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Categoria: Concorrenza e mercati Pagina 56 di 82

NON È TUTTO ORO (BLU) QUEL CHE LUCCICA

Molti lettori hanno inviato commenti al mio “Diamo una regolazione all’acqua”, con un leit motiv: l’acqua è un bene comune, un diritto fondamentale, una risorsa essenziale, dunque deve rimanere pubblica. Altrimenti i prezzi aumentano in modo insostenibile.
Potrei cavarmela rispondendo che hanno sbagliato indirizzo, oppure non hanno letto con attenzione: non è mia l’idea di aprire ai privati il settore idrico, ma sta nei fatti oltre che nella legge. Il mio articolo sottolinea semmai le difficoltà insite nella strada intrapresa dal governo e avanza proposte correttive. Chi si illude che il settore idrico possa essere liberalizzato ricorrendo semplicemente alle gare, a mio avviso, commette un errore madornale.

Tuttavia questa risposta è insufficiente, perché se condivido le preoccupazioni dei lettori, non condivido le motivazioni per cui sono preoccupati. Cosa significa veramente “privatizzare” in un contesto come questo? A chi o a cosa può servire? Finirà come in Bolivia? Ce l’ha ordinato il medico di introdurre addirittura l’obbligo di gara? (1)
Sgomberiamo subito il campo da un equivoco. Nessuno, neanche il più accanito mercatista, ha mai pensato di “privatizzare l’acqua” in quanto risorsa naturale: essa è oggi più che mai saldamente in mano pubblica, ogni suo uso deve essere autorizzato e regolato da un formidabile apparato di norme. La dir. 2000/60, che il nostro ordinamento ha in parte già anticipato, benché tra il legiferare e il fare ci sia di mezzo il mare, prevede che su tutti i corpi idrici venga raggiunto il buono stato ecologico, disciplinando le attività antropiche di conseguenza.
Altra cosa sono i servizi idrici. Per dirla con una battuta, l’acqua è un dono di Dio, ma Dio, o chi per lui, si è dimenticato i tubi, gli impianti, i depuratori e tutto quello che occorre per farli funzionare. Quelli dobbiamo procurarceli da noi. I costi che dovremo sostenere per raggiungere l’obiettivo del buono stato ecologico e, insieme, ammodernare la rete sono molto ingenti. Si parla di investimenti per 50-60 miliardi di €, ma è una stima parziale. Cifre da fare impallidire una manovra finanziaria. Da qualche parte devono saltare fuori.
Quello idrico è un servizio essenziale? Certo che sì, ma non nel senso che “il corpo umano è fatto di acqua al 99%”, “l’acqua è vita” e simili ovvietà. Stiamo parlando di quei circa 200 l/giorno con cui ci laviamo, puliamo casa, facciamo andare gli elettrodomestici, annaffiamo le piante, cuciniamo gli spaghetti, tiriamo lo sciacquone. Un servizio fondamentale per assicurare un moderno standard di vita urbana, quanto l’energia elettrica, ma non nominiamo il vangelo invano. L’acqua che basta a “dar da bere agli assetati” è una piccolissima frazione di quei 200 l.
Orbene, cosa c’entra il privato con tutto questo? Anche qui bisogna evitare confusione. Due sono i temi in discussione: il primo è chi gestisce, ossia chi si assume la responsabilità e i rischi di farli funzionare (un soggetto pubblico o un soggetto privato, e secondo quali modalità di affidamento), il secondo è chi paga (l’utente, attraverso le tariffe, o il contribuente, attraverso la fiscalità).
Riguardo alla prima questione, stiamo parlando di un servizio industriale, con livelli di complessità molto elevati, e che richiede gestione professionale, capitali ingenti, tecnologie avanzate, specializzazione, capacità di relazionarsi con il mercato (fornitori di tecnologia, costruttori, banche, professionisti). Richiede attenzione all’equilibrio di lungo termine tra costi e ricavi. Tutte caratteristiche che sollecitano un approccio commerciale e una visione imprenditoriale. Il che di solito fa rima con mercato; ma qui non è così facile. Non è tanto l’essenzialità del servizio il problema, quanto la sua natura pervicacemente monopolistica. Le soluzioni adottate con alterne fortune in altri settori come tlc, energia e gas risultano qui impraticabili, per i motivi che ho sinteticamente provato a spiegare nell’articolo, e anche dalle gare non ci si deve aspettare miracoli. Ma la gestione pubblica non è migliore: tutte le magagne da cui è afflitto notoriamente lo stato sono in agguato anche qui. Della più grande azienda pubblica italiana, l’Acquedotto Pugliese, si dice che “ha dato più da mangiare che da bere”. Perfino Nichi Vendola ha licenziato in tronco quel Riccardo Petrella che al grido di “fuori i mercanti dall’acqua” stava cercando di azzerare i pochi passi fatti finora per riportarlo ai fondamentali dell’economia aziendale (2). Molte delle società “in house” spuntate come funghi al nord come al sud sembrano motivate soprattutto da ragioni “di casta” (moltiplicazione dei consigli di amministrazione e relative prebende), a dispetto della retorica sull’acqua bene comune che non perdono occasione di sbandierare.

