Lavoce.info

Categoria: Banche e finanza Pagina 64 di 114

Questa è vera classe dirigente

Formidabile quell’anno di TPS alla Consob

Nel “formidabile anno” (aprile 1997-giugno 1998) in cui Tommaso Padoa-Schioppa fu presidente della Consob, il sistema finanziario italiano presentava un assetto ancorato alla tripartizione dei mercati: il mercato bancario, polarizzato e forte delle sue riserve di attività, governato da un testo unico e da norme bancarie uniformi, ramificato in partecipazioni incrociate con l’industria, le imprese mobiliari e la grande banca d’affari nazionale; il mercato mobiliare, che aveva il suo centro nella Borsa valori – ancora pubblica e a bassa capitalizzazione rispetto alle piazze finanziarie dei grandi centri internazionali – che trovava nelle Sim, in realtà per buona parte possedute da intermediari bancari, un potenziale veicolo di ammodernamento; il mercato degli investitori istituzionali, che vedeva i fondi comuni di investimento affiancare le ben più importanti e meno trasparenti gestioni individuali di patrimoni, le compagnie di assicurazione e i fondi pensione (questi ultimi sulla carta ma non nei fatti).

VERSO IL TESTO UNICO DELLA FINANZA

L’assetto della supervisione era di conseguenza tripartito: la Consob regolava gli scambi di mercato e l’intermediazione non bancaria, cercando una sua identità in un corpo normativo frammentato, che Padoa-Schioppa ereditava nel corso di un processo di unificazione: il Testo unico della finanza era infatti in via di stesura. Le lobby finanziarie si scaldavano i muscoli sui temi più sensibili: la trasparenza e la disciplina del prospetto per le obbligazioni bancarie, la riserva di attività per la gestione dei patrimoni, la trasparenza e la confrontabilità dei prodotti assicurativi rispetto ai prodotti finanziari, l’opacità e la scarsa mobilità degli assetti proprietari. La Banca d’Italia, da cui arrivava il presidente, sovrintendeva alla stabilità macro e microeconomica, ma anche alla trasparenza dei servizi bancari e alla concorrenza tra gli intermediari. L’Isvap vigilava sulle assicurazioni, settore ritenuto opaco e poco competitivo.
In questo contesto, Padoa-Schioppa entrava in una Consob dove stratificazioni di passate gestioni e nuovi ingressi richiedevano un ripensamento e un riordino.
È Padoa-Schioppa a volere per la prima volta la presentazione della relazione annuale della Consob a Milano con un Discorso del presidente al mercato finanziario. Senza enfasi, ma con decisione, sarà lui a negoziare con il Comune di Milano la concessione di Palazzo Carmagnola quale sede dell’istituzione e a trasferirvi alcuni uffici chiave, nel tentativo – in seguito, dopo la sua presidenza, rinnegato – di rendere l’istituzione più vicina alla sede del mercato e alla sua cultura.
Già nel primo mese dall’insediamento, in cui il presidente riceveva direttori e funzionari, leggeva carte e documenti, faceva audizioni e frequenti riunioni della Commissione, prendeva corpo una struttura rinnovata dell’autorità, nelle persone e nell’impianto, che senza particolare clamore ma con grande determinazione veniva varata prima dell’estate.

