
Chi dunque sostiene che il referendum è "contro la privatizzazione", evidentemente non conosce bene la norma che vorrebbe vedere abrogata. E chi, pur conoscendola molto bene, continua a raccontare favole solo perché – se la verità venisse detta fino in fondo – la gente non andrebbe a votare, fa solo disinformazione. Il decreto Ronchi non obbliga nessuno a privatizzare. Abolirlo, non impedisce a nessuno di privatizzare. Chi non ne fosse ancora convinto, è pregato di informarsi meglio.
Secondo punto. Acqua gestita dal pubblico non vuol dire acqua gratis, perché i costi qualcuno li deve pagare. Che sia la fiscalità o la tariffa, questo qualcuno sono sempre i cittadini. È incredibile come tanta gente sembri non capire una cosa così elementare. L’impatto distributivo di fiscalità e tariffe non è identico, ma non è affatto scontato che la fiscalità sia più progressiva (e quindi più egualitaria) della tariffa. Discutiamo semmai di come costruire le tariffe in modo da evitare impatti sociali troppo gravosi: si può fare, ci sono molti modi per farlo. Ma ai referendari preme invece convincere i cittadini che le tariffe sono elevate per colpa del profitto, e che si possano abolire senza aggravio per la fiscalità. Parlano di "fallimento del full cost recovery": ma che fallimento sarebbe, visto che è praticato in tutto il mondo? E soprattutto dalle gestioni pubbliche che funzionano, dalla Scandinavia alla Germania, dall’Olanda agli Usa? Ma se poi gli si chiede come pensano di coprire quei costi cincischiano: li vogliono in fiscalità generale, ma senza aumentare le tasse.
E, nell’impossibile tentativo di far quadrare il cerchio (diritti per tutti, tariffe basse e niente nuove tasse), sono costretti a inventarsi o improbabili riduzioni di altri capitoli di spesa (i mitici cacciabombardieri, la solita riduzione dell’evasione fiscale); a sostenere cose impossibili, come il fatto che se si fanno investimenti per ridurre le perdite questo farà diminuire i costi, e permetterà di finanziare l’investimento con i risparmi, mentre qualunque tecnico sa che accadrà esattamente il contrario, ossia che per ridurre le perdite i costi devono aumentare; o a prospettare strumenti finanziari – patacca, come i bond irredimibili (un vero e proprio furto ai danni delle generazioni future, cui rimarranno i debiti da pagare ma non le reti, perché un bel giorno dovranno essere rifatte daccapo con tariffe più alte o nuovo debito).
La questione tuttavia è: ammesso che la fiscalità riesca a recuperare qualche margine di manovra, rinunciando al cacciabombardiere o catturando qualche evasore, per cosa è opportuno utilizzare in via prioritaria queste risorse? Per diminuire la pressione fiscale? Per gli ammortizzatori sociali, l’istruzione, il welfare, i beni culturali? Oppure per la bolletta dell’acqua? Perché usare il denaro pubblico per finanziare un obbligo di servizio universale che è già affermato e garantito (visto che l’acqua arriva già in tutte le case), e costa in media solo 90 euro all’anno pro capite (25 centesimi al giorno), ed è dunque già alla portata di (quasi) tutti? I cittadini devono sapere che acqua gratis non significa non pagare dazio, ma significa meno spesa pubblica in qualche altro capitolo. E’ legittimo scegliere più acqua a basso prezzo e meno welfare (noi non siamo d’accordo, ma sono ammesse opinioni diverse). Ma non è legittimo far credere che la scelta sia tra acqua gratis e acqua a pagamento.
Sembra che campagna referendaria stia riportando a galla una cultura tipica degli anni 70 e 80 del secolo scorso: quando tutti invocavano diritti, ma nessuno si preoccupava di come avremmo pagato i costi corrispondenti. Il risultato, allora, fu gran parte del debito pubblico che ancora abbiamo sulle spalle. Ci è servito per molti anni a pagare spesa corrente, dalle pensioni baby, a una sanità il cui costo sistematicamente sfondava i tetti previsti, a un settore pubblico usato come ammortizzatore sociale. Ora, non paghi di aver depredato le generazioni future con la finanza allegra di quel periodo, si imbrogliano le carte in modo da farci credere che questo ennesimo pasto gratis si auto-finanzi. I cittadini sappiano che, invece, i pasti gratis esistono solo nel paese dei balocchi. Su questo non sono ammesse "opinioni", così come non ne sono ammesse sulla legge di gravità. L’aritmetica può essere assai sgradevole, ma non è un’opinione, purtroppo (o per fortuna).
