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QUESTO SALVATAGGIO PREMIA I CATTIVI GESTORI

Il salvataggio di Fondiaria-Sai proposto da Unipol è un ottimo esempio di schema finanziario rivolto ad acquistare una società quotata senza alcun vantaggio per i piccoli investitori. La legge prevede l’obbligo di Opa a cascata quando si acquista la controllante di una società quotata. Ma l’operazione potrebbe essere ritenuta lecita perché diretta al salvataggio di una società in crisi. Il gruppo di controllo che ha condotto Fonsai sull’orlo del baratro potrebbe così deciderne il destino. Tutto in nome della stabilità. E benché non manchi l’interesse di grandi compagnie straniere.

QUELL’ABBRACCIO MORTALE FRA FONDAZIONI E BANCHE

Le vicende di Mps e di Unicredit confermano quanto sia opportuna la separazione tra fondazioni e banche conferitarie. Le fondazioni potrebbero perseguire i loro obiettivi statutari. E migliorerebbe la governance delle banche, aprendo a soggetti che hanno come obiettivo primario la massimizzazione del loro valore. È una riforma degli assetti proprietari del nostro capitalismo utile ora, nell’immediato della crisi, e dopo, quando sarà finita. Perché renderebbe più efficienti e più stabili le banche italiane, contribuendo al rilancio di tutto il nostro sistema produttivo.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringrazio i lettori e in primo luogo offro una prima risposta collettiva: non esistono pasti gratis.
I commenti pervenuti rappresentano una efficace sintesi  di tutti i problemi (e non sono pochi) tra i quali bisogna districarsi per realizzare una auspicabilmente  efficiente sistema dei controlli societari.
Armando Guerra,  ad esempio, richiama il rischio che ogni tentativo di snellimento sia bloccato sul nascere da chi è troppo appassionato di burocrazia, oppure più prosaicamente da chi vuole proteggere propri interessi corporativi: ha ragione, ma lo invito a leggere meglio l’articolo, perché il mio sforzo non è affatto quello di annullare i benefici delle nuove norme, ma di evitare l’inutilità dei controlli, proponendo una suddivisone tra sindaco unico nelle realtà imprenditoriali minori e collegio in quelle maggiori,  come suggerisce anche Giacomo Giuritano.
Nessuno nega che finora i controlli interni delle società abbiano messo  in evidenza più di una criticità, se non proprio buchi neri, come quelli che richiama L. Scalzo, ma o li aboliamo, o cerchiamo di andare oltre gli anatemi individuando una strada per una equilibrata riforma. Il percorso da me indicato cerca di essere un contributo, per renderli  semplici, indipendenti autonomi ed efficaci.
Un contributo discutibile finchè si vuole, ed anzi questo dibattito meriterà molti approfondimenti , ma che si fonda su due banalissimi presupposti, spesso dimenticati.
Il primo è che i controlli interni sono e continuano comunque ad essere utili e il secondo è che, se si condivide questo orientamento, bisogna anche accettare il fatto che costano.
Non è un caso che tutti i più recenti studi  sulla  governance societaria mettono in rilievo il loro ruolo centrale nella prevenzione e nel monitoraggio dei nuovi rischi emersi dopo la crisi finanziaria, ed anche i paesi anglosassoni, a proposito di quello che dice Ottavia, stanno rivedendo le loro posizioni sul sistema monistico che oggettivamente li indebolisce.
Infine,  per quanto riguarda la domanda sugli stakeholder che controllano le relazioni  dei collegi sindacali delle piccole imprese,  sicuramente non sono molti, ma, a proposito di trasparenza,  ve lo immaginate cosa sarebbero gli stessi bilanci senza nemmeno quelle tanto bistrattate relazioni?

LE SOCIETÀ E I RISCHI DEL SINDACO UNICO

La legge di stabilità ha modificato il sistema dei controlli interni delle società. Ora tutte le srl e le spa con ricavi o patrimonio netto inferiori a un milione di euro possono nominare un solo sindaco invece di un collegio sindacale. È sacrosanto liberare le imprese da oneri normativi che ne bloccano lo sviluppo. Ma un buon sistema di controllo significa aiutarne la maturazione verso assetti più efficienti e trasparenti. Proprio quello di cui le piccole e medie imprese avranno sempre più bisogno. Ed è illusorio fare affidamento sulle capacità di autocontrollo dei soci.

DONNE NEI CDA: ANCORA TUTTO IN FAMIGLIA*

In Italia la presenza femminile ai vertici delle imprese è ancora molto scarsa. In agosto, però, è entrata in vigore la legge che impone alle società quotate di riservare alle donne almeno un terzo delle posizioni in consiglio di amministrazione. Cosa dobbiamo aspettarci? Un’analisi sulle consigliere attuali suggerisce che è fondamentale una selezione attenta a competenze e qualità, piuttosto che ai legami con le imprese. E va associata a processi di formazione dei nuovi membri dei consigli. Ne potrebbero trarre benefici significativi soprattutto le società la cui governance non è ottimale.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Grazie ai lettori per i commenti, sia perché mi consentono di specificare alcuni profili sacrificati dalla sintesi dell’articolo, sia perché offrono spunti per ulteriori approfondimenti.
Il primo aspetto importante: è evidente che le fondazioni devono innanzitutto guardare ai dividendi che ottengono dalle partecipazioni  bancarie, ma è inutile, in una prospettiva di medio lungo termine, farsi illusioni: non saranno più i succosi dividendi del passato, al contrario la prospettiva  è decisamente magra e inviterei i lettori a non essere più realisti del re. Nel mio articolo  cito la “Carta delle Fondazioni” che l’ACRI intende, meritoriamente, elaborare. E’ la stessa ACRI a dire, testuali parole, “L’evoluzione del ruolo delle fondazioni richiede una programmazione puntuale nel medio lungo periodo, con la conseguente necessità di poter contare su flussi costanti di introiti derivanti dall’investimento dei patrimoni”. Se questo non significa aprire la strada ad una seria diversificazione degli investimenti, nella consapevolezza di non poter più fare affidamento nel bengodi dei dividendi bancari.. …..
La mia proposta prevede che l’insieme delle partecipazioni sia gestita da  intermediari specializzati che da un lato  possano “far massa” e quindi valorizzare maggiormente l’investimento, dall’altro introdurre un elemento di separazione tra le fondazioni e le banche (ad esempio provvedendo a nomine dove siano più forti le qualità professionali e di indipendenza degli amministratori). Un lettore sostiene, a ragione, che questo comunque non elimina del tutto l’intreccio e il rischio di conflitti di interesse, ma premesso che la soluzione perfetta non esiste,  sicuramente contribuisce ad attenuare queste criticità. E’ poi del tutto evidente, che queste soluzioni si possono realizzare solo sul piano volontario e dell’autoregolamentazione: nessuno le deve imporre, a mio parere è nell’interesse stesso delle fondazioni adottarle.
L’altra obiezione significativa di molti lettori riguarda il ruolo delle fondazioni nel sostegno  alle piccole banche locali in grado di favorire lo sviluppo dei territori. Nessuno nega questo ruolo ma la domanda è: siamo cosi’ sicuri che una piccola impresa per crescere non abbia bisogno di servizi e strumenti che solo grandi intermediari sono in grado di offrire? Se continuiamo  a commiserarci  (come il lettore che si rassegna al fatto che “la nostra realtà economica non permette megabanche”) daremo ragione, e mi scuso per l’ autocitazione di un mio precedente articolo, al  Presidente francese Sarkozy, che nell’ultimo incontro bilaterale ha candidamente dichiarato, a proposito della vicenda Parmalat, che Francia e Italia possono felicemente  integrarsi perchè intanto noi abbiamo il 90 per cento di piccole imprese,  mentre alle grandi ci pensano loro!  

FONDAZIONI, È ORA DI CAMBIARE PELLE

La tumultuosa estate dei mercati lascia sul campo molti feriti. Può però rappresentare una buona occasione per riforme che in tempi normali incontrerebbero molti ostacoli. Come nel caso delle fondazioni bancarie. Le risorse messe a disposizione dalle fondazioni per le comunità hanno giocato un importante ruolo integrativo se non sostitutivo nel welfare locale. Ed è un compito che sempre più saranno chiamate a svolgere. Conviene allora che continuino a mantenere l’intreccio, spesso assai costoso, con le banche?

CONTRORDINE CONSOB: LE SCALATE NON FANNO BENE

L’Opa è stata al centro della relazione del presidente Consob al mercato finanziario. Preoccupa il rischio di distruzione di valore e di inefficienze nella governance post-Opa. Preoccupazione certamente condivisibile, ma è rivolta solo agli investitori stranieri o anche agli italiani? Alcune soluzioni sono già nelle modifiche al regolamento emittenti. E se la maggiore tutela delle minoranze non ha dato i frutti sperati, non si capisce perché aumentare gli ostacoli a chi voglia lanciare un’Opa dovrebbe indurre i risparmiatori italiani a investire nella Borsa.

LA PARTITA È SOLO ALL’INIZIO

La caduta di Geronzi non significa un rinnovamento del capitalismo italiano perché i nuovi attori non hanno proposto un disegno alternativo, ma hanno semplicemente costruito nuovi intrecci che si sono avviluppati intorno a quelli vecchi. La novità invece è la sempre più attiva partecipazione dei fondi internazionali alle assemblee. Si profila dunque uno scontro duplice: da un lato quello fra protagonisti vecchi e nuovi del nostro capitalismo di relazioni e dall’altro quello fra la via italiana alla governance dei grandi gruppi e le prassi dei mercati internazionali.

 

A VOLTE RITORNANO: L’IRI

La nostalgia per il ritorno del capitalismo di Stato è oggi forte in Italia. Tanto da sfociare in un decreto che consente alla Cassa depositi e prestiti di assumere partecipazioni in società di rilevante interesse nazionale. L’attuale irresistibile desiderio di italianità delle imprese porta però alla riproposizione di un’Iri tutta particolare, perché le sue risorse derivano dalla raccolta postale. Forse, bisognerebbe provare a raccontare la realtà anche dalla parte di chi acquista i prodotti e utilizza i servizi.

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