UN ANNO CRUCIALE

In quei mesi entrarono in dirittura di arrivo il Testo unico della finanza e la stesura dei regolamenti di attuazione, con un confronto anche dialettico con la Banca d’Italia. Guidavano Padoa-Schioppa alcuni convincimenti. Come l’idea, forse tramontata, che la Consob nell’emanare la regolamentazione non coglierebbe il senso della riforma se alla delegificazione non facesse seguire una deregolamentazione: testi snelli, concepiti come regole di principio più che di minuziosa precettistica; delega al mercato, alle associazioni e ai singoli soggetti di funzioni che possono essere da essi efficacemente svolte. O come la ferma presa di posizione per un modello di vigilanza per finalità, nell’affermazione della Consob quale autorità centrale della trasparenza e della protezione dell’investitore per tutti i prodotti finanziari, non solo mobiliari ma anche bancari e assicurativi.
Nello stesso periodo accompagnò la fase finale della privatizzazione della Borsa italiana, che definì, profeticamente, una condizione “necessaria ma non sufficiente per la sopravvivenza del nostro mercato”. E cercò di costruire le fondamenta della piazza finanziaria nazionale, nell’idea non di rafforzare fortini nazionali, che, lui uomo d’Europa e cittadino del mondo, rifiutava ma di partecipare alla costruzione del mercato finanziario europeo sempre più integrato in modo competitivo ed efficiente per aiutare la crescita del Paese: tenterà di riprendere il progetto da ministro dell’Economia, ma senza successo.
Prestò grande attenzione allo sviluppo delle rete delle relazioni internazionali, con la presenza della Consob nei gruppi europei e mondiali di regolazione, e nazionali, con l’organizzazione di incontri pubblici e gruppi di lavoro con accademici e practitioner.
Padoa-Schioppa era un uomo che univa doti rare, se le pensiamo tutte presenti in una persona. Equilibrio, apertura, focalizzazione, competenza, rigore, impegno. La persona giusta per quell’anno cruciale. Giusta anche, con la sua umanità e la capacità di riconoscere i meriti dei collaboratori, per motivare e far lavorare alacremente una struttura che non era adusa a ritmi stressanti. Allo stesso tempo, il suo stile di grand commis internazionale dava alle donne e agli uomini della Consob, soprattutto ai più giovani, la consapevolezza di agire in uno snodo istituzionale essenziale per lo sviluppo del Paese, sotto la guida di un personaggio capace di imporre ai tavoli internazionali dei regulator la Commissione italiana alla testa di quelle istituzioni o comunque al centro del dibattito.
Purtroppo per la Consob, ma fortunatamente per il Paese, nel giugno 1998 – dopo poco più di un anno di presidenza – fu chiamato a far parte del primo board della Banca centrale europea per concretizzare il sogno di una vita: la creazione di una moneta unica e di un organo di politica monetaria sovranazionale.

TPS, la penna verde

Delle persone che scompaiono e alle quali sono stato in qualche modo legato tendo a ricordare e conservare spezzoni di immagini piuttosto che una visione d’insieme. Spesso questo ricordo è un dettaglio secondario, anche insignificante, rispetto alla ricchezza della vita di questa persona. Ma a ben pensarci talvolta ne riassume un tratto importante e forse è per questo che mi rimane impresso. Pensando a Tommaso Padoa Schioppa, conosciuto nei tanti anni trascorsi alla Banca d’Italia, mi è ritornata alla mente la sua penna verde.

La penna che usava per correggere il testo del Bollettino Economico, delle bozze della Relazione annuale o dei cosiddetti lavori preparatori, ricerche predisposte dagli economisti del Servizio Studi della banca in funzione della stesura della Relazione annuale e più in generale di analisi e studio dell’economia, italiana (e non). Di quei testi i membri del direttorio leggevano con estrema attenzione ogni riga e restituivano agli autori le bozze commentate, corrette, segnate. C’era attesa per quei commenti. Quelli di Pierluigi Ciocca, a lettere grandi talvolta indecifrabili; le sottolineature lunghe e ondulate di Antonio Fazio; le annotazioni del Dottor Ciampi, poche ma sempre negli snodi del testo, quelli che qualificavano l’interpretazione. Questi commenti erano redatti a penna, bic o stilo, ma di colore blu o nera lo stesso colore che convenzionalmente si usa per apporre una firma su un assegno, il documento per eccellenza di una banca. I commenti di Tommaso Padoa Schioppa erano invece in inchiostro verde. Doveva essere una sua penna, dato che la Banca d’Italia non forniva ai dipendenti (e quindi neanche al direttorio) penne colorate, ma matite sempre dello stesso tipo, penne blu e penne nere, anche quelle sempre dello stesso tipo.

PARLARMENE!

