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LA MAFIA CON LO SCUDO

Solo una parte trascurabile dei capitali rientrati in Italia con gli scudi fiscali dei primi anni Duemila si è diretta verso investimenti a rischio nell’economia reale. Del terzo scudo potrebbero ora approfittare le holding mafiose. Legalizzando a costi molto bassi somme che potrebbero alimentare circuiti di usura e di appropriazione di aziende in difficoltà. Nel Mezzogiorno avremmo così il paradosso di misure apparentemente di lotta alla criminalità organizzata, ma che invece finirebbero per facilitare l’aggressione a quel che resta di economia legale.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Grazie per i commenti. Non si può non concordare con quello che interpreta l’episodio come un  sintomo della tensione tra una politica monetaria unica e un quadro di politica economica frammentato su linee nazionali. Aggiungo che in un momento in cui si avanzano con enfasi proposte per rifondare la finanza sulla base di regole e di richiami all’etica colpisce che un paese fondatore dell’UME proponga norme che, oltre ad andare contro consolidate regole contabili e fiscali, intaccherebbero l’indipendenza finanziaria e istituzionale della Banca d’Italia e dunque dell’Eurosistema di cui questa è parte integrante.  Da qui discendono, tra l’altro, le funzioni eminentemente pubbliche di un istituto di diritto pubblico. Questi aspetti non sono inficiati dal dato storico di banche e assicurazioni private, oltre a enti pubblici, tra gli azionisti. Un esempio a questo riguardo è la remunerazione puramente simbolica del capitale, mentre è lo Stato, tra imposte sui redditi societari e retrocessione che ottiene benefici prevalenti dalla redditività della Banca d’Italia.
Tornando alle regole che, se accettate, devono poi essere  rispettate se se ne vuole preservare la credibilità e quindi l’efficacia segnaletica nei confronti degli operatori di mercato, merita di essere sottolineato che  il secondo parere del 24 luglio della BCE; curiosamente, a differenza del primo, di questo non c’è sinora traccia nei comunicati stampa del MEF né  sul sito della Banca d’Italia) sull’emendamento all’originaria norma sulla tassazione delle plusvalenze auree è, se possibile, ancor più negativo (o se si vuole “più ostativo”) sui temi dell’indipendenza finanziaria e istituzionale della Banca d’Italia e dell’incompatibilità del divieto di finanziamento monetario del settore pubblico. Ciò lascia facilmente intravvedere il rischio concreto dell’apertura di una procedura d’infrazione per violazione delle prerogative della BCE ai sensi dell’art. 230 del Trattato.
Molte delle obiezioni all’emendamento presentato il 15 luglio erano prevedibili; non si può escludere che la durezza formale nelle dettagliate argomentazioni della BCE sia  stata stimolata anche dalle forme nella risposta al primo parere. Basta ricordare l’evoluzione nell’aggettivazione del previsto parere della BCE, da favorevole a non ostativo; un inciso, che si presta a interpretazioni beffarde, “ nella misura idonea a garantire l’indipendenza finanziaria e istituzionale della Banca centrale” in successive versioni dell’emendamento;  motivazioni nella lettera del Ministro al Presidente della Camera circa la ratio di un’imposizione sulle plusvalenze maturate, anche se non realizzate, che suggeriscono un’analogia, che non esiste nel nostro ordinamento, tra il trattamento fiscale dei redditi da capitale per le persone fisiche che sottoscrivono fondi comuni di diritto italiano e quello di una società.  

PERCHÈ LA BCE NON VUOLE LA TASSA SULL’ORO

La Bce ha dato parere negativo all’imposta sulle plusvalenze sulle riserve di metalli preziosi per uso non industriale, prevista nel decreto anticrisi. La norma metterebbe a rischio l’indipendenza finanziaria della Banca d’Italia, con ripercussioni negative sulla conduzione della politica monetaria dell’intero eurosistema. E potrebbe consentire l’aggiramento del divieto imposto dal Trattato al finanziamento dello Stato da parte della banca centrale nazionale. Un ripensamento sulla politica di riserve ufficiali potrebbe esserci alla scadenza del Gold Agreement.