Ci preme peraltro di ricordare che, tuttavia, se il secondo referendum dovesse passare, verrebbe abolito l’inciso "adeguatezza della remunerazione del capitale investito", ma non il principio del "full cost recovery", ribadito nello stesso comma dello stesso articolo, giusto una riga dopo.
La tariffa, con o senza referendum, continua a dover coprire il costo del servizio, ossia il costo della gestione, l’ammortamento e il costo del capitale investito. Se la finanza pubblica vorrà mettere a disposizione circuiti agevolati, o al limite anche a fondo perduto, potrà eventualmente farlo (nessuno glielo impedisce: basta votare una legge finanziaria che lo preveda), ma finché non lo farà, il gestore i soldi li deve chiedere al mercato (ossia alle banche, agli investitori). E quel costo andrà pagato.
Terzo punto. L’acqua costa meno se la gestisce il pubblico? Qui si confonde il costo (ossia gli stipendi, i materiali, gli impianti, l’energia, gli interessi sui debiti) con la tariffa. Se le tariffe non coprono i costi, le aziende falliscono. Se le gestioni sono vincolate a recuperare i costi con le tariffe, una diminuzione di queste può aversi solo se i costi diminuiscono, ossia se la gestione diventa più efficiente (usa meno personale, acquista meno servizi o tecnologie meno costose), oppure se non si fanno gli investimenti. In un settore in cui la concorrenza non c’è e anche le gare funzionano male, la presunzione di superiorità del privato da questo punto di vista è spesso contraddetta dai fatti, ma se è per questo ciò non significa neppure il contrario. Vent’anni di studi empirici concludono sostanzialmente in pareggio, e mostrano che l’efficienza aumenta dove il sistema di regolazione funziona meglio (si può fare, senza dimenticare che anche la regolazione indipendente incontra limiti non è certamente una bacchetta magica). Niente osanna alla mano invisibile, dunque: ma neppure ostracismi a prescindere. Se molti lettori avessero la bontà di non partire in quarta citando esperienze note solo in via aneddotica e si volessero confrontare seriamente con la montagna di studi che la ricerca ha profuso in questi anni, scoprirebbero che le cose non sono così ovvie come la vulgata tende a far credere.
Ribadiamo che la norma (e il referendum) non intervengono su una tabula rasa, e che non è certo questo voto il modo per prendere posizione sulla questione. I piani d’ambito sono già approvati, la dinamica tariffaria già prevista (in base alle norme vigenti, uguali per tutti, che il referendum non abroga), le regole per definire revisioni dei piani sono già stabilite. Un’eventuale gara da lì dovrebbe partire; se l’offerta fosse uguale o peggiore rispetto a quella dell’affidamento già in essere, il comune avrebbe tutte le ragioni per mantenere l’affidamento in essere. Dunque le tariffe non possono aumentare oltre a quanto già previsto, ma semmai diminuire, o aumentare di meno.
Qualcosa potrà cambiare, semmai, se cambierà il metodo tariffario normalizzato, cosa che peraltro anche noi auspichiamo: sarà uno dei principali compiti della nuova agenzia di regolazione, che attendiamo al varco. La tariffa deve incentivare il gestore a ridurre i costi (si può: se ci riescono in altri paesi possiamo riuscirci anche noi), consentendogli di guadagnare il giusto (ossia, il costo del finanziamento sul mercato e il premio per il rischio che si assume investendo). Il rischio è una variabile che dipende dalla regolazione: più il costo va in tariffa "a piè di lista", più limitato è il rischio; più il costo è definito ex ante e tenuto fermo, più elevato è il rischio.
Ce n’è abbastanza, a questo punto per dire a tutti, critici e sostenitori: arrivederci a Trento, o meglio a Rovereto, dove sabato 4 uno di noi due (non vi diciamo chi) si scontrerà sul ring con Ugo Mattei, e voleranno, se questo è il clima, botte da orbi. Speriamo che la prospettiva di veder scorrere il sangue faccia aumentare l’audience!