Non voglio fare di ogni erba un fascio. Il pubblico può, in astratto, creare buone aziende, e ce ne sono molte; l’esperienza tuttavia ci dimostra che è anche più sensibile ai ricatti politici (sindacato, lobby dei fornitori, utenti che non vogliono pagare) e tentato di indulgere in politiche gestionali insostenibili (come rinviare gli investimenti o gonfiare i debiti per non aumentare le tariffe).  Il privato, in compenso, è in genere più efficiente, ma anche più interessato a tenere per sé le rendite di monopolio. Occorre trovare un compromesso; come ho affermato nell’articolo, vi sono nel mondo vari schemi alternativi, i cui risultati sono in tutto e per tutto confrontabili. Non sempre eccellenti, da una parte come dall’altra; ma se i dati vengono considerati con obiettività e generalità sufficienti, un po’ di privato di solito migliora le cose, a patto di mettergli di fronte un sistema di regolazione efficace, in grado di vincolare la sua azione al rispetto dell’interesse generale.  
E’ tuttavia la seconda questione – chi paga – ad essere cruciale. In passato, per varie ragioni, è stata la fiscalità a sobbarcarsi l’onere principale. Se questo potesse continuare, la gente a stento si accorgerebbe della privatizzazione, come finora mai si è accorta dei lauti affari fatti dai costruttori e appaltatori di opere, irrorati dal benedetto flusso di denaro pubblico.
Ora, per altre ragioni, non si può più. Non è solo per la situazione contingente della finanza pubblica: una gestione industriale richiede che i soldi ci siano quando servono, dove servono, per fare le cose che servono. I canali della finanza pubblica non sono né tempestivi né selettivi; vanno bene quando si devono concentrare interventi a tappeto in poco tempo o realizzare grandi opere, vanno molto meno bene quando si tratta di fare manutenzione, rinnovo, adattamento, innovazione tecnologica. Basti un dato: negli ultimi 20 anni il sistema idrico italiano ha visto precipitare gli investimenti a praticamente zero. Il motivo è abbastanza ovvio: tra aumentare le tasse, tagliare le pensioni, licenziare i fannulloni, chiudere Alitalia o rinviare investimenti i cui benefici saranno goduti dai nostri figli, nessun politico avrà mai il coraggio di non scegliere l’ultima.
E dunque non c’entra la privatizzazione: se il gestore, pubblico o privato non fa differenza, deve coprire i attraverso le tariffe i costi prima coperti dalla fiscalità, queste devono crescere. Oppure, gli investimenti continueranno a restare fermi. A voi la scelta.
Complessivamente, tutta l’operazione dovrebbe portare le tariffe a circa 160 €/annui pro capite, mezzo caffè al giorno. Non faremo la fine della Bolivia, a patto di saper tenere conto del fatto che intorno a questa media le oscillazioni possono essere anche notevoli, in ragione della densità del territorio; e che siccome i poveri consumano quanto i ricchi, quei 160 € avranno un peso sul reddito molto variabile. Se a Latina le tariffe crescono del 300%, mi viene il sospetto che il livello di partenza fosse irrisorio. Le pur brave Milene Gabanelli e Alessandri Gaeta, prima di partire ad alzo zero sobillando l’indignazione popolare, farebbero bene a fare due conti.