LA DIFFERENZA FRA UNO SCUDO E UNA DISCLOSURE

Lo scudo fiscale italiano non è la stessa cosa della dichiarazione volontaria sui capitali esportati introdotta negli Stati Uniti. La filosofia dei due provvedimenti è completamente diversa. Il nostro è anonimo, mentre negli Usa è previsto un pieno disvelamento dell’esportatore di capitali. Di là dell’oceano si devono pagare le imposte eventualmente evase, da noi c’è appunto la salvaguardia dello scudo. E dunque si tratta di un condono. Dal quale però restano comunque escluse le violazioni Iva, sulla base delle norme europee.

MAI PIÙ CONDONI. DOPO IL PROSSIMO

L’evasione sembra imbattibile. Il ministro Tremonti confida troppo nel federalismo fiscale, mentre dovrebbe ripristinare le misure per la tracciabilità dei flussi commerciali e finanziari che il suo predecessore Visco aveva introdotto. Ma è un’ipotesi che non sembra politicamente praticabile. Si avvicina allora, a dispetto di ogni solenne promessa, un nuovo condono

LA RICERCA DIMENTICATA

La manovra approvata dal Consiglio dei ministri contiene una serie di interventi per il sostegno alle imprese. Ma nulla cambia per gli investimenti in ricerca e innovazione. Le agevolazioni continuano a essere governate da un meccanismo complesso di prenotazione e autorizzazione che non dà alcuna garanzia alle aziende. Manca il ritorno all’automaticità del credito d’imposta chiesto da Confindustria. A parole, tutti continuano a dirsi convinti che ricerca e innovazione sono vitali per la crescita del paese. Ma agli annunci non seguono comportamenti coerenti.

CHI VINCE CON LA MANOVRINA

Deluso chi si attendeva misure più incisive a sostegno del reddito dei soggetti più poveri. Il governo annuncia un allargamento per via amministrativa della platea della social card, ma restano comunque invariate le risorse stanziate. L’incentivo Tremonti è una detassazione, parziale e temporanea, degli investimenti comunque finanziati. Non premia le imprese che rafforzano la struttura patrimoniale o quelle che hanno difficoltà di accesso al credito. La norma sostiene solo il settore meccanico. E rischia di essere particolarmente onerosa per il bilancio pubblico.

L’EVASORE FINALE

Alcune delle ragazze ingaggiate da Tarantini per incontrare Berlusconi hanno dichiarato ai giornali di essere state compensate a fronte di ben precise prestazioni di lavoro (circostanza che, però, Tarantini nega).
Barbara Montereale dichiara di avere ricevuto un “gettone di presenza” di 1000 euro per la sua prestazione come “ragazza immagine” e sempre 1000 euro è quello che dichiara di avere ricevuto Patrizia D’Addario per un’analoga prestazione: «Era notte, quindi sono andata in albergo e Giam­paolo mi ha detto che mi avrebbe dato soltanto mille euro perché non ero rimasta». La tariffa sembrerebbe quindi essere differenziata giorno/notte. “la ragazza che dovrà restare a letto, se è una escort, … sicuramente …viene pagata”, ci ricorda ancora, nella sua videointervista a Repubblica, Barbara Montereale.
Quale rilevanza fiscale hanno nel nostro ordinamento queste tipologie di compensi (se) ricevuti a fronte di prestazione di servizi?
Se “le ragazze” hanno partita Iva, avrebbero dovuto rilasciare regolare fattura e addebitare all’acquirente l’Iva del 20%. Dovrebbero poi dichiarare in Irpef il reddito percepito.
Se invece il provento fosse stato corrisposto a fronte di prestazioni occasionali (o anche di attività illecite come la prostituzione) l’Iva non sarebbe dovuta, ma il reddito andrebbe comunque dichiarato nella categoria dei “redditi diversi” ai fini dell’Irpef. L’Irpef è quindi sempre dovuta, come è giusto che sia: in definitiva i 1000 euro presi in un giorno sono pari a quanto prende, all’incirca, in un mese, una larga parte dei lavoratori dipendenti per i quali l’Irpef è direttamente trattenuta dal datore di lavoro.
 Si può dunque prevedere uno sviluppo dell’affaire anche sul fronte fiscale. La Guardia di Finanza, che sta indagando sulla vicenda, appurerà non solo se questi corrispettivi siano stati effettivamente erogati, ma anche se, in relazione ad essi, siano stati assolti gli obblighi tributari previsti o non siamo invece di fronte all’ennesimo caso di evasione fiscale.
 Anche questi sono problemi, di non poco conto, di moralità pubblica.