P.S. due risposte ad personam:

A Marco Bersani: prima di affermare cosa "sanno tutti gli economisti", abbia la bontà di consultare qualcuno che l’economia la conosca davvero; se gli economisti che affermano le cose che lui sostiene sono per caso gli stessi che gli hanno suggerito i bond irredimibili, ci viene il dubbio che lo abbiano imbrogliato per bene.

A Salvatore Acocella vorremmo solo ricordare che 1) se gli attuali assetti di regolazione sono molto difettosi (per esempio quello del settore autostradale), non significa che non possano essere messi in piedi assetti migliori, che tendano a minimizzare sistematicamente gli extra-profitti; se altri ci riescono, non è vietato che ci riusciamo anche noi. 2) Poste e Ferrovie non sono mai state privatizzate (in Italia): sia Poste che F.S. sono società per azioni, il cui controllo totalitario è pubblico, di preciso del Ministero dell’Economia. Le informazioni a supporto di tanto sarcastico ideologismo dovrebbero almeno essere esatte. 3) com’è che il settore pubblico è corrotto e incapace quando si affida a privati, e invece non lo è quando gestisce in proprio? Non sarà forse che quando gestisce in proprio inefficienze e disservizi passano più facilmente sotto silenzio? Perché se dal rubinetto esce l’arsenico l’Acea va sbattuta in prima pagina mentre la gestione pubblica di Viterbo invece no? Perché si cita Girgenti Acque (Agrigento, peraltro molto più pubblica che privata, visto che il socio "privato" è il gestore pubblico di Catania) come emblema del disservizio, e si tace che quel disservizio esiste da un secolo e nessuno, né il pubblico né il privato, ha saputo finora porvi rimedio?

REFERENDUM SULL’ACQUA: LE DOMANDE GIUSTE

Domande e risposte sui referendum numero 1 e 2. Non si prevede alcuna privatizzazione dell’acqua, ma la legge non mette in discussione neppure la natura pubblica del servizio, l’universalità dell’accesso, il diritto soggettivo dei cittadini a riceverlo a condizioni accessibili. Non è l’ingresso dei privati nella gestione dei servizi idrici a far salire i prezzi. E in ogni caso la tariffa dovrà continuare a coprire gli investimenti. Da evitare invece che contenga extraprofitti. La gestione dell’acqua è uno dei temi di cui si discuterà a Trento al Festival dell’economia, a cui parteciperà anche uno degli autori di questo articolo.

 