Cos’è che volete davvero: un’acqua di proprietà della collettività (ce l’abbiamo già), un’azienda dell’acqua gestita dallo stato (come detto sopra, non è qui il problema), oppure l’acqua gratis (ce l’abbiamo avuta finora, e non funziona) ? Oppure preferite continuare a dilapidare il nostro patrimonio idrico, come nei 20 anni passati?
Gestione imprenditoriale e costi in tariffa, quindi. Questi principi vennero approvati all’unanimità o quasi del Parlamento, con la l.36/94. Da qui non si fugge. Facendo però attenzione a un paio di cose, però (e qui la regolazione ha un ruolo fondamentale).
La prima: coprire i costi non deve significare “coprire qualsiasi costo”, anche quelli meno efficienti. Il pubblico indulge spesso in auto blu, organici gonfiati, acquisti di beni e tecnologie a prezzi eccessivi. Il privato può tentare di fare il furbo portando profitti alla casa madre dalla quale acquisterà, per poi riversarli in tariffa, servizi specializzati, impianti e lavori. In entrambi i casi, compito del regolatore è costruire un sistema tariffario che limiti questi rischi: in Inghilterra ci sono riusciti, possiamo riuscirci anche noi.
In secondo luogo, attenzione agli effetti distributivi: quando un bene essenziale viene finanziato dalle tariffe, l’impatto è sempre regressivo; può però essere temperato, ad esempio non tariffando tutto al metro cubo, tanto meno “a blocchi crescenti” – ottimo sistema, quest’ultimo, per sussidiare i single benestanti a scapito delle famiglie numerose (3) – ma ricorrendo a tariffe con quote fisse spalmate in base a indicatori come la rendita catastale.
La terza: attenzione al costo del capitale. Il profitto pagato agli azionisti – ma vale lo stesso per il tasso di interesse pagato sui finanziamenti ottenuti dal mercato, anche da parte di aziende pubbliche – è commisurato al rischio che l’investitore sostiene. In questo come in tutti i settori. Ma qui il costo del capitale incide di più, perché questa è un’industria capital intensive e i rischi imprenditoriali sono molto alti. Occorrono sistemi di finanza pubblica capaci di catturare risorse dal mercato garantendo il finanziamento, ma senza intaccare il principio secondo cui le rate di ammortamento le pagano le tariffe. L’intervento pubblico deve servire a far costare meno il denaro, non a finanziare gli investimenti a spese dei contribuenti.
La quarta: se è sbagliato avere paura preconcetta del privato, è sbagliato anche il furore con cui i “talebani della liberalizzazione” insistono per adottare il modello della gestione delegata e affidata con gara, che non è né l’unico né il migliore. L’esperienza francese ci dice che il miglior concorrente del privato è la minaccia del ritorno al pubblico, così come il miglior incentivo all’efficienza del pubblico è la minaccia di privatizzare.

(1)    Ragioni di spazio mi costringono a semplificare al massimo e ad essere un po’ apodittico. I lettori mi perdonino se li rinvio per una trattazione più ampia al mio “L’acqua, un dono della natura da gestire con intelligenza”, Farsi un’idea, il Mulino, 2008.
(2)    Prima di diventare un bene comune, l’acqua deve diventare buon senso comune”, chiosa il governatore pugliese a questo proposito, in un’intervista rilasciata il 10 dicembre 2006 al noto quotidiano conservatore “il Manifesto”.
(3)    Per maggiori particolari su questo punto, si vedano la documentatissima indagine di K.Komives, Water, electricity and the poor: who benefits from utilities subsidies?”, World Bank, 2005 o il rapporto dell’Oecd, 2005.


CONCORRENZA FERMA IN AUTOSTRADA

L’Antitrust giudica negativemente la nuova regolamentazione del settore autostradale e indica possibili revisioni. Come il rinnovo delle concessioni mediante procedure a evidenza pubblica. O se possibile l’affidamento delle diverse tratte a una pluralità di gestori, per promuovere forme di concorrenza comparativa. E un sistema di adeguamento tariffario i cui benefici possano tradursi in pedaggi più bassi.

UN DECOLLO CHE SFIDA LE LEGGI

Il mercato ha le sue leggi, una delle quali dice che un’impresa che spende più di quello che incassa prima o poi ne esce per liquidazione volontaria o per fallimento. Il mercato aveva già decretato la morte di Alitalia, in perdita da anni, in marzo. I sindacati hanno confidato nell’aiuto della politica e hanno avuto ragione, perché governo e il Parlamento hanno dato alla compagnia altro denaro da bruciare. Si è trattato, però, di una vittoria di Pirro. Dopo soli quattro mesi, i soldi sono finiti e siamo giunti al capolinea. Ora quali scenari si aprono con il decreto Alitalia?