UN ANNO DI GOVERNO: FISCO

 

I PROVVEDIMENTI

Dal suo insediamento a oggi il governo è intervenuto massicciamente in campo fiscale; A questo attivisimo non si è accompagnata una diminuzione della pressione fiscale.
Dopo l’abolizione dell’Ici- prima casa e la detassazione di straordinari e premi di produzione, allo scopo di dare seguito alle promesse elettorali di riduzione delle imposte, il governo ha introdotto nuove forme di prelievo (la cosiddetta “Robin tax”) per esigenze di gettito – il finanziamento della “manovra triennale”.
È stata poi la volta delle misure “anticrisi”, del novembre 2008 e del gennaio 2009, con una molteplicità di interventi in campo fiscale, di vario segno: entrambi i decreti sono infatti a saldo pressoché nullo e le minori entrate e maggiori spese previste sono finanziate in larghissima parte con aumenti di imposte. E di varia natura: a volte nuovi, a volte riedizioni del passato, temporanei o permanenti, rivolti a diversi soggetti (famiglie o imprese) e con obiettivi diversi. Si possono citare, in un elenco certo non esaustivo:

  • la deduzione del 10 per cento dell’Irap dall’imponibile Ires e Irpef: uno sgravio fiscale, a carattere permanente, rivolto prevalentemente alle imprese, attuato allo scopo principale di prevenire o ritardare un intervento sanzionatorio da parte della Corte costituzionale in materia;
  • la detrazione del 20 per cento dall’Irpef per l’acquisto di alcuni beni durevoli, come frigoriferi, mobili e computer: un incentivo fiscale temporaneo, che ha affiancato i bonus per l’acquisto di autovetture, allo scopo di aiutare i settori economici maggiormente in crisi;
  • il concordato preventivo per i distretti: una riedizione, con qualche modifica, di un incentivo già tentato, ma senza concreta attuazione, dal passato governo di centrodestra
  • gli incentivi fiscali alle riorganizzazioni aziendali, come le fusioni e scissioni: riedizione, con modifiche, di un incentivo di carattere temporaneo alle imprese;
  • le imposte sostitutive connesse a riallineamenti contabili da parte delle società e delle imprese: un aumento di prelievo di natura “volontaria”, che consentirà alle aziende, pagando di più oggi, di pagare meno in futuro, con simmetrici effetti sul bilancio dello Stato;
  • la “porno tax”: riedizione di un tentativo, in passato abortito, di prelevare imposte più elevate sui redditi generati da vendita di materiale pornografico, esteso ora anche a chi guadagna abusando della credulità popolare tramite trasmissioni televisive o numeri telefonici a pagamento.

Infine, alcuni provvedimenti si sono resi necessari per fronteggiare l’emergenza del terremoto in Abruzzo. Per non “mettere le mani nelle tasche dei cittadini”, come hanno ripetutamente rassicurato Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti, si è fatto ricorso, dal lato delle entrate, a imposte sui giochi, da cui ci si attende un ammontare complessivamente pari a 1,5 miliardi fra il 2009 e il 2011, in grado di fornire, da solo, quasi il 75 per cento della copertura delle spese previste per il medesimo triennio. Si tratta di imposte a carattere regressivo e “sugli stupidi”, come ebbe occasione di definirle Einuadi, proprio perché basate su aspettative irrazionali, dal punto di vista probabilistico, di vincita.
Tra gli interventi fiscali del governo andrebbero poi sottolineati i nuovi orientamenti nel campo delle azioni di contrasto all’evasione: hanno smantellato un insieme di importanti provvedimenti di prevenzione messi a punto dal governo precedente a favore di riedizioni aggiornate del redditometro e di altre forme di accertamento sintetico. Hanno anche ampiamente rivisto, riducendole, le sanzioni in caso di mancato o ritardato pagamento delle imposte.