Oltre al colore diverso quei commenti avevano altre due caratteristiche: si concludevano con la sua sigla, TPS, che gli è valso il nome – Tipiesse – con cui a lui ci si riferiva dentro la banca; contenevano spesso una richiesta dal tono perentorio -“parlarmene!” – a margine di un paragrafo che lui reputava importante e sul quale richiedeva all’autore un approfondimento. La sigla era quasi pleonastica dato l’uso della penna verde che garantiva l’identificazione perfetta del commentatore, ma siglandoli si prendeva la responsabilità di quei commenti. “Parlarmene!” evocava la relazione gerarchica tra lui e i colleghi/collaboratori, ma al tempo stesso rivelava l’interesse per il lavoro degli altri e il bisogno di conoscere di più di quello che era stato fatto, e questo aveva un forte effetto sulla motivazione delle persone, ci si sentiva utili. Rimane il colore della penna, perché verde? Perché quel tocco anticonformista? Questo mi stupiva un po’ in un uomo con una mente così organizzata, strutturata e lucida, in una persona così dedicata all’ istituzione a cui apparteneva: perché l’identificazione con essa non arrivava fino al colore della penna? Onestamente non lo so e non ho mai osato chiederglielo. Ma credo sia perché TPS distingueva tra identificazione e omologazione. Ha sempre avuto un tratto personale, un guizzo di fantasia, un elemento di distinzione; lo si ritrova nei suoi scritti, nei vocaboli che usava, in quelli che spesso coniava. I miei ex-colleghi in Banca d’Italia ne ricorderanno parecchi – il quartetto incoerente citato sui media in questi giorni, i piccoli giganti – riferendosi alle piccole banche italiane che si accollano l’intero rischio delle piccole imprese che finanziano – e i giganti nani – le grandi banche che partecipano solo a una parte del rischio delle grandi imprese a cui concedono prestiti, per citarne alcuni. L’uso di queste definizioni era forse un vezzo, una concessione all’estetica, ma era anche e soprattutto un modo concreto di rischiarare il discorso, di comunicare con il lettore in modo diretto, immediato. Lampi di luce che aggiungevano bellezza e chiarezza, come la penna verde.
Ciao TPS, riposa in pace.

L’entusiasmo nelle sfide

Ci eravamo sentiti qualche giorno fa; avevo chiesto a Tommaso Padoa-Schioppa di contribuire con un articolo a una nuova collana di commenti su temi di politica economica internazionale che avevo avviato. Scusandosi per non poter accettare subito aveva (quasi) promesso di farlo in futuro, un po’ forse per non deludere l’entusiasmo di un collega più giovane, ma anche per quel riflesso irrefrenabile che lo portava a lanciarsi in qualunque nuova sfida che gli sembrasse giustificare la sua presenza. Combattivo fino all’ultimo.

DALLA BANCA D’ITALIA AL MINISTERO, PASSANDO PER L’EUROPA

Mi sono trovato, in parte per caso, a condividere alcuni momenti della sua vita professionale negli ultimi anni. Il primo ricordo risale agli anni della Banca d’Italia. Per lui, già esponente autorevole del Direttorio, erano anni frenetici e fecondi, con l’Europa monetaria che prendeva forma: il rapporto Delors, il mercato unico, poi il trattato di Maastricht, infine, di segno contrario ma ugualmente intensa, la crisi del sistema monetario e della lira. Ma anche la riforma del sistema finanziario italiano: la regolamentazione delle banche e la vigilanza, l’impegno capillare sul sistema dei pagamenti. Io aiutavo, ma soprattutto guardavo e imparavo. L’entusiasmo di Tommaso lo portava a intervenire quasi su tutto, dalla conduzione quotidiana della politica monetaria all’organizzazione interna, dai temi strutturali dell’economia reale nel nostro paese a quelli della finanza globale. Sempre -allora era meno scontato! – coinvolgendo i giovani in prima linea, chiedendo loro di formarsi un’opinione e di avere il coraggio di difenderla.
Dopo la breve parentesi della Consob, lo sbarco a Francoforte, nel consiglio della Banca centrale europea appena costituita. Un’istituzione che Tommaso sentiva appartenere a lui più che agli altri membri designati in consiglio; correttamente nella sostanza, anche se non nella forma. L’entusiasmo e l’energia erano quelli di sempre, così come l’interesse per tutte le aree di responsabilità della banca. Era inevitabile che la sua tendenza a muoversi orizzontalmente su temi diversi sollevasse qualche sopracciglio, scompigliasse regole interne e convenzioni. Una visita al sito internet della Bce, nella sezione in cui sono conservati i discorsi del comitato esecutivo, mostra che non c’è area di responsabilità della Banca in cui egli non abbia lasciato il segno. Un contributo intellettuale e di comunicazione pubblica, ancor prima che decisionale, nonostante la natura esecutiva dell’incarico.
Il biennio del ministero è stato quello più complesso e sofferto, oltreché controverso. Ogni giudizio in merito non può che attendere il filtro del tempo. La difficoltà era, per lui più che per ogni altro, far valere l’autorevolezza tecnica in un contesto e in un tempo che richiedevano anche un deciso impegno politico. La generosità e lo slancio lo hanno a volte indotto, nel bilanciare queste esigenze in contrasto, a mettere in gioco la propria persona più di quanto alcuni amici e colleghi avrebbero desiderato. Ma lui non esitava. Come ha scritto poco prima di assumere l’incarico: “Mi rendo conto che sto per mettere a repentaglio quel po’ di reputazione che ho accumulato in una vita di lavoro.
Coloro che credono nella possibilità e nel dovere di tenere l’Italia nel novero dei paesi civilizzati e autorevoli, in Europa e nel mondo, da oggi sono un po’ più soli. Ma anche consapevoli di portare sulle spalle una responsabilità un po’ più grande.”