DIAMO UNA REGOLAZIONE ALL’ACQUA

Il settore idrico è il prototipo del monopolio naturale. La componente infrastrutturale domina su quella operativa e quasi tutti i costi sono irrecuperabili per lunghissimo tempo. Tuttavia, il mercato può dare un contributo che sarà tanto migliore quanto più efficace e coerente sarà il sistema di regolazione. Non basta dunque affidarsi a gare e contratti, è necessario prevedere anche strumenti che siano in grado di disciplinare e rendere trasparente la rinegoziazione arbitrandola super-partes, riducendo sia il rischio di cattura del regolatore sia quello di connivenza.

L’OMBRA DELLA GRANDE CRISI SUL NEGOZIATO WTO

E’ forte l’impressione che sulla trattativa fra i paesi dell’Organizzazione mondiale del commercio riuniti recentemente a Ginevra, abbia pesato negativamente la crisi economica internazionale, dissolvendo l’interesse verso un accordo di liberalizzazione del regime commerciale. Gli effetti reali di un mancato accordo sono probabilmente molto limitati, ma si è mancata l’occasione di rafforzare il sistema multilaterale che vincola i paesi al rispetto di un insieme di regole.

NAUFRAGIO AL GIRO DI DOHA

Il negoziato del Doha Round è fallito non sulla questione dell’apertura “tout court” dei mercati agricoli dei paesi in via di sviluppo alle produzioni dei paesi industrializzati, né sulla riduzione dei sussidi agricoli europei ed americani. Il vero motivo del contendere era una la revisione del cosiddetto “meccanismo di salvaguardia speciale” per l’agricoltura. Vediamo di cosa si tratta e di chi è l’effettiva responsabilità di questo insuccesso del WTO. A cominciare dalle lobby dei produttori agricoli nei maggiori paesi industrializzati e nei principali paesi emergenti.

UN BEL DAZIO ANTI-INFLAZIONE?

Il ministro dell’Agricoltura Luca Zaia, di fronte ad una platea amica a Mogliano Veneto (TV), ha lanciato la sua idea: ci vorrebbe un dazio europeo per aumentare la produzione agricola interna, difendere il mercato dei prodotti agricoli e, in tal modo, combattere l’aumento dei prezzi dei cereali. Non ci posso credere, direbbe Aldo del popolare trio Aldo, Giovanni e Giacomo. L’inflazione in giugno ha raggiunto il 3,8%, mai così alta da 12 anni. Pane e pasta hanno contribuito a questo aumento rispettivamente con un +13% e +22% annuo. E il ministro, non contento di ciò che passa il mercato mondiale di questi tempi, vuole anche tassare le importazioni di cereali. E’ vero che una tassa sulle importazioni, dicono i libri di economia, favorisce i produttori interni a discapito di quelli esteri. Ma lo fa a discapito del benessere complessivo dell’economia perché incoraggia produttori forse italiani ma certamente inefficienti. E lo fa togliendo i soldi dalle tasche dei consumatori. A giudicare dai dati sull’inflazione, gli italiani con i problemi più grossi per arrivare alla fine del mese sono i consumatori, non i produttori, tanto meno i produttori di cereali che continuano a godere dei supporti di reddito garantiti dalla Politica Agricola Comune dopo la riforma del 2003. Almeno la Robin Tax di Tremonti è una tassa sui profitti che non aumenta i costi di produzione e quindi di per sé potrebbe non essere trasferita sui prezzi finali (anche se sulla benevolenza di petrolieri e banchieri sarebbe meglio non fare conto). Ma un dazio sulle importazioni di grano, no: aumenterebbe di sicuro i costi e sarebbe trasferito pari pari su più alti prezzi dei cereali, del pane e della pasta. Ministro Zaia, non sarebbe meglio ripensare alla sua idea ed evitare così di far piovere sul bagnato?

SERVIZI PUBBLICI LOCALI: IV TENTATIVO DI RIFORMA

Come è ormai tradizione, qualsiasi sia la maggioranza, all’inizio della legislatura fioriscono i disegni di legge per la liberalizzazione dei servizi pubblici locali. In genere, appassiscono in breve tempo. Stavolta però c’è una novità: il disegno di legge del governo ha significativi punti di convergenza con la proposta presentata alla Camera da Linda Lanzillotta. Anzi, in alcune parti i due testi coincidono alla lettera. Ma le differenze ci sono e significative. Riguardano la visione del settore e, alla fine, misureranno il tasso di innovazione della legge che sarà approvata.