GLI EFFETTI

Èdifficile, se non impossibile, valutare gli effetti economici sui comportamenti dei contribuenti e  gli effetti distributivi di questa miriade di difformi interventi. Nell’insieme, l’impressione è negativa, non solo perché si aumenta la pressione fiscale complessiva nonostante la congiuntura economica sfavorevole, ma soprattutto perché gli interventi non sembrano “mirati” e adeguati neppure dal punto di vista micro o settoriale, né per affrontare la crisi, né per migliorare la struttura e razionalità del nostro sistema tributario.
abolizione Ici prima casa, oltre ad avere effetti redistributivi negativi, pone problemi all’attuazione di un federalismo responsabile, che come è noto dalla letteratura e dalle esperienze internazionali ha come cardine proprio l’imposta immobiliare, anche sulla prima casa. La “Robin tax” non esprime un sistema organico e coerente di tassazione degli extraprofitti come era la Dit, con lo scopo di detassare il rendimento normale, in caso di finanziamento con capitale proprio, ma è una sorta di tassazione arbitraria di alcuni settori produttivi dove si “riteneva” più facile poter prelevare gettito: l’imperfetto è doveroso, perché questi settori – petrolifero, bancario e assicurativo – hanno poi particolarmente sofferto la caduta del prezzo del petrolio e la crisi finanziaria e, nel caso delle banche, sono anche stati oggetto di successivi interventi di sostegno.
Col senno di poi, anche la detassazione degli straordinari, introdotta sull’onda del successo elettorale, si è presto rivelata anacronistica. Detassazione degli straordinari e dei premi di produzione (quest’ultima ancora in vigore) aprono inoltre un vulnus nella struttura dell’Irpef alterandone equità ed efficienza, in quanto tassano in modo agevolato un particolare segmento della sua base imponibile – il reddito complessivo del contribuente – e si prestano ad abusi. Il più recente intervento sull’Irap, un intervento di struttura, è quantitativamente ben poco rilevante ed è impensabile attribuire a esso effetti economici di rilievo, ad esempio sulla riduzione del costo del lavoro. Gli incentivi all’acquisto di beni durevoli presentano alcune complessità di attuazione e, se si esclude un qualche effetto sul mercato dell’auto, è difficile ritenere che abbiano un impatto di rilevo sulla domanda.
Si potrebbe continuare, ma nel complesso si tratta comunque di interventi frammentari, mai ispirati a un disegno o a un percorso coerente di riforma, per lo più rivolti a rispondere a specifiche esigenze, a volte confidando sul solo effetto annuncio. Continuano poi a riemergere incentivi che da temporanei tendono nel tempo a diventare permanenti e a cui se ne affiancano di nuovi, che pur nascendo temporanei, rischieranno a loro volta, con modifiche e interruzioni, di divenire permanenti. Nonostante ciò, non ne vengono a posteriori mai monitorati o resi noti i relativi effetti, e la loro importanza, rispetto ai costi che comportano in termini di mancato gettito. Il fisco, intanto, si riempie di eccezioni, diventa meno comprensibile e certo per il contribuente e perde le sue caratteristiche originarie di equità ed efficienza. 
Non è questo il fisco che servirebbe in periodi di crisi.

IL FEDERALISMO SECONDO TREMONTI

Approvata definitivamente la legge delega sul federalismo fiscale, resta ora la partita della sua attuazione. Ed è tutta da giocare perché i principi contenuti nella delega sono molto generali e possono dar luogo a esiti assai differenziati. Come correttamente ci ricorda il ministero dell’Economia, la completa riscrittura della struttura della spesa e delle entrate pubbliche auspicata dalla legge manca ancora sia dei supporti fondamentali di conoscenza sia delle scelte politiche che ne caratterizzeranno il mix finale fra autonomia e solidarietà nazionale.

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