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringrazio i lettori per gli interessanti commenti che mi sembra integrino proficuamente l’articolo e costituiscano un utile spunto per continuare a dialogare su questi temi.
I fattori culturali sicuramente contano, esiste un clima generale privo di una "visione" che sappia guardare al futuro, oltre il breve termine. E’ verissimo, come dice Michele Giardino, che il primo pessimo esempio di questo clima è rappresentato dalla mancanza di idee di chi gestisce la cosa pubblica: il mio ultimo riferimento al bisogno di politica industriale aveva proprio questo senso: non devono essere solo gli imprenditori a "darsi una mossa"; e il vero politico riformista deve anche avere il coraggio, in tema di piccole e medie imprese, di sfidare l’impopolarità.
E’ chiaro, come sostiene Guido Meak, che se non si trovano percorsi facilitati per chi deve assumere e andare all’estero si è condannati al nanismo, ma qui la risposta la dà direttamente Maria Crisitina Pace con la quale concordo pienamente: le regole devono disegnare tutte le possibili opportunità, ma poiché, sul terreno della crescita, si è visto che più di tanto da comportamenti spontanei non ci si può aspettare, meglio spingere e, per riassumere, incentivare il piccolo che vuole crescere, ma disincentivarlo se vuole rimanere piccolo. Condivido, infine, le osservazioni di Paolo Mariti sulla mancanza di competenze professionali e gestionali, ma ho la sensazione che sia il classico cane che si morde la coda, perchè la piccola dimensione non consente adeguati e forti investimenti in formazione e ricerca. Anche su questo terreno una seria e rigorosa politica industriale può fare molto.   

TURISMO, NELLA CONFUSIONE VINCONO LE LOBBY

C’è molta confusione in Italia intorno al settore turismo. Non esiste un capitolo di contabilità nazionale che lo comprenda per intero e comunque mai in modo corretto. Così le categorie economiche organizzate fanno il bello e il cattivo tempo. Lo dimostrano una volta di più le misure previste nel decreto sviluppo e nel Codice del turismo sulla proroga delle concessioni demaniali alle imprese balneari e sulla creazione dei distretti marittimi.

PIÙ IMPRESE NEL NUOVO ICE *

Confindustria ha proposto di privatizzare l’Ice. Una utile provocazione perché il bilancio post-riforma dell’Istituto lascia molti dubbi sulle strategie e sulle inefficienze. Dovute alla rigidità nella selezione e nel governo del personale e alla sproporzione fra gli addetti della rete estera e quelli insediati in Italia. Paradossale poi la dispersione delle scarse risorse tra centinaia di iniziative prive di massa critica e grandi missioni di sistema, spesso inutili. Da moltiplicare invece gli sforzi di presenza sui medi e grandi mercati fuori dall’Europa.

E PER SEMPLIFICARE SI SACRIFICA LA TRASPARENZA

Il decreto sviluppo modifica pesantemente il codice dei contratti. Non è la prima volta. Sempre alla ricerca di una semplificazione delle gare con aperture ancora più ampie a procedure negoziate senza bando, ma mai ottenuta finora. Altre fasi del processo sono ben più lunghe e complesse: dalla programmazione e progettazione alla realizzazione dell’opera. Nel decreto, poi, ci sono misure che sono solo imposizioni normative finalizzate al contenimento dei costi.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Che la questione dei taxi fosse un elemento caldo, che suscita un mare di polemiche, mi era ben chiaro. Non sono pertanto stupito né per la quantità dei commenti, né per la veemenza di alcuni di loro. Debbo dire che, così come mi aspettavo reazioni stizzite dei taxisti, mi attendevo maggior indignazione da parte da parte dei cittadini contribuenti.
Ringrazio tutti gli intervenuti, anche quelli che hanno espresso opinioni molto distanti dalle mie, perché il loro contributo mi aiuta a meglio definire il mio pensiero che, a giudicare dal tono di alcuni interventi, o non è stato capito o è stato "travisato".
L’obiettivo del mio intervento non era né quello di contestare la legittimità delle rivendicazioni "economiche" della categoria, né quello di definire una proposta complessiva per migliorare il servizio.
L’obiettivo era molto più limitato, ed era quello di criticare l’ipotesi secondo cui per non far lievitare le tariffe si addebitano alla collettività parte dei costi del servizio. Mi è ben chiaro che questa operazione viene regolarmente fatta in diversi altri settori e che le risorse destinate ai taxi sarebbero poca cosa rispetto alle montagne di incentivi dati ad altri settori. Così come mi è chiaro che incentivi all’acquisto di vetture ecologiche potrebbero avere effetti positivi sull’inquinamento. Non mi sembra vi siano però sufficienti ragioni economiche e sociali per estendere i benefici dell’incentivazione pubblica al settore dei taxi: anzi sarebbe molto meglio ridurre gli incentivi anche in altri settori.
Per quanto riguarda gli adeguamenti tariffari non ho alcuna obiezione a che le tariffe aumentino per bilanciare l’incremento dei costi. Gli adeguamenti tariffari però, a normativa vigente, vanno adeguatamente motivati, altrimenti si incappa in qualche TAR che fa saltare tutta l’operazione. Se poi le tariffe aumentano troppo il mercato si restringe e si aggrava la crisi. Sarebbe opportuno, questa è la mia opinione, prevedere la liberalizzazione delle tariffe, lasciando ad una autorità pubblica il solo compito di vigilare affinché non si realizzino truffe ed abusi ai danni dell’utenza.
Vi è un tema che io ho solo accennato ma sui cui sono intervenuti diversi lettori: il tema che ho definito dell’"industrializzazione" del settore, ovvero di tutte le modifiche necessarie per migliorare quantità e qualità del servizio, riducendone al tempo stesso i costi. Non ho deliberatamente approfondito questo tema perché l’obiettivo dell’intervento era molto più limitato. Non ho intenzione di affrontarlo in questa breve replica perché il tema è troppo complesso per essere risolto in poche righe. Trovo comunque interessanti e condivisibili alcune delle idee espresse, sia quelle che riguardano l’inserimento della politica sui taxi all’interno della più ampia politica di governo della mobilità (chiusura dei centri storici e dissuasione all’uso del mezzo privato), sia quelle relative all’applicazione delle tecnologie dell’informazione per migliorare il servizio.
In merito a quanto affermato dal signor Genovese vorrei ricordare che l’assegnazione delle 2000 licenze taxi a Roma è avvenuta nella più totale correttezza amministrativa e se vi sono stati episodi illeciti questi hanno riguardato i singoli concorrenti che hanno dichiarato il falso e che per questo verranno perseguiti.
Un’ultima osservazione, che esula dal tema che ho affrontato, ma su cui non riesco a far finta di niente: se è vero che in alcune fasce orarie vi sono molti taxi fermi ai parcheggi, è altrettanto vero che se cerchi un taxi tra le 9 e le 11 te lo puoi scordare: al tempo stesso mi sembra di capire che i noleggiatori di "fuori Roma" sono continuati a crescere anche negli ultimi anni, fino ad arrivare alle 6-7000 unità di cui leggo sulla stampa. Non mi sembra quindi che manchi la domanda: c’è da chiedersi perché i taxi non la intercettino. E la risposta non può essere affidata alle restrizioni ed ai divieti, ma deve essere ricercata in una nuova capacità di far fronte alle esigenze del mercato.
In conclusione vorrei però tornare al tema che più mi sta a cuore oggi: possiamo fare di tutto, possiamo adottare qualsiasi soluzione, purché non si addebitino alla collettività i costi di un servizio che viene utilizzato da una minoranza di cittadini.

CHI PAGA IL TAXI

L’aumento delle tariffe dei taxi a Roma si è trasformato in un pasticcio e la soluzione che si prospetta è la peggiore possibile. Perché una parte dei costi ricadrebbe sulla collettività, ovvero anche su chi mai usufruisce del servizio. Non è solo una scelta ingiusta e iniqua, rischia anche di alterare in modo grave il mercato del trasporto pubblico non di linea e di dare il via a nuovi contenziosi legali. Ma quello che più preoccupa è che nessuna forza politica si oppone in modo esplicito alla manovra, come se i soldi pubblici non fossero soldi dei cittadini.

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