VENDITE, -2%: ARRIVA LA RECESSIONE?

Le vendite al dettaglio nell’aprile 2008 sono scese di due punti percentuali rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. E’ la temuta recessione che si avvicina a grandi passi? Troppo presto per dirlo. Come avverte l’Istat, il dato pubblicato riguarda il valore totale delle vendite, e incorpora quindi sia l’andamento delle quantità vendute che quello dei prezzi di vendita. Un segno “meno” complessivo può quindi essere il risultato sia di una riduzione delle quantità vendute che di una riduzione dei prezzi. Per gli alimentari ci sono pochi dubbi: i prezzi sono saliti (circa +6% su base annua nel 2007). Il segno “meno” è quindi da attribuire ad una flessione delle quantità vendute. Ma il segno meno per le vendite di alimentari è piccolo: solo -0,8%. Non sono gli alimentari i principali responsabili della flessione delle vendite: la voce delle vendite diminuita in modo più marcato è quella dei beni non alimentari (-3,4%). E qui siamo in dubbio: le nostre spese in prodotti non alimentari possono diminuire sia perché comperiamo meno telefonini ma anche perché il prezzo dei telefonini scende nel tempo. C’è poi da considerare che, nascoste sotto ai dati aggregati, succedono tante cose. Una di queste è la continuazione del processo di ristrutturazione nel settore della distribuzione. La grande distribuzione (nelle sue varie forme: ipermercati, supermercato, hard discount, grandi magazzini) per ora tiene, facendo segnare un più zero e qualche cosa rispetto ad un anno fa. E’ la piccola distribuzione a far segnare valori molto negativi. Se recessione è, dunque, per ora non è la recessione di tutti ma solo di qualcuno, quelli con le spalle meno larghe. Del resto era stato così anche nella ripresina del 2006-07: pochi grandi esportatori ci avevano guadagnato e molto, mentre i tanti piccoli avevano solo visto passare la locomotiva della ripresa in televisione.

ALITALIA, TOTO E CATRICALA’

Forse qualcuno dovrebbe ricordare ai tanti protagonisti sulla scena che nella travagliata vicenda Alitalia i destini della compagnia di bandiera non possono sottrarsi ad un severo scrutinio degli effetti sull’assetto competitivo dei mercati. A questo compito verrà chiamata l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato quando eventualmente si materializzerà il famoso compratore. Senza volersi sostituire alla disamina che il Presidente Catricalà dovrà effettuare, balza agli occhi la impraticabilità di una soluzione che vedesse Airone di Carlo Toto, il secondo vettore per quote di mercato sulle rotte cruciali del mercato italiano, tra cui il Roma-Milano, tra i protagonisti della vicenda. Non sorprende nemmeno che sia stata invocata da British Airways e da Ryanair la normativa europea sugli aiuti di stato, altro caposaldo delle politiche della concorrenza, in merito al prestito di 300 milioni che ha ridato una boccata di ossigeno ad Alitalia e ha appesantito di altrettanto le tasche dei contribuenti. Senza volersi in questo caso sostituire al Commissario alla Concorrenza Kroes, balza altrettanto agli occhi la pretestuosità con cui si vuole presentare come motivato da ragioni di mercato un prestito ponte di cui è noto il pilone di partenza, l’attuale disastrosa situazione di Alitalia, ma è nascosto nella nebbia quello di arrivo, il famoso compratore. Insomma, dovunque la si guardi la vicenda Alitalia inciampa pericolosamente nei paletti che le normative sulla concorrenza pongono. Questo forse ci aiuta a comprendere come tutti gli spasmi e le contorsioni che si susseguono hanno dietro interessi forti e rendite  arcignamente difese, ma non tengono in minimo conto gli interessi di noi consumatori, di noi semplici passeggeri e di noi contribuenti. Non dubitiamo che le autorità preposte alla concorrenza sapranno al momento buono far sentire la propria voce. L’unica perplessità nasce dal fatto che il momento buono è già giunto da tempo senza che la voce dei custodi della concorrenza si facesse sinora sentire alta e netta.

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