Come Las Vegas

Tra i 314 nomi dei parlamentari che hanno votato il 14 dicembre la fiducia al Governo ce n’è uno che non avremmo proprio voluto vedere. Non è quello del colorito Scilipoti, né quello della Polidori, in odore di Cepu. Non intendiamo infatti entrare nelle complesse transazioni che hanno attraversato il mercato della politica nell’ultimo scorcio di tempo. E’ il nome di Giuseppe Vegas, già sottosegretario al ministero dell’Economia e neo presidente della Consob. Non lo avremmo voluto vedere poiché quel ruolo, cui è chiamato chi il mercato lo deve controllare, avrebbe consigliato di astenersi dal partecipare alla votazione. La nomina del presidente Vegas, al di là dei meriti tecnici che in modo bipartisan gli sono stati riconosciuti, ha sollevato perplessità nell’osservare il passaggio, senza soluzione di continuità, da un ruolo politico a un delicatissimo ruolo di arbitro dei mercati di borsa. Per quanto Vegas sia formalmente ancora parlamentare in attesa di nomina nel nuovo prestigioso ruolo, avremmo apprezzato da lui un gesto di sensibilità che segnalasse, astenendosi dal partecipare alla votazione, che il candidato si sente già soggetto super partes e non, fino all’ultimo momento utile, soggetto politico in attesa di nuovo incarico.

Un vero esame per le banche europee

Le crisi bancarie sistemiche sono sempre difficili da risolvere. Se un sistema bancario malato rappresenta un serio ostacolo alla ripresa, ancor più grave è il fatto che costringe la zona euro a optare in modo sistematico per il salvataggio, invece che per la ristrutturazione, ogni qual volta un suo membro si trova in difficoltà. La soluzione passa per l’analisi della situazione patrimoniale delle banche, la ricapitalizzazione o l’eventuale ristrutturazione. Un processo forse traumatico. Ma rinunciarvi significa mettere in pericolo la stessa Unione Europea.

 

Sulle regole è tempo di realismo

A Seul con l’adesione del G20 all’accordo di Basilea 3 si è simbolicamente chiuso il ciclo di discussioni iniziato due anni prima a Washington. La dura realtà del mondo post-crisi lascia poco spazio alla retorica della rifondazione radicale del sistema finanziario. Bisogna invece concentrarsi su tre direttrici: dare maggiore rappresentanza alle economie emergenti nelle istituzioni internazionali, intensificare l’integrazione del mercato dei capitali, favorire il monitoraggio del sistema finanziario. Un’agenda certo più limitata. Ma rispettarla sarebbe già un successo.

 

Coincidenza di interessi

 

 

A un passo dal disastro

Il primo errore è stato il salvataggio della Grecia, per poi proseguire in un crescendo che ha finito per portare l’eurozona sull’orlo del disastro. I leader europei sperano di arginare la situazione rafforzando il Patto di stabilità o imponendo un meccanismo di ristrutturazione del debito sovrano. Entrambi richiedono un nuovo Trattato e dunque una ratifica da parte di cittadini europei, poco propensi a concederla in questo momento. E allora l’unica possibile soluzione è il ripristino della clausola del “no-bailout”: a imporre la disciplina fiscale ci penseranno i mercati.

 

Quanto costa salvare le banche

Il caso irlandese mette in luce che il costo dei salvataggi bancari può diventare determinante nel valutare la tenuta dei conti pubblici di un paese. Bisogna quindi saperlo misurare e tenerne conto nel rapporto debito/Pil, anche ai fini del nuovo Patto di stabilità in Europa. Una misurazione a valori di mercato ci mostra che l’Irlanda è il paese europeo nel quale l’onere, implicito nella garanzia di bail out del sistema bancario, è di gran lunga maggiore. L’Italia è quello che sta meglio tra i “periferici”. Ma la Germania è il paese più solido in Europa.

 

Pagina 64 di 114

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén